SESSANTOTTO – LA RUOTA STA ANCORA GIRANDO

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo il saggio  “La Sinistra Universitaria – Appunti per una storia”, scritto per l’Antologia che celebra i 50 anni dal Sessantotto da Antonio Gargano, fervido intellettuale dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.

 

…non parlate troppo presto

perché la ruota sta ancora girando

e nessuno può dire

chi sarà designato

il perdente di adesso

sarà domani il vincente

perché i tempi stanno cambiando

(Bob Dylan, da: The times they are a-changing)

 

L’Antologia “Il Sessantotto a Napoli” curata da Gianfranco Borrelli, Vittorio Dini e Antonio Gargano per “la Scuola di Pitagora”.

In occasione del decennale del ’68 Enrico Flores, che sarebbe stato poi autore di un romanzo autobiografico centrato su quell’anno (Felipe all’opera nel ’68,Liguori, Napoli 2004), in un articolo intitolato Napoli isolata ma non periferica, apparso su “La Voce della Campania” del 28 maggio 1978 , dopo aver rilevato la “specificità” e la “diversità” del Sessantotto napoletano rispetto allo sviluppo del movimento studentesco in altre città italiane, costatava «il cronico isolamento di Napoli rispetto alla cassa di risonanza dei mass media nazionali», isolamento che contribuiva all’incomprensione di quel fenomeno.  A quattro decenni di distanza da quell’articolo, questo rilievo si potrebbe ripetere inalterato, se si  tiene presente quello che finora è il maggior contributo alla discussione sul ’68 italiano nella ricorrenza del cinquantenario, i  fascicoli di “Micromega” I e II del 2018, che nel corso di circa 430 pagine non fanno alcun cenno agli  eventi napoletani. A un livello locale si è identificata di volta in volta  la specificità del movimento a Napoli nella partecipazione al movimento stesso, al fianco degli studenti, degli assistenti e dei professori incaricati, nell’insistenza delle lotte sull’inscindibilità del binomio ricerca-didattica (v. le battaglie sull’area della ricerca a Napoli), nelle piattaforme sull’edilizia universitaria ( secondo Policlinico), e così via. Il movimento napoletano, insomma, avrebbe tenuto particolarmente conto della realtà  cittadina, territoriale e della concreta vita universitaria, anche se c’è da dire che di accuse  di astrattezza  gliene furono rivolte parecchie ; una per tutte: « A quelli della S.U. interessava più un contadino vietnamita che un operaio della mensa» ( da un’intervista ripor tata in : Giulio De Martino,  La prospettiva del ’68, Liguori, Napoli 1998, p. 166). Ma Napoli non fu lo “specchio opaco” di quel che avveniva altrove, né si chiuse in problematiche puramente locali.  Semmai la specificità del movimento studentesco napoletano fu proprio quella di “venire da lontano” e di guardare lontano, con l’inquadramento delle lotte in una cornice teorica di ampio respiro, come si cercherà di dimostrare nelle note che seguono.

Girolamo Imbruglia,in un  articolo intitolato Fare la storia del ’68 a Napoli  (apparso nel dicembre 2017 su “la Repubblica”-Napoli) , dopo aver rilevato, contro ogni riduzionismo, che « il ’68 non fu soltanto un segno del freudiano disagio della civiltà, ma fu un serio e non velleitario pensiero della rivoluzione, che suscitò una profonda riflessione sulle nuove condizioni storiche, sulle ideologie, sui soggetti», scorgeva il pericolo che prevalessero « affabulazioni individuali insignificanti, o peggio false», e indicava una via più corretta di ricostruzione degli eventi», quella della verità  storica: rileggere e pubblicare i documenti dei gruppi che furono presenti e che rappresentano la storia reale, non romanzata […] di quel movimento». E’ grande merito di Alfredo Laudiero l’aver raccolto, riordinato e messo in rete [http://www.centrodocpistoia, alla voce “Movimento Napoli”] svariate migliaia di pagine di documenti prodotti dalla Sinistra Universitaria fra il 1967 e il 1972, facendo seguito a un analogo e benemerito lavoro di un gruppo di bibliotecari della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III , fra i quali Antonia Cennamo e Luigi D’Amore).

E’ proprio dalle brevi, ma dense e precise introduzioni di Alfredo Laudiero alle varie sezioni del fondo “Movimento di opposizione. Napoli 1967-1972”  che prende l’avvìo questo contributo. Non ci si è proposti  di ricordare gli eventi, fra cui quelli più significativi sono fra l’altro discussi negli scritti della presente  antologia, ma piuttosto di dare un’idea del livello del contributo teorico germinato sul terreno del movimento studentesco a Napoli, la cui portata è di qualità enormemente superiore a quello di qualsiasi altro apporto di riflessione e di analisi italiane e anche internazionali, fatta eccezione forse per qualche aspetto dell’opera di Rudi Dutschke. E’ auspicabile che a  questi appunti faccia seguito uno studio accurato e sistematico delle circa 2.500 pagine di documenti raccolti da Laudiero (che pure non hanno «alcuna pretesa di completezza»). La complessità e la ricchezza delle tracce scritte lasciate dal movimento studentesco napoletano è testimoniata dalla stessa articolazione degli organismi afferenti alla Sinistra Universitaria: Movimento studentesco universitario, Sinistra studenti medi, Collettivo di Lavoro Operaio poi Rivoluzione Operaia, Centro Studi sull’Istruzione e la Ricerca (CSIR), casa editrice Thelema e soprattutto “Il Centro”, che, come scrive Laudiero,  «nato nella primavera- estate del 1968, è forse l’elemento più peculiare dell’insieme di iniziative sorte intorno alla Sinistra Universitaria» e in cui fu «rilevante la presenza di due ex membri del Gruppo Gramsci attivo a Napoli intorno alla metà degli anni Cinquanta – Ennio Galzenati e Ugo Feliziani, il secondo nella fase intermedia della vita del Centro».  Il principale indirizzo di lavoro del Centro si basava sull’idea che il mondo è entrato in una nuova fase di sviluppo, caratterizzata dall’allargarsi del ruolo della scienza nei processi produttivi, dall’estendersi dell’automazione e del ruolo dell’organizzazione del lavoro.

