Se ascolti qualcuno tra le migliaia di ferventi cattolici di ogni razza e nazionalità che si ritrovano qui ogni anno, Medjugorje non è solo il futuro della Chiesa: è l’unica speranza del mondo.
Probabilmente hanno ragione, ma non è detto che sia per l’afflato mistico alla base della loro convinzione.
Cominciamo dal popolo croato, perché qui, in Erzegovina, tutti sono e si sentono croati, in qualche modo annessi, per motivi geografici, alla Bosnia. Vederli passare a frotte per il corso principale, dedicato a Giovanni Paolo II (che qui sarebbe venuto subito, se non fosse stato papa, come lo stesso Pontefice ebbe a dire alla veggente Mirjana in un incontro a Castelgandolfo), è come fare un salto nel tempo e ritornare all’Italia del primo dopoguerra. Famiglie giovanissime, numerose, ogni coppia dai due ai quattro bambini. Sì, qui sta crescendo una moltitudine smisurata di futuri cittadini europei, un incomparabile tesoro genetico: gli abitanti della Bosnia Erzegovina hanno ricominciato a edificare il domani della loro terra partendo da qui: dal capitale umano.
Dal punto di vista sociale, resta comunque irrisolta una questione primaria, che ci conduce nuovamente all’Italia anni ’50: la terra. Ti sposti lungo il territorio e incontri hotel, condomini piccoli e grandi, villette su villette, tutte ordinatissime. Ma lungo i chilometri di strada che separano una frazione abitata dall’altra, solo distese sconfinate di arido deserto. Sono ancora centinaia di migliaia i reduci dalla guerra che con le loro famiglie, lontano dalle luci di Medjugorje, hanno bisogno letteralmente di tutto: medicinali, cibo, abiti, come ricorda Suor Cornelia, che dal suo centro religioso offre quotidiano sostentamento a circa 400 persone fra anziani e bambini. Afferma, la dolce suorina italiana, di avere un fax diretto con la provvidenza divina. «Succede che il giorno prima qualcuno ci dona un carrozzino, lì per lì non sappiamo cosa farcene, ma il giorno dopo arriva un nuovo ospite, è disabile. Qui funziona così, la provvidenza ci manda prima il cibo e poi gli affamati».
E gli altri? Per tutti coloro che restano ai margini di tanto amore, potrebbe e dovrebbe intervenire la comunità internazionale, cominciando ad aprire le menti degli amministratori locali a partire dalla chiave di volta di una seria, equa e sana riforma agraria. La terra ai poveri, non per costruirci nuovi hotel a 4 stelle, ma per sfamare chi non possiede nulla. Uno sviluppo capace di generare benessere, anche quando l’enorme miniera del turismo religioso dovesse arrestarsi.
Per ora, comunque, niente di tutto questo.
RESUSCITO’
Il Festival dei giovani, che si svolge ogni anno nella settimana a cavallo dell’apparizione del 2 agosto, fa convergere in questo angolo pietroso del mondo un’umanità festosa, colorata, capace di innalzare canti che diresti paradisiaci. Su tutti risuona l’inno che racchiude il senso vero della speranza cristiana: “Resuscitò”. Centinaia di migliaia di ragazzi al seguito di bandiere, che ne indicano la provenienza da tutti i paesi della terra, in questa settimana letteralmente invadono una minuscola cittadina che, di suo, conta poco più di 4.000 abitanti. Li vedi ovunque, sacco a pelo in spalla e corona del rosario tra le mani, lungo le distese boschive che circondano il cuore pulsante della fede: la chiesa di San Giacomo. La prima cosa che ti raccontano qui è che, quando questo tempio dai due campanili fu edificato, sul finire dell’Ottocento, nessuno capiva perché si dovesse erigere un edificio di così straordinaria ampiezza e maestosità per una popolazione locale che, all’epoca, contava poco più di duemila abitanti. Altra coincidenza è che, fin da allora, quel tempio venisse elevato nel nome di San Giacomo, patrono dei pellegrini.
