Una lunga intervista dello scrittore spagnolo Alfonso Armada al filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, appena uscito col suo “Nello sciame. Visioni dal digitale”: tutte le trappole e gli inganni del web e della nostra odierna prigione quotidiana, il panottico digitale.
“La folla che tante conquiste ha ottenuto in passato è oggi uno sterile sciame. Il mondo virtuale ha perso ogni distanza e quindi rispetto. L’anonimato e la trasparenza sul web sono un male assoluto. La cultura della ‘condivisione’ è la commercializzazione radicale della nostra vita. Internet non unisce ma divide. Genera un venefico narcisismo digitale. La sua estrema personalizzazione restringe, paradossalmente, i nostri orizzonti. E divora le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa”. Così presenta Repubblica cultura – in una stimolante intervista di Antonello Guerrera – il fresco di stampa “Nello sciame. Visioni del digitale” (edizioni Nottetempo), breve ma densissimo pamphlet del filosofo emergente Byung-Chul Han, sudcoreano da molti anni trapiantato a Berlino dove insegna Filosofia e Studi Culturali all’Universitat Der Kunst (l’università delle belle arti). Di particolare interesse anche le tre precedenti opere, “La società della stanchezza”, “La società della trasparenza” e “Razionalità digitale – La fine dell’agire comunicativo”.
Due mesi fa Byung-Chul Han era stato intervistato – per il settimanale ABC – dal giornalista e scrittore Alfonso Armada, per sei anni corrispondente di Abc da New Yortk. Armada, tra l’altro, è il fondatore del periodico digitale “FronteraD”, in vita dal 2009, sottotitolo “una rivista digitale per le immense minoranze” (perchè col suo “giornalismo narrativo, la cronaca e il saggio, vuole ‘spiegare’ il mondo a chi si fa delle domande: una immensa minoranza”). Ecco, di seguito, i passaggi salienti della lunga intervista di Armada al filosofo sudcoreano.
Nel suo saggio “Psicopolitica”, lei sostiene che la libertà è stata solo un episodio, che oggi noi viviamo in un luminosa e interconnessa illusione di libertà, niente altro, in realtà, se non una volontaria schiavitù di solitudini senza fine. E così terribile la nostra realtà?
Viviamo realmente in una illusione di libertà. Non siamo tanto liberi. Si vede che la comunicazione che si considera libertà si trasforma in vigilanza. Comunicazione e trasparenza producono un obbligo al conformismo. Abbiamo l’impressione di non essere per niente dei soggetti sottomessi, ma anzi di vivere dentro un progetto che si rinnova, si reinventa e si migliora senza fine. Il problema è che questo progetto si rivela come una figura forzata. L’Io come progetto rivela delle coercizioni del proprio Io, che si riflettono, per esempio, nell’aumento di rendimento o nella ottimizzazione. Viviamo in una particolare fase storica in cui la propria libertà genera coercizioni. Secondo Marx il lavoro porta all’alienazione. L’Io si distrugge per il lavoro. Si aliena dal mondo. Nella nostra epoca il lavoro si presenta in forma di libertà e di autorealizzazione. Mi (auto)sfrutto, però credo di realizzarmi. In quel momento non compare la sensazione di alienazione. In questo modo, il primo stadio della sindrome di burnout (“mi brucio” per stress da lavoro, ndr) è l’euforia. Pieno di entusiasmo, mi tuffo nel lavoro fino a cadere sfinito. Mi realizzo fino a morire. Mi ottimizzo fino alla morte. Sfrutto me stesso fino a consumarmi. Questo autosfruttamento è molto più efficace rispetto allo sfruttamento operato da un terzo al quale si riferiva il marxismo, perchè è accompagnato da un senso di libertà.
Le sue opere aiutano con la loro chiarezza a capire il momento in cui viviamo perchè la gente è smarrita e le sue opere fanno luce su questo smarrimento?