DAL GRUPPO GRAMSCI ALL’ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI

Il Centro si proponeva l’obiettivo a lunga scadenza della costruzione di capacità teoriche e pratiche di direzione, valutando con saggezza e cautela l’immaturità delle forze storiche di opposizione e la persistente arretratezza dei livelli di scontro («mancano una teoria e una avanguardia adeguate al livello dello scontro e le nuove forze sociali subordinate non hanno ancora raggiunto una maturazione sufficientemente profonda»). In coerenza con questa valutazione, il  Centro decideva di non rendere pubblica la propria esistenza al di fuori della Sinistra Universitaria.  Quest’organismo, costituito di militanti “anziani” della Sinistra Universitaria, di ricercatori e di docenti, dava luogo a una vasta produzione teorica, animando una dimensione “esoterica” della Sinistra Universitaria, sconosciuta alla stessa maggioranza dei “semplici” militanti della S.U..  Quest’organismo, che mi piacerebbe definire “pitagorico” , è stato il più significativo trait d’unionfra il Gruppo Gramsci degli anni Cinquanta e l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nato a metà degli anni Settanta per iniziativa di Gerardo Marotta.
In comune fra questa due tappe d’un unico percorso c’è, fra l’altro, la rivendicazione della scienza come fattore decisivo della strumentazione teorica da elaborare a fini emancipativi, andando oltre l’apporto, importante, ma insufficiente, del marxismo. Durante la breve stagione del movimento studentesco, il Padiglione 19 della Mostra d’Oltremare, sede dell’Istituto di Fisica Teorica diretto da Eduardo Caianiello,  fu la fucina delle idee del movimento grazie all’opera di una nutrita pattuglia di brillanti studenti e ricercatori di fisica, fra cui Ennio Galzenati, Emilio Del Giudice, Ruggiero de Ritis,  Francesco del Franco,  Renato Musto, Roberto Pettorino, per ricordare solo gli scomparsi di cui mi resta un forte ricordo. Per quanto riguarda l’importanza della componente scientifica nell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, basti pensare al ruolo di Presidente Onorario dell’Istituto ricoperto  a lunfgodal premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine e alle centinaia di convegni, seminari, pubblicazioni di scienze promossi dall’Istituto, fra cui basti pensare soltanto quelli tenuti da premi Nobel Da Rita Levi Montalcini a Carlo Rubbia, Sheldon Glashow, Robert Laughlin, Steven Weinberg.

Nella “Dichiarazione programmatica degli aderenti alla Sinistra Universitaria” si rileva che con lo sviluppo delle forze produttive e dell’organizzazione sociale, maturano le condizioni « su cui si può fondare la trasformazione socialista della società ». Con un linguaggio preciso e calibrato si sottolinea che soltanto sulla base di sviluppi oggettivi si crea l’apertura per un intervento soggettivo che possa portare all’abbattimento del privilegio e dello sfruttamento e alla direzione sociale della vita pubblica. Fin dal suo “biglietto da visita” la Sinistra Universitaria segnala una direttrice di marcia che rifugge sia dal bordighiano  automatismo delle trasformazioni a prescindere dall’apporto cosciente, sia dal volontarismo e dall’avventurismo. L’opportunismo, le tendenze moderate e conciliatorie, hanno prevalso nelle formazioni politiche della sinistra tradizionale « con il sostegno delle forze privilegiate che dominano in Unione Sovietica». E’ da notare la cautela usata nella stessa denominazione dell’assetto dell’URSS, che non viene definita né con la categoria di “capitalismo di Stato”, né con quella di socialfascismo,né, ovviamente, con quella di “primo paese socialista”. La Sinistra Universitaria si distanzia quindi tanto dai trotzkisti e dai filocinesi,quanto dai revisionisti , e sottintende l’esigenza di una comprensione scientifica della natura dell’Unione Sovietica, cui si applicavano formule retoriche vuote,  di carattere apologetico, o di altrettanto retorica condanna (queste ultime tuttora prevalenti). Alla comprensione della natura del “socialismo reale”, decisiva per la formulazione di una teoria adeguata alle nuove contraddizioni del mondo dopo il  ’17, gioverà « il recupero dell’esperienza teorica e pratica del leninismo, arricchendolo con gli originali contributi del pensiero rivoluzionario degli ultimi quaranta anni ed anzitutto della Rivoluzione culturale cinese».

 

ESPERIENZE DI LOTTA POLITICA

Nel documento programmatico ogni azione politica nell’Università veniva ipotizzata come diretta contro le forze arretrate e conservatrici, ma anche contro « le forze sociali e politiche che ispirano il revisionismo moderno», vale a dire i partiti della sinistra parlamentare e gli “entristi”, che si illudevano di poter radicalizzare dall’interno i partiti della sinistra parlamentare. Gli aderenti alla Sinistra Universitaria, pur nella priorità assoluta dello sviluppo della teoria, si proponevano di « raccogliere e generalizzare» le esperienze di massa, vale a dire di esercitare una concreta direzione politica delle lotte degli studenti. Venivano aspramente criticati i gruppi che proponevano piattaforme “accademiche”, corporative, e sostenevano la “sindacalizzazione” del movimento universitario, a tutto vantaggio della politica di integrazione degli studenti da parte della sinistra ufficiale. Veniva inoltre vista come necessaria la formazione di « centri permanenti di  orientamento e di iniziativa», preludio fra l’altro all’installazione, il 12 dicembre 1968, nell’Istituto di Storia Moderna e Medievale al corso Umberto, della sede del movimento studentesco  di cui si parla nell’ opuscolo Esperienze di lotta politica, ristampato  in gran parte nell’antologia presente in questo volume.