La storia poi ha fatto il suo corso. Qualcuno – ti spiegano qui – guardava lontano, a quello che di lì a pochi anni sarebbe avvenuto. E puntualmente avvenne. Era il 26 giugno del 1981 quando Lei, la Gospa (qui chiamano così la Madonna) decise di manifestarsi per la prima volta in un boschetto a sei ragazzini del luogo: dapprima alle due sole ragazze, Mirijana Dragičević e Ivanka Ivanković, incredule, sbigottite. Poi gli altri quattro: Vicka Ivanković, Marija Pavlović, Ivan Dragičević, Jakov Čolo. Avevano tutti fra i dieci ed i 16 anni e non sapevano ancora che sarebbe iniziata per loro la persecuzione implacabile del regime comunista di Tito, che provò perfino a condurli in manicomio.
«Non volevamo rinnegare nulla, non potevamo, noi la avevamo vista ed ascoltata!», racconta ancora oggi ai pellegrini Mirijana. Tanto più che qualcuno, fra i sei ragazzi, aveva chiesto ed ottenuto una grazia inimmaginabile. A raccontarlo è Zora, giovane studiosa del luogo che oggi vive a Roma: «Quando la Madonna appariva per la prima volta, Marija aveva da poco perso sua madre. Interrogò la Vergine, le chiese dove fosse ora la sua mamma». «Fu rassicurata ed esaudita, sua madre c’era, era viva in cielo, potè incontrarla due volte per intercessione della Madonna», scandisce Zora.
Sull’ “Oltre”, su cosa ci attende dopo la vita, quell’interrogativo sospeso sulle labbra dei fedeli disseminati sulla terra, pare che da quel giorno i veggenti non avessero più ricevuto altri messaggi. Fino a quello del 2 agosto 2018, pochi giorni fa, quando il concetto torna, forte e chiaro, nel testo dettato da Mirijana a Zora durante l’apparizione: «La vita di ognuno di voi è importante e preziosa, perché è un dono del Padre Celeste per l’eternità. Perciò non dimenticate di ringraziarlo. Parlategli! So, figli miei, che vi è sconosciuto ciò che verrà dopo ma, quando verrà il vostro dopo, riceverete tutte le risposte. Il mio amore materno desidera che siate pronti».
Il 4 agosto 2018 Mirijana incontra i pellegrini all’hotel Jacov, che oggi è di proprietà della sua famiglia. Al termine del suo accorato intervento chiede se qualcuno abbia domande. Mi presento, a bruciapelo la interrogo: le aveva parlato altre volte del “dopo la vita”, la Madonna, prima di due giorni fa? Lei mi guarda, forse è preoccupata di doverlo confermare, alla fine alza lo sguardo e dice solo: «Sai, ho avuto anche io la stessa impressione…».
NON E’ TERRESTRE
Qualcosa, decisamente, da queste parti ha ben poco di terrestre, nel senso che in genere diamo a questa parola. Te ne accorgi in primo luogo quando ti chiamano per partecipare al rito della confessione. Un sacramento primario, che qui assume i contorni di un lavacro soprannaturale, al confine con una oceanica seduta psicoterapeutica di gruppo. Migliaia di pellegrini in fila, col rosario in mano, ciascuno seguendo la fila davanti al sacerdote che parla la sua lingua, seduto su un qualsiasi scannetto nel vasto piazzale. E tu sei là, aspetti il tuo turno, mentre tutt’intorno risuonano musiche celesti dall’arena, dove qualche giovane violinista ha cominciato a suonare e subito, in un crescendo gioioso, migliaia di persone si sono unite al coro, levando i loro canti verso il cielo.
Mentre aspetti paziente nella lunga fila e intorno, dall’altoparlante, si recita il santo Rosario in numerose lingue, tanti si mettono in ginocchio. Poi il tuo turno arriva e sei là, faccia a faccia con uno sconosciuto, però capisci che non puoi fare a meno di aprirgli il tuo cuore. Confessioni private, ma anche no, perché in quel momento, immerso nella moltitudine, ti senti solo tu, tu davanti a Dio. Il pianto bagna gli occhi dei penitenti e l’ascolto, paterno e benedicente, può durare anche un tempo molto lungo. Non c’è fretta, sembrano dirti: di tempo e di benedizione, qui, ce n’è per tutti.
