INFRASTRUTTURE IN CRAC / DOPO IL CASO TOTO C’E’ LA BOMBA LONGARINI

Anas in crac. Un buco da 400 e passa milioni che rischia di dilapidarne il patrimonio da appena 800. Tutto a causa di un contenzioso con uno dei capitani coraggiosi che hanno massacrato Alitalia, Carlo Toto. Bazzecole, comunque, rispetto al ciclone che sta per abbattersi sulle Infrastrutture di casa nostra, alle prese con un arbitrato da brividi per il quale si è in attesa del verdetto finale della Cassazione, che con ogni probabilità recapiterà il quintuplo, ossia 1 miliardo 900 milioni e rotti, nelle casse del mattonaro marchigiano Edoardo Longarini.

Un arbitrato voluto da Antonio Di Pietro quando nel 2007 era ministro delle Infrastrutture e che oggi rischia di mandare in tilt le casse dello Stato.

LA PRIMA BATOSTA DA MEZZO MILIARDO

Cominciamo dalle news. E dal primo macigno che rischia di abbattersi sulle casse dell’Anas. Un macigno venuto alla luce solo qualche giorno fa, per la precisione mercoledì notte, nascosto tra le pieghe del disegno di legge del decreto di conversione sulla manovra economica.

Carlo Toto. Nel montaggio di apertura Antonio Di Pietro

Carlo Toto. Nel montaggio di apertura Antonio Di Pietro

Un emendamento del governo, infatti, praticamente manda in fumo un credito da 121 milioni di euro vantato dall’Anas nei confronti della Toto Holding per lavori relativi all’Autostrada dei Parchi, che collega Roma con l’Abruzzo. Un vero e proprio regalo, con tanto di fiocco, attraverso il quale l’Anas viene indotta a rinunciare a tutta una serie di rate mai riscosse da Toto in veste di concessionario. Sembra proprio la storia di Totò e della fontana di Trevi, con il nostro Stato ben rappresentato dal fesso riccone americano che sgancia di caparra un mezzo milioncino in banconote calde come una sfogliatella.

Ecco cosa scrive il super analista di tutti gli sperperi pubblici, Sergio Rizzo, sul Corsera il 29 maggio, un pezzo titolato “Anas, una tegola da 425 milioni di euro”.

“Si tratta delle rate scadute del prezzo del corrispettivo di gara con cui l’imprenditore (allora insieme ad Autostrade) si è aggiudicato la concessione. Il costo, fissato a dicembre 2002, era di 568 milioni di euro: all’epoca si concordò una rateizzazione con gli interessi. Regolarmente pagata fino al 2013, quando il ruolo di concedente della rete autostradale è passato dall’Anas al ministero delle Infrastrutture. Ed è allora che cominciano i guai”.

Continua Rizzo: “Parte subito un contenzioso terrificante e complicatissimo che sfocia in una prima transazione con la quale però non si chiude la partita. Secondo l’Anas Toto deve dare ancora 303 milioni di capitale residuo più 121 rate scadute, per un totale di quasi 425 milioni di euro. Toto risponde con una causa mostruosa, chiedendo una cifra dell’ordine di un miliardo di euro”.

Poi commenta: “Al presidente dell’Anas Gianni Vittorio Armani vengono i brividi freddi. Perchè stabilire per legge che quei soldi non sono dovuti all’Anas certifica che pure i 303 milioni residui del prezzo di gara sono destinati a prendere il volo dai bilanci aziendali. Con devastanti conseguenze”.

Ossia il crac. Commenta un analista finanziario: “E pensare che tutto ciò succede in un momento delicatissimo. Non solo con una imminente, ormai prossima crisi di governo e un voto anticipato forse a metà-fine settembre, ma con il progetto in ballo di fusione tra Ferrovie ed Anas. A questo punto si corre concretamente il solito rischio: la svendita di un pezzo del parastato a un altro pezzo del parastato. E con i privati, i soliti noti, dietro le quinte a trarne tutti i vantaggi. In ballo ci sono circa 8 miliardi di euro”. Non proprio noccioline.

