Non hanno fatto la fine di Giancarlo Caselli, che andò a sbattere sul bacio tra Giulio Andreotti e Totò Riina. Stappano champagne le due toghe di punta del processo per la trattativa Stato-Mafia, Antonino Ingroia che l’ha cominciato e Nino Di Matteo che lo ha portato a termine dopo 5 anni di udienze.
Ma ora sorgono spontanee alcune domande. Come mai quelle toghe eccellenti non hanno mostrato lo stesso piglio in altri processi da novanta? Due, ad esempio. Quello per la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, protagonista Ingroia. E i vari processi Borsellino (fino al terzo), protagonista Di Matteo.
IL COVO INCUSTODITO E QUELL’ARCHIVIO ESPLOSIVO
Rapido flash sul primo. Nonostante la montagna di prove raccolte sugli anomali comportamenti degli uomini del Ros, in particolare del colonnello Mario Mori e del suo braccio destro Sergio De Caprio, al secolo il capitano Ultimo, sono stati gli stessi pm, Ingroia e Michele Prestipino, a chiedere l’archiviazione perchè “il fatto non sussiste”. Ovvio viatico per l’assoluzione.
Che però fu ‘pesante’: perchè i giudici non riscontrarono condotte ‘penalmente rilevanti, ma le censurarono con estrema durezza sotto il profilo morale, deontologico, professionale. Secondo Ingroia e Prestipino, non c’era alcun favoreggiamento, perchè “la condotta condotta di Mori e De Caprio è stata dettata da ragioni di Stato e non da altro”. Ai confini della realtà.
Restano ancor oggi tutti in piedi gli interrogativi: come poterono mai Ingroia e Prestipino non accorgersi dei macroscopici comportamenti ‘devianti’ di Mori e Ultimo? I quali – per quella cattura – divennero degli autentici ‘eroi’, quando ormai anche le pietre sanno che Riina venne ‘venduto’ da Bernardo Provenzano, il quale così si garantì una quieta latitanza per tanti anni successivi (e da qui la seconda inchiesta e il secondo processo per la mancata cattura del boss, nonostante il colonnello dei carabinieri Michele Riccio avesse trovato un confidente d’oro, Luigi Ilardo, che non solo non venne fatto verbalizzare ma fu ucciso dagli uomini di Cosa nostra).
La “truppa era stanca dopo tanti mesi di lavoro intenso”, fu la risibile pezza a colori trovata da Mori per ‘giustificare’ il mancato controllo del covo per ben due settimane, che consentirono agevolmente ai piccotti di prelevare i documenti bollenti contenuti nella cassaforte, e soprattutto quell’archivio da 3000 nomi servito per ricattare mezza Italia e che oggi è con tutta probabilità tra le mani di Matteo Messina Denaro.
La covo story è uno dei più colossali buchi neri della storia di casa (e di Cosa) nostra: come mai il prode Ingroia si fece mettere nel sacco in quel modo? Mistero.
Passiamo a Di Matteo, il cui sontuoso pedigree è però macchiato da una storia vergognosa. L’aver spalleggiato la collega Anna Maria Palma nella costruzione dei primi processi Borsellino, un depistaggio in piena regola che ha portato in galera per 16 anni 7 innocenti, accusati sulla base delle testimonianze di un pentito taroccato da capo a piedi, Vincenzo Scarantino.
Un altro colossale buco nero che continua ancora a infangare la storia di casa nostra, visto che adesso siamo al Borsellino quater, nel corso del quale Scarantino ha ricostruito per filo e per segno tutto l’iter del clamoroso taroccamento. Come mai fino ad oggi nessuno ha pagato per quel depistaggio che suona come un vero schiaffo alla memoria di Paolo Borsellino? Del resto la figlia, Fiammetta Borsellino, ha più volte puntato l’indice contro quei giudici che hanno costruito il falso pentito a tavolino, facendo imbestialire l’icona antimafia-Di Matteo.
Per ricostruire la vicenda, ripubblichiamo un’inchiesta scritta oltre quattro anni fa da Sandro Provvisionato, che alla ‘story’ dedicò diverse puntate nella rubrica ‘Misteri‘ della Voce. Reportage illuminanti, autentiche perle del giornalismo d’inchiesta.
Eccoci, dunque, all’intervento del 13 febbraio 2014 e titolato “Strage di via D’Amelio – Parla il pentito taroccato Vincenzo Scarantino e accusa”. La parola a Sandro Provvisionato.
SENTIRE SCARANTINO PER CAPIRE LA TRATTATIVA
Sandro Provvisionato per la Voce delle Voci – 13 febbraio 2014
Spero di non tediare i lettori della Voce se mi soffermo ancora sul depistaggio Scarantino che ritengo centrale se si vuole capire cosa sia davvero accaduto in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992 (strage Borsellino) e che relazione abbia quel depistaggio con il processo sulla Trattativa in corso a Palermo, purtroppo, nell’indifferenza generale.
