LE GRANDI BUFALE DI OBAMA SULLA CATTURA DI OSAMA

La cattura di Osama bin Laden? Una farsa. Le lunghe ricerche e investigazioni degli agenti Cia? Un’invenzione. I pedinamenti dei corrieri che lavoravano per la primula rossa delle terrorismo internazionale? Inventati di sana pianta. La storia è molto più semplice: bin Laden fu venduto agli Usa per soldi da un ex ufficiale dei servizi segreti pakistani che indicò con precisione il luogo dove si trovava il super ricercato. A sgonfiare la mitica cattura e a infliggere un duro colpo alla credibilità di Obama e dei suoi Servizi è il Pulitzer 1970 Seymour Hersh, autore di un saggio appena pubblicato sulla London Review of Books. Una storia che – con le dovute proporzioni – ricorda molti aspetti di una celebre cattura di casa nostra: quella, altrettanto mitica, di Totò Riina, valsa fama perenne a uno dei suoi artefici, il capitano Ultimo, immortalato per le fiction da Raul Bova, e ancor oggi tra gli 007 più acclamati. Anche allora, vent’anni fa, il colonnello Mori al comando del Ros e il suo braccio destro il Sergio De Caprio-Ultimo magnificarono la super operazione, frutto di mesi e mesi di appostamenti, pedinamenti, controllo a tappeto del territorio. Un’autentica bufala, invece: perchè a dare precise indicazioni sul covo di Riina fu lo stesso Provenzano, che in quel modo riuscì a garantirsi anni e anni di libertà.
Paese che vai Servizi che trovi. Ma tutti egualmente capaci di nascondere regolarmente le verità? Dare versioni sballate? Inventarsi storie di sana pianta da propinare ai cittadini quando il copione è del tutto opposto? Forse è proprio così. Ed è la precisa impressione che si ricava leggendo le ultime parole del saggio di Hersh, che in passato alzò il velo – da gran giornalista investigativo – sulla strage di My Lai, in Vietnam, e più recentemente sulle torture di Abu Ghraib. Così conclude: “Un alto livello di menzogna rimane il modus operandi della politica Usa, così come le prigioni segrete, gli attacchi dei droni, i raid notturni delle Forze Speciali, bypassando tutte le catene di comando e tagliando fuori quelli che potrebbero dire di no”.
Schermata 2015-05-15 alle 10.07.53A quanto pare, le menzogne a stelle e strisce continuano fino ai nostri giorni, con l’uccisione via drone a stelle e strisce del cooperante italiano in Pakistan Giovanni Lo Porto, circostanza a quanto pare ben nota ad Obama al recentissimo incontro con Renzi. E – di storia in storia – le menzogne sulla tragedia del Cermis? Quelle su un’altra strage che ancora grida vendetta e non vede i colpevoli in galera, Ustica? E poi, cambiando registro, per il rapimento di Abu Omar, in piena combutta con i servizi di casa nostra, numero uno del Sismi Nicolò Pollari? Una storia, quest’ultima, che continuiamo a raccontare sulla Voce, perchè porta ai dossieraggi illegali di magistrati e giornalisti tra il 2001 e il 2006, quando l’esecutivo Berlusconi andava a caccia di streghe e “oppositori”.
Questo sul “fronte” italiano. Mentre – a livello internazionale – pesano sempre come macigni i dubbi sull’11 settembre, una tragedia che ha cambiato i destini del mondo (da allora in poi mano libera alla Cia e al National Security Agency nella lotta al terrorismo, calpestando tutti i diritti). Una “tragedia” pilotata, come ha subito sostenuto Giulietto Chiesa, che ha scritto un fondamentale “Zero – Inchiesta sull’11 settembre” e decine di articoli per mostrare e dimostrare che quell’11 settembre puzza lontano un miglio di Servizi a stelle e strisce. Anche Ferdinando Imposimato, incaricato di preparare un rapporto per il tribunale dell’Aja sull’11 settembre, solleva una sfilza di pesantissimi dubbi: che vanno dagli stretti rapporti del capo commando Mohamed Atta con la Cia (tanto che per un anno circa ha volato indisturbato per gli Usa pur essendo un super ricercato) fino all’insider trading sulle torri saltate (come se in Borsa circolasse già un lugubre tam tam). Ed insieme, Chiesa e Imposimato, lo scorso 8 maggio a Roma hanno parlato ancora di quella tragedia, portando in campo anche dati tecnici e “ingegneristici” che corroborano la tesi di una o più, pare almeno quattro, contestuali esplosioni partite all’interno delle Torri.