Le proposte della Sinistra Universitaria al movimento erano sempre dettate dall’attenzione allo spazio politico oggettivo che era possibile occupare, evitando in ogni circostanza l’opportunismo di destra e l’estremismo di sinistra, cioè rifiutando da una parte il compromesso, la cogestione, l’abbandono delle rivendicazioni di punta (“socialiste”), il corporativismo, la settorializzazione, dall’altra il settarismo, il disconoscimento delle piattaforme di massa (“democratiche”), la presunta purezza rivoluzionaria, le fughe in avanti. Il movimento studentesco napoletano veniva dunque    indirizzato a evitare ogni ipotesi di crescita quantitativa, orizzontale, così come di ogni impennata elitaria, che sfociasse in un velleitarismo verboso e staccato dalla realtà. Il leninismo, cui di continuo ci si rifaceva, era infatti inteso prima di tutto come confronto dialettico con i termini oggettivi della realtà. Le contraddizioni vissute dallo studente erano viste come legate al suo essere sociale più generale e venivano quindi interpretate come contraddizioni di tipo politico-culturale.  Nel rifiuto di ogni ipotesi di sindacalizzazione del movimento studentesco, questo veniva spinto a rivendicare i più ampi livelli di generalità nella comprensione della realtà e nella collocazione delle proprie lotte politiche. « Un intervento politico in questi termini non esaurisce però il compito di proporre esperienze ai più ampi livelli di generalità. E’ necessario che questa esperienza di  generalità sia portata avanti non solo in senso strettamene politico, ma  in una prospettiva più vasta di formazione culturale e umana: il solo lavoro politico, teorico e pratico, che è un momento essenziale dello sviluppo della coscienza, non basta ad assicurare una maturazione ricca e piena se non è collocato in un contesto che ne renda evidenti i collegamenti con tutti i problemi connessi allo sviluppo della storia».

La Sinistra Universitaria  rivendicava la continuità con la tradizione del marxismo e del leninismo e si contrapponeva a ogni atteggiamento antiscientifico e anticulturale. Veniva indicata come decisiva la congiunzione della politica con i contenuti etici e conoscitivi dell’umanità. Con queste parole veniva annunciato il controcorso sulla Rivoluzione d’Ottobre vista nel quadro della storia dal 1870 al 1920 : « Va riproposta, in una dimensione collettiva, una esperienza che stimoli la capacità di comprensione degli elementi complessivi di sviluppo della storia sulla base di un discorso che si colleghi al momento più maturo della tradizione rivoluzionaria, il leninismo, con una impostazione quindi coerente a una concezione rivoluzionaria del mondo». L’intervento  teorico e politico di Lenin veniva  ancora una volta proposto come decisivo. Il leninismo veniva inteso come la più matura teoria dell’intervento della coscienza nella storia. Che la coscienza, cioè la ragione, potesse,  anzi dovesse guidare la storia, era riconosciuto come un concetto decisivo della rivoluzione borghese.Non aveva forse Hegel  affermato nelle sue lezioni di filosofia della storia che la Rivoluzione francese è stata « una splendida aurora» per tutti gli esseri pensanti?

Su questa scia il marxismo, rilevata l’oggettività delle leggi del procedere della storia, critica la presunta universalità della ragione borghese, ne identifica i limiti storici e indaga le specifiche leggi di sviluppo della società capitalistica. Ma oltre alle leggi dei fatti obiettivi « sulla cui base può profilarsi  un modello di organizzazione umana in qualche modo contenuto nelle contraddizioni stesse della società in cui si vive » (Perché studiare Lenin), vi sono anche le leggi dell’intervento della ragione nella storia che il leninismo ha individuato. Ogni spontaneismo irrazionalistico va respinto: la rivoluzione non è parto spontaneo della storia, moto insurrezionale improvviso, frutto della astratta volontà degli uomini, bensì « è processo lungo e faticoso di costruzione, irto di tutte le difficoltà connesse alla condizione di chi deve elaborare i propri strumenti teorici e pratici di lotta e ordinare le sue forze nel campo stesso del nemico; è intelligenza delle leggi della storia, e capacità di adoperarvisi e di servirsene […]».

Il leninismo comporta la comprensione dell’assetto cui è pervenuto il capitalismo (L’imperialismo fase suprema del capitalismo), la collocazione delle contraddizioni particolari nel quadro generale delle contraddizioni dell’imperialismo, la differenziazione fra le “piattaforme democratiche “ e le “piattaforme socialiste” e la subordinazione delle prime alle seconde, la centralità della direzione dei processi politici contro ogni indulgenza allo spontaneismo, l’autonomia dell’agire rivoluzionario al di fuori di ogni cedimento alla cogestione,all’accettazione  cioè di un coinvolgimento in decisioni in una posizione subordinata, la denuncia dell’economicismo dei sindacati che va subordinato al primato della politica. « Il leninismo – concludeva la premessa al ciclostilatoPerché studiare Lenin – rappresenta il complesso di dottrine e di esperienze politiche rivoluzionarie di gran lunga più importante cui un mililtante possa riferirsi  nel suo sforzo di comprensione del mondo contemporaneo e nel suo impegno a trasformarlo».