Il 21 gennaio scorso, durante un’udienza del processo quater per la strage di via D’Amelio, la deposizione del pm di Milano Ilda Boccassini, a conferma di quanto da mesi andiamo scrivendo, ha gettato nuove inquietanti luci proprio sulla “gestione” del falso “pentito”. Con lo stile franco e diretto che le è abituale, la dottoressa Boccassini ha spiegato che sarebbe bastato, nel lontano 1994, approfondire i dubbi che lei stessa aveva manifestato per capire che la pista segnata dal sedicente “pentito” Vincenzo Scarantino non solo era sbagliata, ma addirittura pericolosa. «Quando arrivai a Caltanissetta – ha raccontato il magistrato – da parte di tutti c’erano perplessità sulla caratura criminale del personaggio Scarantino. Ricordo perfettamente che si trattava di dubbi nutriti non solo dai magistrati ma anche dagli investigatori. La prova regina che diceva fregnacce (testuale, ndr) la ebbi quando, dopo vari tentennamenti e oscillazioni, Scarantino decise di collaborare con la giustizia». Preoccupata per la falsa pista che l’inchiesta stava imboccando, la Boccassini, prima di lasciare l’inchiesta per far ritorno a Milano, decise, insieme al collega Roberto Sajeva, di indirizzare una nota al procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Attenzione alle date: siamo al 12 ottobre 1994. Poco più di due anni dopo la strage, ma ben 15 anni prima dall’estromissione di Scarantino dal programma di collaborazione.
Nella nota, ora agli atti del processo, la Boccassini invitava il procuratore e i suoi sostituti a sospendere gli interrogatori di Scarantino, a «verificare bene le parole del collaboratore», ad «avvisare i colleghi di Palermo», a «fare i confronti» e a «ricominciare con saggezza, umiltà ed equilibrio, doti che dovrebbero avere i magistrati».
LA NOTA SCOMPARSA
Ma non accadde nulla. Non solo non venne convocata una riunione della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, ma la nota Boccassini-Sajeva scomparve. Primo interrogativo: perché quella nota indirizzata a Tinebra è rimasta ignota fino al 21 gennaio scorso? Perché i magistrati di Caltanissetta hanno pervicacemente creduto a Scarantino dal 1994 fino al 2009, buttando via 15 anni di indagini?
Interrogata sulle responsabilità di quella sciagurata inchiesta, la Boccassini ha cercato di salvare il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ritenuto oggi, assieme ad altri tre poliziotti, l’autore materiale del depistaggio, per accusare invece due suoi colleghi della procura di Caltanissetta: «Il dominus delle indagini – ha risposto il magistrato – è sempre il pm. E’ lui che decide». E i due pm sono – aggiunge la Boccassini – gli allora sostituti Anna Palma e Nino Di Matteo, la prima oggi in servizio al ministero della Giustizia, dopo aver fatto parte della segreteria dell’allora presidente del Senato Renato Schifani, e il secondo attualmente in servizio alla Procura di Palermo.
Con l’aggiunta di un altro magistrato, Carmelo Petralia, si tratta degli stessi nomi (in tutto quattro poliziotti e tre magistrati) emersi durante la puntata di Servizio Pubblico del 30 gennaio scorso, che ha avuto come ospite proprio Vincenzo Scarantino. Pressato dal direttore di Panorama Giorgio Mulè, il falso “pentito”, oggi barbone di strada, nel pronunciare alcuni di quei nomi ha mostrato chiari segni di disagio e di paura. E, guarda caso, appena finita la trasmissione di Michele Santoro Scarantino è stato arrestato con un’accusa quanto mai occasionale: aver molestato una donna. Sì, ma più di due mesi prima. Mai cattura fu più tempestiva. Mai messaggio fu recapitato così velocemente. Quello che è sicuro è che quei nomi Scarantino non li ripeterà mai più.
NOMI PESANTI
Inutile dire che tra tutti i nomi il più pesante è indubbiamente quello di Nino Di Matteo. E viene da chiedersi: come mai, colui che è considerato oggi l’icona dell’antimafia a Palermo, ieri, a Caltanissetta, era così sprovveduto da non accorgersi del depistaggio Scarantino? Obiettano i più avvertiti mafiologi di superfice: ma Di Matteo quand’era a Caltanissetta era solo un giovane magistrato e, nella vicenda Scarantino, ha avuto un ruolo marginale. Dimenticando che Nino Di Matteo è stato pm nel capoluogo nisseno dal 1992 al 1999, cioè dall’anno della strage di via D’Amelio e ancora per cinque anni, durante i quali ha creduto alle continue “fregnacce” (tanto per usare lo stesso termine della Boccassini) di Scarantino. Ma non basta: Nino Di Matteo ha anche sostenuto l’accusa nel processo che – testimone sempre Scarantino – ha condannato all’ergastolo un bel manipolo di innocenti. E quando gli avvocati della difesa lo ricusavano, assieme alla collega Palma, imperterrito ha continuato a battere la falsa pista Scarantino.