In attesa di un altro dossier per la penna di Hersh, dedicato alle Twin Towers (e caso mai anche sulla recentissima eliminazione del numero 2 dell’Isis, Al-Afri, per qualche mistero che non manca mai) torniamo al caso bin Laden. Secondo il Pulitzer ’70, Osama era già in mano ai servizi segreti pakistani (l’ISI) dal 2006, tenuto prigioniero in un complesso residenziale di Abbottabad, ad una cinquantina di chilometri dalla capitale, Islamabad. Quattro anni dopo, nel 2010, avviene il “miracolo”: un ex ufficiale dell’Isi entra in contatto con l’intelligence Usa. E’ interessato alla “taglia”, i 25 milioni di dollari per chi fornisce informazioni utili alla cattura di Osama. Dà la dritta, le coordinate giuste; gli americani, comunque, si comportano da signori, avvertono i pakistani, non faranno un blitz ma un’operazione targata Navy Seals che parte da una postazione in Afghanistan. I pakistani, dal canto loro, non intervengono, non lanciano alcun allarme quando vengono segnalati gli elicotteri a stelle e strisce. Non ci sono fiamme e incendi, perchè Osama non morirà bruciato ma ammazzato. Gli Usa, dice Hersh, non lo volevano certo vivo (come sarebbe stato invece utile, per un nemico al quale si voglia far vuotare il sacco). E anche da morto, l’ennesima bugia. Il corpo non viene “sepolto in mare”, anche per rispettare il rito islamico, come invece si fa credere. Ma viene caricato a bordo di un elicottero e, durante il viaggio di ritorno da Abbottabad, gettato tra i dirupi e le montagne dell’Hindu Kush.
“Tutto quello che sai sulla morte di bin Laden è falso”, ha titolato un sito americano. Del resto, una dozzina d’anni fa proprio dagli Usa, patria di menzogne di Stato (come del resto il Belpaese), sbarcava un volume dall’inequivocabile titolo: “Tutto quello che sai è falso”: una quindicina di reportage da brividi che documentavano – carte alla mano – come ormai dilagasse l’epidemia di “bufale”, progettate, costruite e realizzate spesso e volentieri a tavolino, vuoi dai colossi del farmaco per vendere vaccini (suine e mucche pazze docent), dall’industria delle armi per promuovere guerre, o dallo stesso establishment Usa per crearsi i propri nemici. Del resto, è lunga la storia dei “nemici” allevati in casa e poi utilizzati per inventar conflitti. Come insegnano gli esordi di Saddam Hussein e i suoi “investimenti” negli States: una sigla a lui riconducibile, infatti, era azionista nella società di gestione dell’aeroporto di Los Angeles. E dello stesso “inafferrabile” bin Laden, ospite a pranzo, nella villa di George W. Bush, in compagnia del celebre tennista Bjorn Borg e della sua allora compagna, Loredana Bertè, secondo il racconto del legale di quest’ultima, l’avvocato Carlo Taormina, certo non sospetto per simpatie bolsceviche.
Incredibili, tornando a casa e a Cosa nostra, le analogie con la cattura del Mafioso numero 1 dell’epoca, Totò Riina. Una delazione, un racconto dal ventre mafioso, un lasciapassare per altre trame e altri affari. Una trattativa, forse la vera Trattativa Stato-Mafia, perchè in cambio della cattura del super boss, lo “Stato” e i suoi servitori non perquisiscono per la bellezza di due settimane il covo di tutti i Segreti, maison Riina. Lo faranno in tutta comodità, dopo 15 giorni, trovando l’abitazione tinteggiata a fresco, rifatti i bagni e, soprattutto, sparita la cassaforte. Quali segreti – volatilizzati – avrà mai racchiuso? Un archivio da 3000 nomi: i fiancheggiatori – quelli veri – della Mafia. I colletti bianchi. I politici di riferimento. Gli imprenditori collusi e di copertura. Ma chi lo dichiara? Un insospettabile. Lo stesso, mitico Ultimo che nel corso di un’udienza per un altro procedimento penale, fa il più classico degli autogol: “non ho mai detto – sottolinea – che nel covo di Riina ci fosse un archivio con 3000 nomi”. Excusatio non petita. La circostanza, del resto, viene confermata da diversi collaboratori di giustizia. Esplosiva, in particolare, la verbalizzazione di Giusy Vitale: “Se scoprivano cosa c’era in quella cassaforte e in quell’archivio saltava il Paese”.
Così giustificò, nel corso del processo per la mancata perquisizione del covo, il generale Mori: “La truppa era stanca, non potevamo continuare una lavoro così pesante. Per questo il mancato monitoraggio dell’abitazione per quel lasso di tempo. Ma la situazione era sotto controllo”. Tanto sotto controllo che il famigerato archivio da tremila nomi bollenti è sparito. Per i pm di allora – tra cui Antonino Ingroia – nessun reato. Servizi perfetti e tutti, al solito, felici e contenti.


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