 

I FATTI DI FRANCIA

Anche la tempestiva analisi dei “fatti di Francia” pubblicato in ciclostilato con data maggio 1968 (Bollettino della S.U. dedicato ai fatti di Francia; v. anche Università 1968: “ Gli avvenimenti francesi e l’unità antifascista” ) si caratterizzava per una lucida identificazione delle contraddizioni interne agli schieramenti che si erano scontrati. Prima di tutto il “maggio francese”, in polemica con le posizioni terzomondiste, veniva visto  come una conferma del ruolo centrale dei paesi avanzati nel mondo contemporaneo  e dell’esistenza in questi paesi di forti contraddizioni in grado di scatenare una crisi rivoluzionaria « smentendo tutti quei gruppi che fino a qualche mese fa affermavano che il capitalismo ei paesi avanzati potesse essere distrutto solo sulla base di un attacco esterno, proveniente dalle zone di maggiore sottosviluppo – la campagna del mondo-». E’ evidente che pur nel rispetto e nell’ammirazione per la figura  di Che Guevara , se ne respingevano le tesi sostenute nell ‘ appello  Creared due, tre, molti Vietnam è la consegna dei popoli.

L’analisi partiva dalla ricostruzione del processo di modernizzazione dell’università e della ricerca scientifica promossi dai settori del regime di Charles de Gaulle per inserire la Francia, con un posto di preminenza, nell’intenso processo di sviluppo industriale e tecnologico in corso nei paesi avanzati.  L’ampio disegno di rammodernamento dell’Università implicava però un adeguaneno dell’istituzione universitaria al modello dell’impresa, generando motivi di insoddisfazione in ampi strati di insegnanti e di studenti. Ne conseguiva la crescita di un movimento di opposizione nelle università tendenzialmente scisso in due filoni, uno più presente nelle facoltà scientifiche, l’altro in quelle umanistiche. Gli aderenti al primo schieramento avanzano la richiesta della partecipazione alla gestione e al controllo del potere nell’Università, reclamando la soppressione del vecchio autoritarismo accademico e la sostituzione della rigida suddivisione in facoltà con organismi misti di gestione formati da studenti,  ricercatori, docenti. «    L’immaturità politica di queste forze – veniva sottolineato – si rivela nel mancato esame dell’organizzazione della società moderna nel suo insieme e di conseguenza nel non affrontare in modo centrale il problema del potere politico».  Il secondo filone si collegava all’avanguardia artistica di sinistra e al pensiero irrazionalista, giungendo a vedere nella scienza uno strumento di repressione e di dominio e rifiutando ogni pianificazione centralizzata « contestata in e stessa se non nel suo uso sociale».

Alle rivendicazioni iniziali degli studenti di Nanterre, limitate alla richiesta di partecipazione al governo dell’università, di fronte alla totale chiusura del governo  e alla superficiale ironia dell’opposizione, fa seguito una rapida radicalizzazione delle masse studentesche, che danno luogo a clamorose manifestazioni nel Quartiere Latino  a Parigi, sfociate in durissimi scontri con la gendarmeria. E al dilagare della contestazione in vasti settori operai, attratti soprattutto dalle parole d’ordine della partecipazione e dell’autogestione.  Il 19 maggio, quando l’ondata degli scioperi è ancora nella fase crescente (toccherà i dieci milioni di operai in sciopero), la Confééeration Général du Travail, il sindacato equivalente alla nostra CGIL, denuncia gli studenti e gli operai in agitazione come “avventurieri e provocatori” e, subito seguito dal PCF, offre un appoggio al governo gollista,aprendo trattative sindacali pur di recuperare il controllo del movimento spontaneo che aveva ormai quasi perduto.Si profila a questo punto una lettura originale del “maggio” da parte della S.U.: i comunisti e i sindacati fanno blocco col capitale avanzato (che fa capo a de Gaulle), che auspica una forte presenza autonoma della Francia nel campo imperialista, mentre «i ruderi della IV Repubblica pre-gollsta», i protagonisti delle guerre coloniali di Algeria e d’Indocina, della guerra di Suez « si vestono di panni giacobini e danno fiato alle trombe rivoluzionarie, sperando nella caduta di de Gaulle per porre lo Stato francese al servizio dei gruppi capitalistici filoamericani»

