Due bombe a orologeria sotto i destini di un’Italia già colpita dai conti economici che non tornano – la disoccupazione cresce e l’economia non tira nonostante le grancasse renziane per la vetrina Expo – e da un ambiente sempre più devastato da veleni d’ogni specie (le tante Seveso e, oggi, Terre dei Fuochi che appestano il vivere quotidiano). Le bombe hanno un nome solo, decommissioning nucleare, ossia la definitiva dismissione delle centrali nucleari e soprattutto il trasferimento delle scorie radioattive. E due drammatiche appendici: costi stratosferici, che peseranno per molti miliardi di euro sulle tasche degli italiani; e rischi ambientali, per il via vai di scorie nucleari – non certo noccioline – su e giù per l’Italia senza trovare una destinazione finale. Incredibile ma vero, i primi viaggi dei tir carichi di sostanze radioattive dalla centrale del Garigliano verso il nord sono di addirittura trent’anni fa, come la Voce ha documentato, con foto inedite (che ripubblichiamo) in un reportage dell’ottobre 1985.
Ma per la pubblica Sogin, che gestisce il colossale business-decommissioning, nessun problema, tutto ok. Tanto che nei prossimi giorni hanno deciso di festeggiare… Vediamo in che modo.
Centrali porte aperte – C’erano una volta le edizioni di “Musei porte aperte”, proprio in occasione del maggio dei monumenti. E sarà proprio il primo tepore primaverile che ha consigliato ai vertici di Sogin – presidente Giuseppe Zollino, appannaggio da 72 mila euro anno, amministratore delegato Riccardo Casale, a quota 240.000 euro anno – di aprire le centrali alla trasparenza, in una straordinaria edizione “Open Gate” che coinvolge i quattro storici impianti nucleari di Caorso, Trino Vercellese, Latina e Garigliano: per illustrare ai cittadini, in percorsi guidati, tutto il bello del post-nucleare, tutti i rischi che non esistono, e tutta la sicurezza che viene loro garantita.
Sarebbe il caso – a questo punto – di far sapere a quegli stressi cittadini quanto salato sarà il conto che dovranno pagare in modo diretto (con un aggravio delle bollette) o indiretto (via tasse, o minori servizi) per i grandi lavori che Sogin sta progettando per loro (ma, caso mai, a loro insaputa).
Tutti i costi – Secondo le più recenti, attendibili stime, sarebbe di ben 5 miliardi di euro il rincaro delle bollette elettriche che i cittadini finiranno per pagare, per via dell’incredibile, colossale ritardo nel cronoprogramma per lo smistamento e collocazione dei materiali radioattivi, dal momento che non è stata nemmeno decisa la localizzazione del futuro “Deposito Nazionale” per lo stoccaggio (spesa prevista, 1 miliardo e mezzo di euro). Settimane fa è rimbalzata una voce sulla possibile destinazione Sardegna, nel cagliaritano; come del resto già anni fa si era parlato di Scanzano Ionico, in Basilicata, meta caldeggiato – a quanto pare – dall’ex numero uno di Sogin, il generale Carlo Jean, e dal sindaco del comune, all’epoca Mario Altieri. Intanto, però, le vecchie centrali e tutti gli impianti annessi e connessi (quasi una trentina) continuano a macinare danari a palate, tra costi fissi, manutenzioni, personale. Pochi lo sanno, ma le centrali sulla carta morte, continuano a vivere come e più di prima: con tanto di direttori, funzionari, addetti, personale per l’amministrazione, le pulizie, il giardinaggio e via sperperando.
Del resto, mamma Sogin insegna: cosa c’è di meglio se non avere una lussuosa sede a Mosca? E tanto personale in missione strapagato? E spese complessive che toccano il tetto di 5 milioni di euro anno? Memori forse, alla Sogin, degli incarichi di un tempo del generale Jean, quando doveva occuparsi di sommergibili sovietici & uranio. In tempi più recenti il nome di Sogin è tornato fugacemente alla ribalta per una vicenda che riguarda proprio l’Expo di Milano appena tenuto a battesimo: la nostra società pubblica, infatti, è finita nel mirino degli inquirenti per aver affidato un appalto di smaltimento dei rifiuti nucleari al gruppo Maltauro, a sua volta sotto inchiesta in un primo filone sui lavori per l’Expo.
Ma le spese non finiscono certo qui. C’è il capitolo estero, ossia le spese relative al trasferimento temporaneo in alcuni paesi stranieri di quantitativi radioattivi. Nel 2006, ad esempio, un primo passaggio in depositi francesi che dovremo pagare caro e salato: li hanno ospitati a Le Hague, e non potranno rimanere lì in eterno, massimo altri dieci anni, ma intanto il tassametro corre. Così come con il Regno Unito, destinazione, anni fa, Cumbia, vis a vis con l’Irlanda. Secondo attendibili stime, la cifra per tali fitti si aggira (di sicuro per difetto) sul miliardo di euro: forse compreso – ma non è certo – quanto dovuto per il “riprocessamento” (e cioè un trattamento ad hoc) delle scorie stesse, in una sorta di catena senza fine.
