Lo splendido film di Julien Schnabel, “Van Gogh, sulla soglia dell’eternità”. L’interpretazione pulsante di Willem Defoe. L’abbagliante giallo finale.
Van Gogh è la sua pittura, i suoi colori, ogni giorno della sua vita non ha alcun senso senza partorire una creatura, far nascere dalla tavolozza un miracolo.
Arte e vita, colori e vita, natura e vita, una lotta, un amore, una passione continua, turbinosa, sconvolgente, un corpo a corpo senza fine e senza confini, una battaglia ogni minuto per vedere quella natura, entrarci fino in fondo, affondarci dentro.
Non posso vivere senza dipingere, se non dipingo muoio, diceva. Un transfert continuo, una visione quotidiana, un sogno, un incubo, un’apparizione, una trasfigurazione: la natura nelle viscere, nella mente, quella terra quegli alberi quei soli che entrano in lui e sono lui, una possessione avvolgente.
Allucinazione e realtà, ma qual è la realtà. Ossessione, alcol, colori, trielina, pennelli, scarponi, le dita martoriate dagli acidi.
Il miracolo di un parto al giorno. Perchè in un giorno la sua creatura doveva incarnarsi. Un giorno solo, la mattina presto a camminare e camminare, poi lo squarcio da afferrare, la lotta per entrare in quel cielo, in quei corvi in quei girasoli in quei campi di grano. Il contadino che zappa, suda, concima, suda, taglia, suda, ara, suda.
Affonda i pennelli nel vento, tratteggia, abbozza, quello è la pennellata, una e una sola, compare la sagoma, prende corpo, cresce man mano, s’incarna, i colori fiammeggiano, balzano fuori danzano roteano sfondano lo spazio il tempo il qui il dove.
Senza essere blasfemi, vorremmo abbozzare un parallelo con altri due artisti: solo sul fronte della “velocità d’esecuzione dell’opera”, per dirla in modo semplice. Ossia la voglia, la forza di accumulare energie, immergersi in quelle passioni, viverle fino ad affondarci dentro, per diventare un tutt’uno con l’opera stessa. Ingurgitarla, farsene inghiottire, una sola creatura. Accumulare un mare di energia e poi eruttarla fuori, d’un botto, in un giorno, per Vincent. In 20, massimo 30 giorni per un regista come Clint Eastwood o uno scrittore come George Simenon.
Raccontano di Eastwood i biografi: “La fase di realizzazione di tutti i suoi film è estremamente compatta, densissima, ristretta quanto mai nei tempi. Lui l’idea l’ha già maturata abbondantemente dentro di sé, ora si tratta di tradurla in immagini. Gira le scene una volta sola, rarissimi i casi in cui faccia il bis. Sul set è concentratissimo, sa sempre ciò che in quel momento si deve fare, come se srolotasse da dentro un pellicola già vissuta e si trattasse poi solo di concretizzarla. La fase di montaggio, a questo punto, prende poco tempo, il girato è mai più del doppio della resa finale, mentre gli altri registi solitamente girano ore e ore che poi finiscono nel cestino. E’ come se gli uscisse fuori naturale, ma lo sforzo di concentrazione è enorme, è come se lui si immergesse nella pellicola senza uscirne fino a quando non c’è stato l’ultimo ciack”.
Quanto a Simenon, così viene narrato: “Per i suoi lavori ha stilato una precisa tabella di marcia, maniacalmente scientifica. C’è un lavoro preparatorio di una quindicina di giorni, che gli serve per mettere a fuoco la storia e i personaggi che ha già in mente. In questa fase raccoglie una mole di dati storici, soprattutto per quanto riguarda l’ambientazione, le atmosefere; consulta stradari, elenchi del telefono, cerca nomi di locali, insomma tutti gli ingredienti che serviranno per dotare la narrazione di un’infinita serie di particolari, in modo tale che il lettora possa calarsi perfettamente in quel clima. Poi c’è la seconda fase, la stesura. Si dà massimo venti giorni: sveglia la mattina presto, colazione e via con il lavoro: almeno 7 ore, è molto rapido, scrive una quindicina di pagine datiloscritte. Pranzo, riposo e poi una passeggiata fino a sera. Così per venti giorni al massimo. E il quadro è completo. Alla fine del lavoro è letteralmente estenuato, spremuto come un limone. Gli viene una febbre che dura anche per giorni. E’ tutta l’energia cumulata che ora esplode in quel febbrone da cavallo. Nei seguenti quindici, venti giorni svuota la mente da ogni cosa. Per ricaricarsi. Pensare a una nuova storia e ricomiciare il mese seguente, esattamente nello stesso modo”.
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