Nei miei libri descrivo da dove viene questo smarrimento. Capisco bene gli spagnoli perchè quello che oggi sta soffrendo la Spagna è quello che ha sofferto la Corea del Sud. Dopo la crisi finanziaria asiatica è arrivato il Fondo Monetario Internazionale come un diavolo che ci ha dato i soldi però ci ha rubato l’anima. Ora i coreani soffrono una enorme pressione competitiva e di rendimento. La solidarietà si disintegra. La gente è ammalata di depressione e di sindrome del burnout. Nella Corea del Sud c’è la più alta percentuale di suicidi al mondo. Ovviamente la gente non riesce a reggere questo stress. E quando fa fiasco non colpevolizza la società ma se stessa. Per questo ha vergogna e si suicida. La crisi economica ha provocato una frattura sociale e una paralisi fra la gente.
Secondo lei il capitalismo si dematerializza, si converte nel neoliberismo e trasforma il lavoratore in piccolo imprenditore che sfrutta se stesso nella sua impresa. Non c’è via d’uscita? Abbiamo ancora un ‘che fare’?
Risulta che il sistema neoliberista è molto stabile e inalterabile. Noi ci sentiamo liberi mentre non facciamo altro che sfruttare noi stessi. Questa libertà immaginaria impedisce ogni forma di resistenza, blocca ogni rivoluzione. Durante l’epoca del Muro di Berlino esisteva un nemico con il quale si era in guerra. Oggi questo nemico non esiste più. Oggi la gente è in guerra con se stessa. Oggi siamo in una guerra senza muro e senza nemico.
In “Eros in agonia” lei si rifà a Barthes e ai suoi “Frammenti di un discorso d’amore” per parlare dell”altro’ che fa tremare la voce. Lo ha sperimentato? Non glielo chiedo per una curiosità fine a se stessa, giornalistica oppure filosofica: ma deve sperimentare, sentire il filosofo quello che dice?
Io non ho uno smarthphone. Nonostante ciò, ne ho scritto molto. L’importante, per la filosofia, non è l’esperienza personale, ma la capacità immaginativa. Mediante l’immaginazione è possibile vedere le cose in modo molto più chiaro che attraverso l’esperienza diretta.
Si è sbagliato Orwell, come tanti altri visionari? Il sistema si è reso conto che risulta molto più semplice sedurre che obbligare e che lungo il percorso si trovano tanti volontari pronti a convertirsi con entusiasmo all’autosfruttamento?
Non direi che Orwell ha preso un abbaglio. Descrive il suo mondo che non è il nostro mondo. Lo stato poliziesco di Orwell con i suoi telescreen e le sue camere di tortura, è diverso dal panottico (il carcere ideale progettato a fine ‘700 dal giurista Jeremy Bentham, ndr) digitale rappresentato da internet, i telefoni intelligenti e i Google Glass, che è caratterizzato dall’illusione di libertà e dalle comunicazioni illimitate. Qui non si tortura, ma si posta e si twitta. Il controllo che coincide con la libertà è di gran lunga più efficace rispetto alla vigilanza che si dirige contro la libertà. Il linguaggio ideale nello stato di polizia descritto da Orwell si chiamava ‘Neolingua’, che aveva un solo obiettivo: limitare lo spazio del pensiero. I crimini del pensiero devono essere impediti con l’estinzione delle parole che sono necessarie per commetterlo. Per questo elimina la parola ‘libertà’. Solo per questo lo stato di polizia orwelliano si distingue dal panottico digitale della nostra epoca in cui si profitta troppo della libertà. La tecnica di potere nel sistema neoliberale non è né proibitiva né repressiva, ma seduttiva. Si nutre di un potere intelligente. Questo potere, invece di impedire, seduce. Ognuno di noi si sottomette al potere mentre si comunica o si consuma, o mentre si clicca sul tasto ‘mi piace’. Il potere intelligente blandisce la psiche, non la reprime né cerca di disciplinarla. Ci spinge a scegliere continuamente, a partecipare, a comunicare i nostri desideri, i nostri bisogni, a raccontare la nostra vita. Si tratta di una tecnica del potere che non nega né calpesta la nostra libertà, ma la sfrutta. In questo essenzialmente consiste l’attuale crisi di libertà. La politica di oggi manca del tutto di ispirazione. Durante lo stadio di continua iperattività, quello che rende vane per ora le illusioni è la totale mancanza di alternative.