In un’appendice allo scritto sul “maggio” francese intitolata Come si riconoscono i nemici di classe, la Sinistra Universitaria rileva che si sta sviluppando un vasto movimento”alla sinistra” della sinistra ufficiale, di cui critica lo siprito accomodante e la sostanziale alleanza con i gruppi capitalistici più avanzati, nel quadro della “coesistenza pacifica” in politica internazionale: « Questo movimento ha il suo punto di forza nelle università, che sono il settore più politicizzato della società, ed estende la propria influenza, come hanno dimostrato i fatti di Francia, anche sui gruppi operai di più recente formazione». Già da qualche anno si era profilata questa spinta di sinistra tendente al rifiuto della subordinazione e all’affermazione dell’iniziativa autonoma delle masse: In questi fermenti, che sfuggivano al controllo della sinistra ufficiale, si sono inseriti gruppi provenienti da esperienze politiche vissute all’interno e ai margini dell’ufficialità di sinistra che hanno introdotto nel movimento elementi di carattere stalinista, trotzkista, anarchico che hanno fuorviato e rallentato il processo di maturazione del movimento stesso. Questi svariati raggruppamenti, unificati dal loro carattere non leninista, hanno puntato sullo sviluppo  di massa del movimento spontaneo, senza cogliere in alcun modo l’esigenza decisiva di costruire un centro di contropotere politico reale. La strategia di questi gruppi dissidenti tende semmai a creare centri di contropotere  a livello della società civile (fabbriche, scuole), prescindendo dalle caratteristiche essenziali della società moderna « che vede tutti i centri della società civile strettamente subordinati alla società politica, la quale dispone di mezzi formidabili forniti dalla crescente centralizzazione dei processi sociali per imporre le proprie scelte ai centri periferici […]. Le stesse forze oggettive che portano alla sparizione dei capitalisti individuali e alla loro sostituzione con i trustso con la gestione statale, confinano nel regno delle utopie il sogno, tipico ella mentalità contadina, dell’autogestione al livello locale». Non a caso è proprio il titoismo, « estrema destra dello schieramento “socialista” internazionale», che assegna ampio spazio all’autogestione di fabbrica, perfettamente funzionale anche a un sistema economico decisamente capitalistico, sia pure più avanzato di quello tradizionale.  I consigli di fabbrica jugoslavi, come i regimi assembleari predicati dagli spontaneisti, non hanno nulla in comune con i soviet e si limitano alla gestione di settori particolari della società civile, nell’ambito di un assetto complessivo basato sullo sfruttamento (capitalistico) o sull’oppressione (pseudo socialista).

La vittoriosa rivoluzione di Mao in Cina nel 1949 aveva suscitato fra i membri del Gruppo Gramsci, che si sarebbe costituito di lì a poco, la convinzione che la rivoluzione comunista stesse per prevalere su scala mondiale. Questo ricordo di Ugo Feliziani testimonia del clima di entusiasmo e di aspettative che ancora in quell’anno regnava fra i giovani comunisti napoletani. La ripresa del discorso rivoluzionario nel ’68 manifesta invece cautela nei confronti della Rivoluzione cinese e anche della successiva fase della Grande Rivoluzione culturale proletaria, che suscitava in altri ambienti del movimento esaltazioni sommarie e adesioni ingenue improntate a un vero e proprio primitivismo, che in breve tempo portarono alla nascita di vari Partiti Comunisti Marxisti-leninisti e di Servire il Popolo. Il fascicolo Università 1968, riprodotto nell’antologia presente in questo volume, testimonia dell’attenzione per i tentativo allora in atto di andare oltre l’esperienza sovietica, ma insieme manifesta cautela circa i possibili sviluppi del socialismo in Cina: « L’importanza storica delle indicazioni della Rivoluzione culturale cinese deriva dal fatto che essa è una prima azione di massa contro l’organizzazione della società e del potere che è riuscita a prevalere in URSS e nei paesi dell’est europeo. Naturalmente non si può negare che l’espansione di questo movimento di massa è fortemente ostacolata, da un lato dall’esistenza di un implacabile accerchiamento internazionale, dall’altro, dalla stessa situazione cinese, che presenta i caratteri tipici di una società contadina in via di sviluppo. Il basso livello delle forze produttive e delle relazioni materiali fra gli uomini pone rilevanti problemi in connessione con la necessità dell’accumulazione primitiva e si deve temere che, nel corso dello sviluppo sociale ed economico della Cina, possano riproporsi e prevalere soluzioni dello stesso tipo di quella dell’URSS, con i loro limiti profondi».

La riflessione sui limiti della Rivoluzione culturale proletaria veniva condotta sul filo dell’analogia con le lotte popolari italiane del secondo dopoguerra, quando operai, ceti medi, “capitalisti patrioti” nella lotta antinazista, si erano configurati – nel linguaggio maoista – come “popolo”. Le posizioni di Mao, e dei maoisti italiani venivano  viste – in controtendenza con le apparenze e con le dichiarazioni velleitarie del P.C.d’I filomaoista. e di Servire il popolo – come sostanzialmente analoghe a quelle del PCI, che, al pari dei filo maoisti, aveva fatto leva su un generico blocco popolare, ignorando volutamente le contraddizioni antagoniste interne a quel blocco di forze. Ancora una volta si rivelava chiarificatrice la distinzione operata dalla S.U. fra “arretrati” e “avanzati”, fra le forze più arretrate della borghesia e la borghesia progressista: l’opposizione del PCI, e dei filocinesi,  era di fatto rivolta solo contro le prime, tradendo una impostazione in ultima analisi moderata. «[… l’ufficialità cinese propone una piattaforma in cui tutto si confondono piattaforme democratiche, arretrate o avanzate che siano, e piattaforme socialiste; e, quanto  ad affermazioni sul tema dell’unità di lotte democratiche e lotte socialiste, non si discostano poi di molto dalle affermazioni proprie dei partiti “revisionisti” contro cui si vorrebbe combattere».