Ci spiega padre Giuliano Gazziero, venuto come ogni anno a Medjugorje da Verona, dove guida l’Oratorio di San Filippo Neri, per dare una mano ai confratelli: «anche a noi sacerdoti arriva un richiamo, qui ne occorrono migliaia per sanare la fame e la sete di perdono dei pellegrini. Non facciamo altro che obbedire, lasciamo le nostre attività quotidiane e corriamo, nel nome della Madonna e secondo il volere di Papa Francesco».
Nonostante non sia mai stato ufficialmente riconosciuto dal Vaticano, il miracolo quotidiano di Medjugorje trova nei sacerdoti del mondo quella tacita, implicita approvazione che nasce da un irresistibile richiamo. Gazziero, tra i principali studiosi di teologia in Italia, ha riscritto la Catechesi di Joseph Ratzinger in 12 volumi consultabili online, a beneficio dei tanti che non riescono a confrontarsi con parole troppo difficili da intendere per chi non ha compiuto studi superiori. Lo dedica, in particolare, «ai ragazzi che stanno cercando Dio, ma ancora non lo sanno».
Le ginocchia si piegano, il capo si abbassa, una strana sensazione ti prende al cospetto di tante famiglie che hanno sulle labbra l’incipit dell'”Hey Mary”, o del “Je vous salve Marie”, pronunciato in tutte le lingue del mondo mentre ci si reca verso il monte delle apparizioni, dove ad ogni ora del giorno ti guida una croce posta su in cima, proprio davanti al sole, la Croce Blu.
«Non cercate il miracolo nei segni – ammonisce don Miro, parroco della chiesa poco distante da Medjugorje, che ha studiato teologia a Bologna – non guardate il sole per vedere se “gira”, perché servirebbe solo a danneggiare i vostri occhi, il miracolo è qui, il miracolo siete voi che non resistete alla chiamata e raggiungete questo luogo, prostrandovi all’Altissimo e gridando alla Madonna ‘Eccomi!’».
LO SPIRITO SANTO CHE ABBATTE E RIALZA
Poi, quando pensi di avere visto tutto, ti conducono alla Comunità Nuovi Orizzonti guidata da Don Roberto, un quarantenne di Pontedera, in provincia di Pisa, che esordisce raccontandoti il suo passato, recentissimo, di tossico e rapinatore, fino all’incontro con Dio e alla conversione.
Le chiamano case-cielo questi enormi edifici eretti in tutto il mondo, dall’Argentina al Brasile, su un originario progetto di Chiara Amirante, giovane romana condannata alla cecità, miracolosamente guarita e, da allora, dedita a togliere dalla strada altri “ultimi”, gli homeless come don Roberto, qualche anno fa da lei trovato, come tanti, alla stazione Termini di Roma, senza più alcuna speranza.
Questo luogo – avverte subito una volontaria di Nuovi Orizzonti nel grande auditorio della casa-cielo di Medjugorje – non è nostro, ci è stato dato in gestione da un imprenditore edile del nord Italia che intendeva farne un grande albergo, prima che un dolore familiare lo inducesse ad abbandonare tutto e donare questa casa per l’accoglienza di chi non ha più nulla».
“E gioia sia”, il motto di questa comunità, lo vedi apparire sul volto e nei cuori dei tanti che vi lavorano gratuitamente. Su tutti lui, don Roberto, che dopo l’incontro all’Auditorium ci conduce nella vicina chiesa, dove celebrerà la Messa. Con una benedizione che, anche in questo caso, nulla ha a che vedere con l’ordinarietà.
Per creare l’atmosfera, i fedeli vengono invitati ad invocare lo Spirito Santo con una litania, ciascuno la sua, fatta di suoni liberatori emessi dalla bocca e dall’animo. Il piccolo tempio comincia a risuonare di particolari vibrazioni, mentre ci si dispone in quattro lunghe file, tanti quanti sono i celebranti. Per ottenere la tua benedizione devi attendere a lungo, pregando. Quando infine arrivi, il sacerdote ti prende la testa fra le mani, ascolta le tue parole, al termine ti segna la fronte con la croce.