Ancora. Stando a elaborazioni Sogin, i costi complessivi da fronteggiare, per “ristrutturare e/o realizzare depositi temporanei di rifiuti radioattivi”, nonché per effettuare “le demolizioni dei vecchi fabbricati” sono compresi fra i 3 e i 5 miliardi di euro. Non si comprende bene se, in tale importo, sia prevista anche la progettazione e costruzione del “Deposito Nazionale”, il grande Moloch che dovrà inghiottire tutto le scorie radioattive accumulate nel nostro paese e che – incredibile ma vero – oggi vivono in un limbo non si sa a che punto “sicuro”…
E tutti i tempi – Per arrivare alla soluzione finale, dunque, occorrerà aspettare ancora un bel po’. E’ la stessa Protezione civile, nel suo bollettino on line, con una notizia diffusa il 7 aprile a sottolineare i ritardi e a riferire quanto comunicato dai ministeri dello Sviluppo Economico e dell’Ambiente: “non è stata ancora scelta alcuna area per il deposito delle scorie nucleari. La procedura per definire il luogo che dovrà ospitarlo segue fin dal suo avvio un iter trasparente e aperto al massimo coinvolgimento di cittadini e istituzioni locali”. Forse per evitare una Scanzano bis, con un sindaco, Altieri, in ottimi rapporti con Jean e superdisposto ad ospitare il sito unico di stoccaggio, del resto a poca distanza dall’ex centro di ricerche nucleari di Rotondella, nel materano, cosa che ha subito insospettito gli inquirenti (“una circostanza alquanto singolare”, hanno scritto).
Ma torniamo ai tempi per la realizzazione del “Deposito Nazionale”, cui verrà annesso un mega “Parco Tecnologico” (forse anche per fini di turismo nuclear-ambientale). Si parla di “quattro mesi di consultazioni” con cittadini e istituzioni, che però – magicamente – possono passare a quattro anni e rotti: e in tale operazione – di ascolto del territorio – non sarà impegnata solo la Sogin, ma anche l’Ispra, ossia l’Istituto superiore per la prevenzione e la ricerca ambientale.
Comunque, a quanto pare, non c’è alcuna fretta in casa Sogin: tutto da fare con grande calma (tanto a pagare è lo Stato, cioè i contribuenti). Al punto che per settembre-ottobre, come fanno sapere alla Protezione civile, “Sogin organizzerà un seminario per la redazione della Carta nazionale delle aree indonee (CNAI) in cui è individuata una ristretta rosa di realtà locali tra quelle che, rispondendo ai criteri tecnici previsti, avranno proposto la loro candidatura”. Dopo ulteriori passaggi, il final cut dovrà essere deciso di concerto fra tutte le realtà, due ministeri e Ispra compresi.
Sui media il silenzio più tombale, rotto da un servizio di Repubblica. Mamma Rai rassicura, e intervista il responsabile della centrale del Garigliano per il quale, ovviamente, non c’è alcun problema. Abbiamo parlato con un ricercatore che ha lavorato per anni nell’impianto di Sessa Aurunca e che la pensa in modo un po’ diverso: “ci sono trent’anni di misteri, trent’anni di black out totale. La gente non sa cosa è successo in quella centrale, così come nelle altre. E soprattutto non sa niente dei trasferimenti di carichi nucleari pericolosissimi. Sono state rispettate le norme di sicurezza, tutto è stato effettuato senza rischi per la collettività? La gente non sa che per anni si sono svolti, e ancora si svolgono, spostamenti di scorie: con costi che lievitano continuamente e rischi continui per la salute dei cittadini”.
La centrale del Garigliano, del resto, ricade in un territorio massacrato due volte: prima le scorie nucleari, poi i veleni tossici interrati per anni dai Casalesi, quella Terra dei Fuochi di cui ha parlato – prima di finire all’altro mondo qualche mese fa in circostanze mai chiarite – Carmine Schiavone, che di traffici miliardari di rifiuti tossici – e anche nucleari – gestiti dalla camorra in combutta con politici e istituzioni aveva cominciato a verbalizzare fin dalla metà degli anni novanta. Verbalizzazioni finite a far la muffa nei cassetti. Più volte l’associazione antimafia Antonimo Caponnetto ha lanciato l’allarme. “Casertano e Basso Lazio – denuncia Elvio Di Cesare, segretario nazionale della Caponnetto – hanno visto i loro territori saccheggiati e stuprati per anni, senza che nessun freno venisse posto dalle istituzioni.
E’ da anni che si parla di aumento esponenziale di tumori e altre patologie prima per gli effetti della centrale, poi per i veleni della camorra. Ma non si è fatto niente, gli allarmi sono caduti nel vuoto, la gente è stata abbandonata al suo destino”.
Una storia che dura da 30 anni – Incredibile ma vero. I primi sos sulla centrale del Garigliano, lanciati dalla Voce (l’allora Voce della Campania) sono di trent’anni fa suonati, primavera 1985. Un amplissimo reportage, la bellezza di 7 pagine, venne pubblicato a ottobre 1985. Significativo il titolo, “Decommissioning Now”, lo smantellamento comincia ora. Sono passati 30 anni trenta, ritardi sulla pelle della gente, vagoni di soldi pubblici sperperati. La Voce, in quell’inchiesta, documentava – dati e cifre alla mano – i danni ambientali prodotti, con una serie di pareri di esperti e un corredo fotografico da brivido (una vera galleria degli orrori, con una vasta gamma di animali mostruosi partoriti in zona). Così scriveva allora Silvestro Montanaro, per anni autore Rai di reportage nei terzi e quarti mondi: “Uno scenario apocalittico, da vero e proprio ‘Day after’, un museo degli orrori in piena regola. Sono in aumento vertiginoso i casi di morte per leucemia e cancro. Secondo alcuni legali non ci sono dubbi: nella zona del Garigliano i decessi per tumore sono aumentati addirittura del 45 per cento a fronte di un 7 per cento di media italiano”.
Chi paga il conto di trent’anni di morti, malattie, lutti e disastri ambientali?
Qui sotto l’articolo della Voce di ottobre 1985
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