Il Centro Studi sull’Istruzione e la Ricerca (CSIR) dava luogo a un’accurata discussione della crescente importanza dei fattori scienza, ricerca e sviluppo nelle società avanzate, che si concretizzava nel saggio intitolato Sviluppo della ricerca scientifica nella fase imperialistica del capitalismo. Come in tutta la produzione teorica che s’irraggia dalla S.U., l’attenzione è focalizzata sugli  aspetti contradditori del fenomeno esaminato: quello appunto  del crescente ruolo della ricerca scientifica. Viene rilevato che questa non si presenta come un fattore direttamente produttivo, eppure richiede investimenti elevatissimi, i cui frutti possono essere colti da industrie concorrenti.  Per questo i monopoli privati tendono a limitare i propri investimenti nelle attività di ricerca, eppure hanno interesse a sviluppare queste ultime: Giocando sul fatto che la ricerca è fattore di produzione per l’industria avanzata e insieme bene sociale, i monopoli privati sollecitano l’intervento dello Stato, « chiamato in quasi tutti i paesi capitalistici ad essere il principale finanziatore della ricerca e sviluppo». Questo processo genera ulteriori contraddizioni: « i monopoli privati, infatti, devono pesantemente intervenire per sopprimere o controllare eventuali forze che, sviluppandosi intorno a queste iniziative statali, tentino di affidare allo Stato una funzione direttamente legata ad attività produttive»: Queste dinamiche vengono affrontare nel documento in particolare con riferimento agli Stati Uniti d’America. Si rileva poi la posizione subordinata dell’Europa e infine viene analizzata la  ricerca scientifica nella situazione italiana, in cui vengono identificate due posizioni fondamentali in conflitto tra loro: quella delle forze economiche legate a settori produttivi arretrati e a basso contenuto tecnologico, forze per nulla interessate alla ricerca scientifica, e quella delle forze interessate a processi di ammodernamento strutturale. A loro volta queste ultime sono divise dal contrasto fra i gruppi che accettano la subordinazione all’imperialismo USA e quelli che invece tendono a porsi su un piano di autonomia rispetto a quest’ultimo. Emerge un quadro di forti contraddizioni, che si riverberano a livello politico, dando luogo a scontri anche aspri, come viene esemplificato in un’accurata analisi della storia del CNEN (Consiglio Nazionale Energia Nucleare) il cui drastico ridimensionamento fu dovuto all’intervento dell’industria nucleare americana e del personale politico più legato agli USA ( in primis il partito socialdemocratico di Saragat).

Alcuni militanti della S.U., sia della prima ora, sia aggregatisi nel corso delle lotte del movimento studentesco, tentavano un aggancio col mondo operaio. Come nelle sezioni precedenti di questo breve e molto parziale resoconto, preferisco non nominare nessuno, per non far torto a nessuno. A fine 1970 dalla S.U. nasceva il Collettivo di Lavoro Operaio (C.L.O), che interveniva in alcune situazioni di lotta della classe operaia napoletana (Mecfond, Olivetti, Italsider): « L’intervento del C.L.O. nel mondo operaio vuol muoversi sul filo di un contributo alla creazione di centri di riferimento teorico e politico rivoluzionari a livello di massa, completamente alternativi alla sinistra “ufficiale”, solidamente attestata su posizioni opportuniste». Nel ciclostilato del C.L.O. intitolato Riforme e rivoluzione, si tentava un’analisi dello sviluppo del capitalismo italiano tesa a coglierne  – come in tutta la breve, ma intensatradizione della Sinistra Universitaria – le contraddizioni , le linee di spaccatura interne.  ll punto di partenza era il sorprendente ricorso all’arma suprema dello sciopero generale per le riforma da parte di un sindacato che, dopo l’autunno caldo del 1969, si era affrettato a chiudere, in funzione pacificatoria, 3.500 accordi  aziendali in cui le principali rivendicazioni operaie restavano insoddisfatte:

SCONTRO FRA MONOPOLISTI

Il processo di riforma veniva inquadrato nella storia recente dello scontro tra i gruppi monopolistici più avanzati (FIAT,Pirelli, Olivetti, IRI. ENI)  interessati a una presenza sui mercati mondiali e quindi all’ammodernamento del sistema produttivo e i settori capitalistici più arretrati , legati a forme di sfruttamento del lavoro salariato più arcaiche, meno efficienti e spesso parassitarie. Come esempio della spinta in atto per la modernizzazione veniva segnalata la nazionalizzazione dell’energia elettrica «che ha significato un rafforzamento del grande capitale pubblico e una grossa razionalizzazione della struttura produttiva» Lo stesso “aut unno caldo “ veniva interpretato come un episodio della lotta tra capitalismo avanzato e capitalismo arretrato. Pur riconoscendo che si era trattato di una importante esperienza per la classe operaia (nascita dei consigli  operai, di avanguardie rivoluzionarie,etc.) si rilevava che esse era stata strumentalizzata dal grande capitale « che se ne è servita come massa d’urto contro i gruppi capitalistici più arretrati». Le piattaforme salariali e normative dell’”autunno caldo”  avevano infatti costituito un duro  colpo per il capitalismo ar retrato « che vive sul sottosalario, sulla violazione dei contratti e delle normative». Ma su quegli stessi piani salariali e normativi le concessioni del 1970 erano state agevolmente sopportabili per la FIAT o l’IRI, che non a caso avevano rotto il fronte padronale accorandosi direttamente col sindacato, scavalcando la Confindustria. La riforma della casa, la riforma sanitaria, etc: si profilavano a questo punto come un passaggio necessario al capitale avanzato italiano per ammodernare il sistema-paese, mettendosi in condizione di poter concorrere sui mercati internazionali con i paesi più progrediti sviluppando la produttività, togliendo spazio alla rendita par assitaria, concentrando il capitale finanziario, integrando le spinte della classe operaia: «[…] con le riforme il denaro che affluiva nelle tasche dello speculatore edilizio o dei clinici sanguisughe, viene assorbito nelle grosse concentrazioni finanziarie, che ne risultano rafforzate; si tenta di smorzare,inoltre , lo spirito di lotta del proletariato attenuando alcune forme di particolare disagio».