Mentre scorre questo rito purificatore, cade a terra il primo come morto, di botto. Tutti i fedeli si fermano, il mormorio sale, qualcuno chiede che sia chiamata immediatamente un’ambulanza. Don Roberto si avvicina al “caduto”, poi con un gesto invita tutti alla calma. Incredibilmente, mentre l’uomo giace a terra, le benedizioni continuano. Dopo qualche minuto, mentre il primo è ancora a terra privo di sensi, cade il secondo. Dopo poco va giù anche la terza: quella la conosciamo, è una giovane mamma italiana in pellegrinaggio con la sua bambina. In totale ne “cadranno” cinque, sui circa 80 partecipanti al rito. Si rialzeranno spontaneamente dopo una decina di minuti.
Qualcuno, che c’è già stato, ti sussurra all’orecchio che, l’anno scorso, le “estasi mistiche” erano state ancor più numerose. Difficile poter dimenticare questa benedizione mentre esci dalla chiesa salutando i celebranti: oltre a Roberto, i due giovani sacerdoti stabilmente presenti nella comunità Nuovi Orizzonti, compreso quel ragazzo torinese con la barba nera lunghissima che viene dalla strada ed oggi indossa la veste religiosa per invocare sulle moltitudini la discesa del Santo Spirito di Dio.
La sua storia, raccontata prima del rito, è analoga a quella dei tanti che incontriamo qui ad impartire sacramenti. L’altro è Michele e ci sta già aspettando alla comunità del Divino Amore.
MAMMA MIA!…
Ad accoglierci, nel piccolo edificio disposto lungo le colline, è suor Benedetta, voce celestiale quando intona le prime lodi a Dio con la sua chitarrina. I sacerdoti anziani guidano la recita del rosario mentre i fedeli si dispongono sulle panche disseminate nel boschetto. Poi lo vedi arrivare: circa 30 anni d’età, alto, magro come un fuso, Michele indossa un saio francescano di colore insolito, tendente al rosso. In mano tiene sempre la corona, di tanto in tanto abbraccia la statuina bianca della Madonna mentre ti racconta la sua storia vera ma, su tutte, quella di sua madre, la mamma biologica, che tanto ha dovuto tribolare per salvare la vita di suo figlio. Anche Michele, che arriva dai monti in provincia di Torino, era un ragazzo perso, la vita che sfioriva a Porta Nuova fra le droghe, sballi e rapine erano diventati il suo pane quotidiano. La Madre celeste di Medjugorje, dice, lo ha preso sotto il suo manto. Ed oggi è salvo.
Storie di “ordinaria” redenzione, da queste parti. Ti verrebbe da dire: benvenuti alle porte del Cielo.
Mentre stai per tornare in Italia, rivedi allora tutto con uno sguardo lungo. Qualcuno ti indica che alcune storie, come quella di fra’ Michele, sono già su You Tube dal 2016. Si ripetono uguali, sempre le stesse, ad ogni arrivo di pellegrini.
Per un attimo hai la sensazione che, almeno da qualche parte, sei stato di fronte ad una “compagnia di giro”, uno spettacolo (ma, di certo, fra i più straordinari di sempre).
Poi però, prima di rientrare, la strada ti conduce nuovamente a San Giacomo. Le nostre guide spirituali, Luciano e Francesca, ci invitano ad entrare nella cattedrale per l’ultimo saluto alla Madonna.
E là si compie ancora una volta il miracolo, l’ultimo. Devi far benedire gli oggetti sacri e l’acqua santa che riporterai a casa. «Chiedetelo al primo prete che incontrate», dice Francesca.
Radu lo vedo da lontano. Non so chi sia. Ha il saio francescano, la testa abbassata, una chioma nera, nerissima, che si muove lentamente alla recita del rosario. Mi avvicino. Solleva il capo e mostra occhi azzurrissimi, benedice gli oggetti. Poi chiede chi siamo, dice pregherà per noi e per le persone a noi care, segna tutti i nomi meticolosamente sul suo taccuino, fittissimo.
Mi ricordo in quell’istante le parole che ci aveva lasciato suor Cornelia: benedicete anche voi, pregate per i vostri sacerdoti. «Padre, la benedico. Qual è il suo nome?». «Mi chiamo Radu, vengo dalla Romania e parlo italiano. Mi ha chiamato qui la madonna. Prega per me».
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