 

LA SCENEGGIATA LONGARINI, DI PIETRO CAPOCOMICO

Stesso copione nella sceneggiata Longarini, ma moltiplicato per 5.

Sfiora infatti la quota monstre di quasi 2 miliardi di euro la cifra pretesa e già aggiudicata a Longarini in precedenti giudizi amministrativi, ora al vaglio finale della prima sezione della suprema Corte di Cassazione.

Una storia ai confini della realtà e di cui ha più volte scritto la Voce, nel quasi totale silenzio mediatico.

La storia risale addirittura agli anni ’90 e concerne alcuni lavori pubblici appaltati dalle Infrastrutture e aggiudicati alla Adriatica Costruzioni del magnate marchigiano Edoardo Longarini. Lavori svolti solo in parte o neanche effettuati. Ma tant’è, mister mattone bussa a danari e intenta causa allo Stato. Il tran tran prosegue come al solito tra rinvii e carte bollate fino al 2006, quando in sella ai Lavori pubblici sale il Grande Moralizzatore, Antonio Di Pietro. Il quale pensa bene di afferrare – come è nei sui rustici usi e costumi – il toro per le corna.

Ed ecco che nasce l’arbitrato, quello scientifico suicidio per le casse dello Stato voluto non si sa perchè – o forse lo si sa troppo bene – dall’ex pm di Mani pulite.

Ignazio Messina

Ignazio Messina

L’Avvocatura dello Stato, infatti, è del tutto contraria e sconsiglia a più riprese il ministero dall’intraprendere quella via che – lo sanno anche gli studenti al primo anno di legge – vede lo Stato soccombere nel 95 per cento dei casi. E lo stesso Di Pietro, in ogni occasione, dai dibattiti alle prese di posizione politica, ha sempre osteggiato la pratica dell’arbitrato, considerato un mezzo privatistico di giustizia: “bisogna seguire le vie ordinarie del processo civile”, ha sempre tuonato.

Tanto tuonò, don Tonino, che piovve. Volle, fortissimamente volle quell’arbitrato, perso in modo prevedibile e clamoroso. Nella terna di arbitri – va ricordato – figurava Ignazio Messina, avvocato, ex portaborse di Di Pietro, e oggi segretario di quel relitto politico che si chiama ancora Italia dei Valori. E comunque capace di raccogliere firme referendarie, mister Messina, con i cocci dell’ex Dc perchè il cittadino italiano possa armarsi e difendersi stile Far West. Il poliziotto che era in Di Pietro ruggisce ancora nel petto siculo di Messina.

E per quell’arbitrato perso Ignazio Messina non ha beccato calci in culo dallo Stato, ma addirittura una parcella milionaria! Sempre ai confini della realtà.

Oggi non piove più, ma diluvia. E rischia di scatenarsi a breve un vero e proprio tsunami, se la Cassazione confermerà le precedenti sentenze pro Longarini. L’ultima udienza – nel più totale, val la pena di ribadirlo, silenzio mediatico – si è svolta il 24 marzo, e massimo entro tre mesi devono essere depositate le motivazioni e reso noto il dispositivo. Questione quindi di giorni. Forse di ore.

All’Avvocatura sono in fibrillazione, alle Infrastrutture – fanno trapelare alcune fonti ministeriali – sono terrorizzati.

Ecco cosa racconta un funzionario: “Graziano Delrio non sa più che pesci prendere, altro che brividi freddi. Adesso c’è la tegola di Toto, ma se viene confermato il verdetto dalla Cassazione per il caso Longarini casca tutto il palazzo. Le Infrastrutture vanno in crac, non ci sono più fondi per i cantieri, manca la liquidità per le ferrovie secondarie che già versano in stato comatoso, sono a rischio migliaia e migliaia di posti di lavoro. Se succede una cosa del genere siamo a livello Grecia. E nessuno dice una parola. Il silenzio politico più tombale”.

Quando ancora si brinda a bordo del Titanic.


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