Se non ho letto male, lei sostiene che quando la trasparenza si trasforma in teologia, alla fine diventa una giustificazione etica per il neoliberismo e per un’economia insaziabile. E’ così? Ma d’altro canto, noi non ci serviamo della trasparenza per porre un freno alla naturale tendenza del potere alla menzogna e all’abuso?
Chi mette in relazione la trasparenza solo con la corruzione e con la libertà d’informazione ignora la sua portata. La trasparenza è una coercizione sistemica che include tutti gli avvenimenti della società per sottometterli a dei cambiamenti basilari. Oggi, il sistema sociale espone tutti i suoi processi a una trasparenza forzata per accelerarli. La comunicazione raggiunge la sua massima velocità quando un uguale risponde a un uguale. La trasparenza stabilizza e accresce la velocità del sistema eliminando l’altro, il diverso. Questa coercizione sistemica muta la società della trasparenza in una società sincronizzata. Porta all’omologazione, al conformismo e alla sincronizzazione.
Nel film “Melancholia” di Lars Von Trier si dice che solo un’apocalisse, una catastrofe potrà liberarci dall’inferno dell’omologazione, dell’eterno uguale. Che tipo di catastrofe? Forse una rivoluzione?
A partire proprio dalla protagonista del film, Justine, si può comprendere meglio quello che sostengo. Lei è depressa perchè è stanca di se stessa. Tutta la sua libido si dirige contro la sua soggettività. E improvvisamente appare un pianeta, il pianeta Melancholia. L’arrivo di qualcosa di diverso può far pensare ad un’apocalisse nell’inferno dell’uguale. Il pianeta mortale si mostra a Justine come totalmente diverso che la vuol strappare dal pantano del narcisismo. Davanti al pianeta mortale quasi riprende a vivere, riscopre gli altri. Eros, come relazione con qualcosa di totalmente diverso, elimina la depressione. Il disastro porta alla salvezza. Del resto la parola ‘disastro’ ha la sua origine in quella latina ‘desastrum’, che significa ‘nessuna stella’. Melancholia è una non stella, la stella che non c’è. Viviamo in una società che si concentra in modo assoluto sulla produzione, sulla positività. Si tiene lontana la negatività dell’altro, o del diverso per aumentare la velocità di circolazione della produzione e del consumo. Solo le differenze che si possono consumare sono permesse. Non si può amare l’altro al quale hanno rubato la diversità, si può solo consumarlo. Chissà, forse è per questo che oggi cresce l’interesse per una qualche apocalisse. Ognuno sente in qualche modo dentro di sè l’inferno del tutto uguale e vuole solo fuggire.
Chi è Byunh-Chul Han?
Secondo Adorno i nomi sono delle iniziali che non siamo in grado di capire ma alle quali obbediamo come ad un destino. Il simbolo cinese ‘Chul’ sta a significare, secondo il suono, ‘ferro’, o ‘metallo’, ma, secondo la vulgata, anche ‘luce’. In coreano ‘Chul-Hak’ significa filosofia, ‘scienza di luce’. In questo modo ho seguito, nella mia vita, senza saperlo, il significato del mio nome. Sono andato in Germania perchè ammesso alla Università Tecnica di Clausthal-Zellerfeld, vicino Gotinga, per studiare Metallurgia: ai miei genitori avevo detto che avrei continuato i miei studi di metallurgia in Germania. Dovetti mentire, altrimenti non mi avrebbero lasciato partire. E sono andato in un paese del quale non conoscevo la lingua, non sapevo leggerla né scriverla e mi sono lanciato in una carriera del tutto differente: la Filosofia, E’ stato come un sogno. Avevo ventidue ani. Ora insegno Filosofia a Berlino.
Nella foto, Byung-Chul Han
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