La Cina lancia la sua “globalizzazione” con un’accoppiata quasi poetica e densa di significati: “yi dai yi lu”, cioè un nastro che è una strada, ovvero una strada che sarà una cintura. Unirà tre continenti: Asia, Europa e Africa. Ma, a quanto pare, sono invitati a partecipare anche i paesi dell’America Latina. Sarà (comincia già ad esserlo) una gigantesca operazione per far muovere verso l’Europa la strapotenza produttiva di beni che la Cina continua ad essere, nonostante il suo rallentamento degli ultimi tre anni. Lo dicono le cifre che Xi Jinping ha snocciolato di fronte agli occhi dei leader di 64 paesi, in rappresentanza di oltre quattro miliardi di individui, più della metà del genere umano. Quasi nove miliardi di dollari stanziati proprio da Pechino a sostegno di uno sviluppo degl’investimenti su un percorso di diverse decine di migliaia di chilometri.
E non sono solo promesse. Il Porto del Pireo è già un esempio strepitoso delle potenzialità del progetto che, nella lingua attualmente dominante, è descritto assai prosaicamente come Obor (One Belt One Road) e che nell’immaginazio comune passerà alla storia come La nuova Via della Seta. Il Pireo è già, per il 67%, divenuto cinese l’anno scorso. E, sotto la gestione della Cosco (China Ocean Shipbuilding Company) ha portato il maggiore porto greco dal 93-esimo al 39-esimo posto mondiale per capacità di movimentazione delle merci.
Ma è solo un esempio di quello che accadrà. Un treno merci ha già attraversato in una ventina di giorni l’immenso spazio che domani collegherà stabilmente Londra e Pechino, attraversando tutta l’Asia Centrale, la Russia e una bella porzione d’Europa, dimezzando il tempo di trasporto via mare di una quarantina di container. E si tenga conto che le infrastrutture sono ancora al punto di partenza. Figuriamoci cosa accadrà nei prossimi anni in termini di accelerazione della movimentazione delle merci.
Ma tutti capiscono che siamo di fronte a un progetto globale che rivoluzionerà non solo i traffici commerciali, ma modificherà tutti gli equilibri planetari. È già stato notato che Xi Jinping era andato a Davos facendosi alfiere della globalizzazione. Ma quella cinese è altra cosa rispetto alla globalizzazione “americana”. Pechino non pone condizioni politiche. Al contrario offre investimenti a destra e a manca. Non tocca gli assetti politici interni dei paesi interessati, non detta ideologie. Vuole vendere e comprare e aprire vie di traffico non solo alle proprie merci, ma anche a quelle di tutti i partner. Ciascuno dei quali ricaverà vantaggi duraturi in termini di infrastrutture e, a breve temine, di diritti di transito.
È l’avvio di un processo davvero senza precedenti per dimensioni, rispetto al quale il parallelo con il Piano Marshall – con cui i capitali americani ricostruirono l’Europa Occidentale distrutta, ma anche si assicurarono il dominio politico su di essa – appare del tutto inadeguato. Ora sono in ballo decine di trilioni di yuan. Infatti uno dei significati politici, cioè delle conseguenze, di questo progetto sarà quello di mettere in secondo piano l’influenza del dollaro nei mercati mondiali.
Xi Jinping ha fatto cenno alle intenzioni cinesi in termini di sviluppo della “interconnessione” e sulla “cooperazione”, evitando in ogni passaggio del suo discorso ogni riferimento a una qualche progenitura cinese. Gli ha fatto eco Vladimir Putin addirittura additando il “protezionismo” come “minaccia all’economia globale”.
Insomma i ruoli sembrano essere invertiti sono ogni profilo. Ma il blocco del BRICS, all’interno del quale Cina e Russia svolgono il ruolo trainante, si presenta come alternativa di vasto respiro, senza apparenti implicazioni politiche, ai progetti statunitensi e occidentali di vincolare i paesi membri a trattati – come il Ceta, o il TTIP, o la intesa Transpacifica – che sottopongono gli stati nazionali a condizioni che ne violano la sovranità nazionale a vantaggio esclusivo delle grandi banche internazionali e delle corporations.
È evidente (basta guardare la carta geografica) che il primo paese a risultare avvantaggiato da un tale progetto sarà la Russia, che è vitalmente interessata alla migliore utilizzazione della sue immense risorse naturali e che sarà uno dei luoghi principali attraverso il quale il flusso dei traffici è destinato a passare.
L’Europa è rimasta a guardare. Più diffidente che entusiasta. Il “protezionismo” di cui ha parlato Putin è l’arma che l’Occidente potrebbe scegliere per rallentare un tale cambio di marcia. Non è un caso che dell’intero Occidente solo l’Italia, con il suo premier Gentiloni, si sia presentata all’appuntamento. Gesto lungimirante, destinato a contare sul futuro delle relazioni tra Italia, Russia e Cina.
Ma l’Europa nel suo complesso ha comunque non poco da temere in termini di competitività. E già annuncia l’uso dell’arma dei dazi per difendere l’ondata di prodotti “troppo” competitivi. Una reazione che, dal punto di vista strettamente economico appare miope, ma che sembra dettata, al momento, piuttosto da motivazioni politiche che da ragioni economiche. In attesa che si diradino le nuvole di tempesta che si accumulano nel cielo di Washington. Tuttavia potrebbe essere un’attesa lunga e, per questo, fatale.
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