Ma anche a Palermo Di Matteo ha già avuto qualche defaillance: secondo i giudici della quarta sezione di Corte d’Assise ha completamente sbagliato l’impostazione dell’accusa per la mancata cattura (ottobre ’95) di Provenzano contro il prefetto del Sisde (già generale dei carabinieri) Mario Mori e il suo braccio destro Mauro Obinu, entrambi assolti. In altre parole uno dei pilastri del processo sulla Trattativa è già miseramente crollato.
Ma bisogna anche dire che oggi a Palermo Nino Di Matteo vive blindato perché è sotto l’aperta minaccia di morte dell’ex “capo dei capi” Totò Riina. E su questo voglio essere chiarissimo: Nino Di Matteo merita la piena ed assoluta solidarietà da parte di tutti.
L’OPERAZIONE “DAMA DI COMPAGNIA”
Purtroppo anche il capitolo “minacce di Riina” ha qualcosa di ancor più oscuro e inquietante delle minacce stesse. Ricordiamo che l’avvertimento di Riina di far fare «la fine del tonno» a Di Matteo emerge da una serie di intercettazioni raccolte nel carcere di Opera, intercettazioni avvenute durante l’ora d’aria del boss mafioso, che parla con un oscuro capo della Sacra Corona Unita, la mafia pugliese, tal Alberto Lorusso: nel gergo carcerario, la “Dama di compagnia”. A guardare i video che sono stati proposti e ad ascoltare le intercettazioni, saltano agli occhi e alle orecchie alcune stranezze: le intercettazioni non sono ambientali. L’audio è perfetto quando Lorusso e Riina sono uno di fronte all’altro, più debole e confuso quando i due sono fianco a fianco. Il che significa che Lorusso indossa un microfono. E che, quindi, più che una “Dama di compagnia” è un “agente provocatore”. Inoltre, lo stesso presunto boss pugliese, immediatamente trasferito e fatto sparire dopo la pubblicazione delle video-intercettazioni, parla con un accento siciliano molto pronunciato e, oltre a dimostrare una certa proprietà di linguaggio, è certamente ben informato sui fatti di attualità e conosce inoltre alcuni particolari di cui si dovrebbe essere a conoscenza solo in ambienti giudiziari. Da parte sua, Riina in alcuni momenti sembra più declamare che interloquire. Come se sapesse di essere intercettato.
Di queste intercettazioni, in realtà, si sa pochissimo: quando sono cominciate? Chi le ha ordinate? Chi ha scelto Lorusso come interlocutore del vecchio capomafia?
In un’intervista al settimanale Left del 25 gennaio 2014 Di Matteo dice: «Nel luglio scorso chiedemmo ed ottenemmo dal gip l’autorizzazione ad intercettare i colloqui di Riina nelle ore di socialità». Ma le trascrizioni disponibili dei colloqui sono molto antecedenti al luglio 2013. E sembrano ricondurci a quel “protocollo farfalla” siglato anni fa, un accordo tra il Dap, il Dipartimento carcerario del ministero della Giustizia, e l’allora Sisde, il servizio segreto civile e che probabilmente, sotto altre vesti, è ancora in funzione.
C’è poi il capitolo della caratura mafiosa del boss di Corleone, in carcere dal 15 gennaio 1993. Per Di Matteo (intervista a SkyTg24 del 1° febbraio scorso) Riina è stato certamente il capo di Cosa nostra fino al 2006 e probabilmente lo è ancora. Ma c’è da chiedersi come ha fatto a far uscire dal carcere i suoi ordini di capo se da sempre sta al 41 bis, articolo di legge creato apposta per impedire i contatti tra l’interno e l’esterno delle patrie galere. Oppure dobbiamo pensare che il 41 bis non abbia questo scopo?
LE PAURE DI UN VECCHIO BOSS
La mia impressione è che oggi Riina sia un vecchio boss di 83 anni, con scarsi o nulli collegamenti esterni, fiaccato da una detenzione in isolamento da 41 bis lunga 21 anni, che non ha altro da salvare se non il suo “prestigio” di vecchio capo di Cosa nostra. Che si infiamma al solo sentir parlare di Trattativa perché in questo ambito egli non sarebbe stato catturato sul campo, ma venduto da altri boss, come Bernardo Provenzano, e quindi non più un supercapo, ma un semplice picciotto babbeo. Non restandogli che il passato, a quello si aggrappa e lancia minacce a chi, parlando di una Trattativa che sicuramente è esistita, “infanga” il suo onore di uomo d’onore.
Intanto il processo sulla Trattativa Stato-mafia va avanti da nove mesi nel più assordante dei silenzi. E purtroppo – perché è lampante, la trattativa c’è stata – ricorda troppo da vicino quello che la procura di Giancarlo Caselli mosse all’inizio degli anni Novanta contro Giulio Andreotti. Una montagna di accuse durata 11 anni che partorì un topolino: Andreotti colluso con Cosa nostra ma solo fino al 1980 e quindi colpevole di un reato prescritto. Altro che capo mafia.
Anche l’impianto di questo nuovo processo è di una debolezza impressionate. Perché continua a proporre una lettura dei fatti tutta appiattita solo e soltanto sulle finalità della giustizia penale. E, ancora, Andreotti insegna.
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