Spero che anche da questi brevi cenni si possa scorgere l’ampia e metodica articolazione di interventi teorico-pratici che si diramavano dalla S.U., rendendo unica la configurazione del movimento studentesco napoletano: Questo infatti non restava un fenomeno spontaneo, ma neppure – come avveniva altrove – finiva col portare acqua al mulino della sinistra ufficiale e si trovava  colonizzato da gruppuscoli più o meno velleitari. Il movimento studentesco napoletano veniva innervato e diretto da un’organizzazione di massa, la Sinistra Universitaria, che, a sua volta, rientrava in un progetto articolato in varie organizzazioni settoriali ( Sinistra Studenti Medi, Comitato di Lavoro Politico, poi Rivoluzione Operaia, CSIR), tutte ruotanti intorno al Centro, che configuravano un assetto di partito, pur senza la più piccola velleità di presentarsi come un embrione di partito rivoluzionario, e questo in un momento in cui proliferavano i “partiti” filocinesi, o afferenti alla IV Internazionale trotzkista. Il rifiuto di ogni  volontarismo e velleitarismo, l’adesione dialettica (non di positivistica accettazione) al terreno reale di scontro caratterizzavano tutta la vita della Sinistra Universitaria e del movimento studentesco  napoletano, che hanno avuto durata breve e hanno nella sostanza proceduto a un tempestivo auto scioglimento sulla base di una saggia, ma insieme drammatica, presa di coscienza che , già dopo  l’attentato di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, non sussistevano le condizioni per portare avanti un progetto rivoluzionario. E infatti, chi si è intestardito a cozzare contro la realtà, ha soltanto agevolato i piani più reazionari.

Pur dopo la dissoluzione della Sinistra Universitaria e il sopravvento di una diaspora caratterizzata da differenti percorsi esistenziali dei suoi militanti, ancora ci sono state significative manifestazioni legate a quell’esperienza, prima fra tutte l’attività della casa editrice Thelema. Il rigore teorico travasato dal Centro nella Sinistra Universitaria si manteneva intatto nella fase di scioglimento di quest’ultima: dal rifiuto di tutte le pratiche opportunistiche, conciliatorie nei confronti del PCI si risaliva alle debolezze della stessa teoria marxista e delle sue previsioni sulle tendenze di sviluppo delle società contemporanee più avanzate, nella consapevolezza che il marxismo finisce per acquistare una funzione apologetica, di difesa dei rapporti sociali esistenti. Una volta conclusa l’esperienza della Sinistra Universitaria, rimaneva vivo nei suoi militanti il ricordo dell’ostilità dei ceti dominanti verso le grandi speranze espresse dal movimento giovanile del ’68, come pure restava viva la coscienza della cooperazione all’azione repressiva offerta dai partiti di opposizione (il PCI in prima istanza) e dalle loro costruzioni ideologiche. Il tentativo di proseguire un’esperienza teorica di decostruzione degli apparati ideologici e del marxismo stesso fu portata avanti ancora fino al 1973 con le pubblicazioni della casa editrice Thelema, creata col generoso impegno, primi fra tutti, di Francesco del Franco e Renato Musto e soprattutto con i due tomi di In nome della necessitàdi Jean-Paul Malrieu, un chimico-fisico che aveva stretto amicizia col fisico Ennio Galzenati. L’opera – una serrata analisi dell’economicismo delle teorie economiche – sfociava in una tesi politica: « L’’economicismo del movimento marxista ha sistematicamente impoverito le poste della rivoluzione e condotto il movimento rivoluzionario nell’impasse del socialismo produttivistico, gerarchizzato, specializzato». Il marxismo – sosteneva Malrieu (I,10) – soffre di un economicismo costitutivo, nel senso che la dipendenza delle categorie economiche dall’extraeconomico non vi è sufficientemente esplicitata. Il’68 a smentito l’economicismo: «Il maggio […] ci confermava anche quanto l’economicismo,e quello del Partito Comunista Francese in particolare , potevano iugulare la speranza e il desiderio ancora incosciente di un rovesciamento dell’ordine sociale nelle sue stesse basi, ricacciare indietro il sogno, privare di voce il desiderio». Il marxismo è utile in quanto rileva le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, ma esso non dimostra la necessità scientifica della morte del capitalismo, né per la ipotizzata caduta tendenziale del saggio di profitto, né per crisi di sovrapproduzione, né per una crisi internazionale o per una crisi ecologica planetaria. Non c’è alcuna necessità, cui potersi affidare à laBordiga. Ma non c’è neppure alcuna libertà di collocarsi immediatamente in una logica totalizzante con un discorso “ispirato-ispiratore” quale quello dei situazionisti, che rifiuta la critica analitica., approdando  a un discorso in fondo moralistico, che si pone come negazione già in atto del regno della separazione (I, 11). E sfocia in «un discorso sovversivo immanente, invocatorio». L’opera si conclude con la considerazione che « la rivoluzione non è fallita per essere troppo ambiziosa, per aver troppo voluto, essa è fallita per aver conservato con il vecchio mondo, insieme con la rappresentazione borghese, troppi legami che la respingevano nei binari in cui noi viviamo »(II,198). L’errore più grave del marxismo sta nell’aver localizzato nei rapporti di produzione il luogo dello sfruttamento e dell’oppressione e nell’aver visto nella tecnica (i, 181) “per sé” l’arma della libertà. Ma dal maggior errore scaturisce la verità più significativa: « E’ nell’organizzazione materiale dell’esistenza che si iscrive il possibile degli uomini» (I, 182).

