DI ENRICO FIERRO
Onorevole Pomicino, ho letto con estremo interesse la sua intervista a Repubblica sulla morte di Ciro Cirillo. Non condivido neppure gli spazi bianchi, ma di una cosa posso darle atto, lei riscrive una parte della storia nera di questo Paese e lo fa a modo suo. Operazione semplice in questa Italia che se ne strafotte della verità.
“Ma no, ma quale trattativa…”, fa scrivere al suo intervistatore. Poi, parlando del defunto, verga il necrologio definitivo, tombale, che mai più potrà essere “macchiato” dalla lettura di inchieste giudiziarie, montagne di carte depositate nelle Commissioni del Parlamento italiano (Antimafia e Stragi), circostanze che sono impresse nella memoria dei sopravvissuti, da Raffaele Cutolo ai terroristi delle Br della colonna napoletana.
Lei detta all’intervistatore: “Cirillo è stato un dirigente autorevole della Dc che ha sopportato la violenza delle Brigate Rosse con compostezza e riservatezza”. Fermiamoci su queste due ultime parole, “compostezza e riservatezza”, la chiave di volta per capire una vicenda piena zeppa di omissioni, depistaggi, false verità, complicità istituzionali, incestuosi rapporti tra politici, servizi segreti, camorra, Brigate rosse, pezzi della magistratura. Il memoriale che Cirillo annunciò in una intervista a Peppe D’Avanzo, forse non esiste, o forse sì. Negli ultimi anni della sua vita, Ciro Cirillo ha “giocato” con i giornalisti su questo aspetto non irrilevante. Infine, onorevole Pomicino, lei chiude la porta a doppia mandata ad una eventuale ricerca di altre verità. “Tutto quello che si doveva dire è stato detto e il chiacchiericcio di questi anni lascia il tempo che trova…”. “Chiacchiericcio” le inchieste di Carlo Alemi, un giudice che mise le mani dentro l’affare Cirillo, scoprì complicità e collusioni. Ciriaco De Mita, era il mese di luglio del 1988, da Presidente del Consiglio andò in Parlamento per bollarlo come “un giudice che si è posto al di fuori dei confini costituzionali”. Gli uomini dei servizi, i parlamentari, i ministri che andavano da Raffaele Cutolo a genuflettersi, avevano rispettato la Costituzione, quella vera, quella imposta dal sistema di potere politico-mafioso, il giudice Alemi no. Era un “eversore”, e come tale, venne messo sotto inchiesta dal ministro della Giustizia del tempo, il socialista Giuliano Vassalli e solo nel gennaio 1990 venne “assolto” dal Csm.
Alemi, Libero Mancuso e gli altri giovani giudici che indagarono sui misteri della liberazione di Ciro Cirillo, erano pedinati, i loro telefoni intercettati, tutto ad opera dei servizi segreti. “Chiacchiericcio” non furono le pallottole che il 15 luglio 1982 crivellarono il capo della Mobile di Napoli Antonio Ammaturo e l’agente Pasquale Paola. “Ho mandato un dossier al Viminale, ci sono cose che faranno tremare l’Italia”, annunciò il commissario al fratello Grazio. Quel dossier non arrivò mai a Roma e Grazio Ammaturo morì qualche anno dopo in uno strano incidente d’auto in Tunisia. Pasquale Paola, giovane agente, amava il suo lavoro e scriveva poesie. “Chiacchiericcio”.
Ma lei, onorevole Pomicino, ha ragione: la storia la scrivono i vincitori. E lei ha vinto. Negli anni Ottanta diventò “’O ministro”, l’uomo che aveva in mano le leve finanziarie pubbliche che utilizzò per modernizzare il sistema di potere della Dc a Napoli e nell’intero Sud. Lei era una delle “menti raffinatissime” del grande circo andreottiano. Tutti bussavano alla sua porta, i comunisti la guardavano con ammirazione, i giornalisti la adoravano come un moderno principe e arricchivano di articoli (pagati benissimo) la sua rivista culturale, “Itinerario”. Lei ha vinto perché hanno vinto quelli come lei, una particolare e immortale specie politica oggi collocata un po’ in tutti i partiti.
”Abbiamo governato noi, governeranno i nostri figli e i figli dei nostri figli”, onorevole, certamente ricorderà questa frase di Arnaldo Forlani. Parole profetiche e vere. Avete vinto e potete riscrivere la storia come meglio vi pare. Il terreno è fertile. I sopravvissuti che ancora potrebbero raccontare la verità sul caso Cirillo, taceranno perché tutti hanno avuto la loro parte. I poliziotti “distratti” che nel corso degli anni hanno fatto brillanti carriere, i dirigenti dei servizi segreti complici, i magistrati che storcevano il naso rispetto alle inchieste dei loro colleghi, i brigatisti “premiati” con sconti di pena e Raffaele Cutolo, che dalla sua cella di un carcere speciale ha potuto godere della gioia di un figlio grazie all’inseminazione artificiale. Gli italiani sono assuefatti, qualcuno urla senza sapere, e la verità è noiosa. Non ci sono più i Francesco Rosi (“Le mani sulla città”, “Salvatore Giuliano”), i Peppe D’Avanzo, i Giorgio Bocca. I giornalisti sono distratti, il mondo corre veloce, e i registi (anche quelli napoletani) al racconto della realtà, preferiscono storie intime, cucina e tinello.
Onorevole, avete vinto, e noi facciamo volentieri a meno dell’onore delle armi.
ENRICO FIERRO
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