Secondo quanto riportato dal Corriere del Mezzogiorno, nel suo intervento pubblico di qualche giorno fa il procuratore capo Giovanni Melillo ci sarebbe “andato giù duro” sullo stato della camorra a Napoli, affermando fra l’altro che «lo strumento di espansione dei clan è la corruzione». Il termine “corruzione”, peraltro, ricorre più volte nelle parole del magistrato, il quale la definisce, ancor più dettagliatamente, «strumento principe dell’organizzazione criminale che procura amici e moltiplica le opportunità».
Con trenta anni di giornalismo militante anticamorra alle spalle, vissuti sul campo nella capitale del crimine organizzato, ci permettiamo di dissentire dall’analisi del procuratore Melillo. In primo luogo, infatti, parlare di corruzione significa affermare che esiste una parte sana e un’altra, intenta a corromperla. Ma nel contesto socio-istituzionale partenopeo, eccezion fatta per quell’esteso ambito della società civile che dei clan è vittima, di “parti sane” è davvero assai difficile trovarne. Sarebbe perciò più opportuno, a nostro sommesso parere, delineare l’orrendo – ma realistico – quadro di una gigantesca associazione per delinquere di stampo mafioso, un netto 416 bis, nel quale tutti i sodali traggono il proprio vantaggio, compresi i funzionari dello Stato ignavi che si girano dall’altra parte per timore di ritorsioni. Tutti tranne, come dicevamo, le centinaia di migliaia di napoletani che da tempo hanno dovuto piegare la testa per l’assenza di uno Stato sempre più colluso e connivente, arrivato al punto da dover essere considerato il primo responsabile di questo reato associativo generalizzato.
Del resto, lo avevano già ben compreso, questo desolante scenario, i relatori della commissione antimafia (citati nel suo discorso dallo stesso procuratore Melillo), che venticinque anni fa, soffermandosi sul rapporto tra politica e camorra a Napoli, parlarono di «immedesimazione tra strutture politiche e burocratiche e strutture criminali», utilizzando appunto il temine “immedesimazione”: letteralmente, “il medesimo”. Altro che corruzione. Solo che, a distanza di cinque lustri, dobbiamo prendere atto del fatto che la platea degli associati si è notevolmente estesa.
Quanto poi alle reprimenda che il procuratore lancia su una certa, presunta acquiescenza del napoletano («se c’è un dato che colpisce in questa città è la dimensione ristretta dei movimenti di opinione, dell’associazionismo civile, dei movimenti politici che facciano del ripudio di queste logiche, la propria ragione d’essere»), nel nostro piccolo vogliamo ricordare all’alto magistrato che negli anni in cui lui svolgeva un prestigioso incarico presso il Ministero di Via Arenula, a Napoli e nel Paese era ancora in vita un periodico antimafia e anticamorra, La Voce delle Voci, che dopo 30 anni di pubblicazioni in edicola è stato chiuso per mano della magistratura (una sentenza civile di condanna per presunta diffamazione ottenuta nel 2013 da una compaesana di Antonio Di Pietro, con un giudizio di Appello che da allora si trascina stancamente a L’Aquila, senza alcuna speranza di vederne una fine dignitosa).
A inizio anni Duemila, per iniziativa della Voce (all’epoca si chiamava Voce della Campania), presso la Questura di via Medina era stato installato, operando per quasi cinque anni, un Telefono Anticamorra, al quale le vittime potevano rivolgersi in anonimato, proteggendo sé ed i propri cari dalle immancabili ritorsioni. Grazie a quel Telefono la Mobile, guidata all’epoca da Maurizio Vallone, eseguì centinaia di brillanti operazioni antiracket, aprendo la strada a quella speranza di riscatto che oggi manca, perfino a tanti operatori della giustizia.
Si deve all’inerzia delle istituzioni ed anche di gran parte dei media (l’unico, concreto sostegno arrivò da Telelibera, che realizzò e mandò in onda lo spot per diffondere tra i cittadini il numero gratuito 081.5519999), se quel presidio di giustizia e legalità è andato perso.
Solo per ricordarle, procuratore Melillo, che una volta in campo c’eravamo anche noi.
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