UN MONDO IN ATTESA DI DIVENIRE

Massimo Bontempelli, autor e di una delle più brillanti sintesi degli eventi del ’68 planetario , Il Sessantotto. Un anno ancora da capire  (CUEC, Cagliari 2008), in un’intervista a “Micropolis” (febbraio 2009), affermava: « Il 1968 non è stato un “nuovo inizio” di nulla. Ha dato un contributo importante allo svecchiamento del Paese dalla sua cultura chiesiastico-contadine ed alla liberalizzazione di costumi, ma, facendo qu esto, non ha dato inizio a un nuovo percorso, bensì ha impresso un’accelerazione ad un processo già in atto. La liber alizzazione dei costumi   è legata in Italia al cosiddetto “miracolo economico” del 1958- 63 […]: La liberalizzazione dei costumi ha preso fin dall’inizio  la direzione del consumismo. Dell’individualismo egocentrico, di un’emancipazione femminile avanzante mediante l’assimilazione delle donne socialmente in ascesa ai preesistenti modelli competitivi, insomma di una “rivoluzione passiva” in senso gramsciano, ed il movimento del ’68 non ha modificato in nulla questa direzione». Si deve concordare con Bontempelli sul fatto che il ’68 ha impresso fra l’altro  un’accelerazione ai processi già in atto di appiattimento della società  a capitalismo avanzato –  al di là delle appartenenze di classe – a una unidimensionalità schiacciata dall’imperativo del consumo, con l’acquisizione dei costumi e dei comportamenti ad esso funzionali,ma si  può forse dire che nel ’68 si sono accavallate due ondate storiche che tuttora sono da districare, da smembrare.  Da una parte questo annus mirabilisha fatto emergere istanze, che erano nel profondo, di egualitarismo, di antimperialismo, di aspirazione all’autodecisione nelle esistenze dei singoli, lo spirito di un “nuovo inizio”; esso è stato un sussulto rivoluzionario globale paragonabile forse solo al Quarantotto per la sua esplosione pressoché simultanea in tanti diversi Paesi. Entrambi i due sussulti rivoluzionari, del 1848 e del 1968, si rivelarono insuccessi storici, ma entrambi si manifestarono all’unisono in tanti centri distanti fra loro e, pur nella sconfitta, produssero profonde trasformazioni ( come sostengono Giovanni Arrighi, Terence K:Hopkins e Immanuel Wallerstein). Il Sessantotto, imparentato col Quarantotto, ha invece  poco a che fare con gli eventi del 1977 e anni successivi . I movimenti giovanili sviluppatisi nel 1977 in Italia (e solo in Italia) presentarono un carattere ambiguo. Negli anni ’70 erano state introdotte nell’economia e nella società italiane  ampie trasformazioni in senso neocapitalistico e consumistico, che avevano segnato la nuova generazione, spingendola sulle vie nichilistiuche del “r ifiuto del lavoro e del progresso”: Le trasformazioni delle forze produttive inducono solo lentamente trasformazioni nella mentalità e nel costume: E’ vero che il boom economico e l’avvio della seconda rivoluzione industriale erano già alle spalle della generazione del ’68, ma questa, costituita da giovani nati nell’immediato dopoguerra, più che risentire della spinta del consumismo, aveva dietro di sé  gli stenti e la povertà degli anni di guerra patiti dai loro genitori e la mentalità parca e frugale di un mondo arcaico. I giovani del ’77 esprimevano invece un atteggiamento tracotante ed egocentrico, proprio di una società dei consumi ormai matura e “unidimensionale” e non trovavano in sé alcun anticorpo per resistere a spinte nichilistiche. La caratteristica più rilevante della società industriale avanzata non sta tanto nell’enorme incremento della produzione di merci, quanto nella capacità di creare atteggiamenti e tipi umani che le sono funzionali. L’abolizione di ogni “spazio interno” degli individui, preconizzata da Herbert Marcuse, si era realizzata: sullo scenario del ’77 agiva una gioventù “rasa al suolo”, per ricorrere a un’espressione di Pier Paolo Pasolini. Gli atteggiamenti  di puro pragmatismo e di esercizio della violenza, fino al terrorismo (sapientemente utilizzato dai vari servizi segreti), non hanno radici nel ’68, ma purtroppo trovarono un brodo di coltura nel ’77.

«Il mondo degli esseri umani, al presente, è tuttora in attesa di divenire il mondo di tutti  gli esseri umani, non più segnati dall’infausta contrapposizione fra predatori e prede», scriveva Ennio Galzenati al termine del suo libro I nostri lunghi millenni(Bibliopolis, Napoli 2013, p. 243). In questa attesa si è collocata l’opera quarantennale di Gerardo Marotta con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici da lui fondato nella consapevolezza del ruolo decisivo della filosofia per la costruzione di un apparato teorico adeguato alla comprensione delle contraddizioni del mondo contemporaneo nella prospettiva dell’emancipazione dell’umanità; in questa impresa è stata operante la consapevolezza della centralità del “mondo ideale” che era stata identificata dal Guido Piegari: «Se è giusto sostenere che lo spirito nasce dallo sviluppo della realtà precedente, dalla materia, non è tuttavia lecito affermare che il mondo materiale sia il solo mondo reale: Il marxismo […] non si rende conto che ad un certo punto di sviluppo della materia si forma uno stadio nuovo che procede secondo  proprie leggi e che è diverso e superiore rispetto al mondo della materia. [ …] così il mondo ideale è immensamente più ricco di tutti gli stadi precedenti del reale» (G.Piegari, Speranze di civiltà. Una riflessione filosofica degli anni Cinquanta, a cura di Ugo Feliziani, Bibliopolis, Napoli 2010,pp.30-31). D’altra parte un passo indietro verso la filosofia era stato indicato dallo stesso Herbert Marcuse che concludeva L’uomo  a una dimensione, perricorrere alle parole di Henri Lefebvre, evocando « l’incontro futuro della coscienza più sviluppata, quella dei filosofi, con le forze umane più oppresse e sfruttate» (“Le Monde”, 17-18 giugno 1968).


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