LA VOCE NEL MIRINO DEGLI SPIONI

 

C’eravamo anche noi, il gruppo della Voce della Campania, fra i giornalisti spiati attraverso le attività  illegali del Sismi di Pio Pompa durante gli anni del governo Berlusconi. Il 5 luglio ci ha svegliati di buon’ora un collega romano: aveva tra le mani una copia fresca fresca di Repubblica, che proprio agli spiati della Voce dedicava gran parte del servizio su Pollari, Pompa & Company.

 

Non ne abbiamo mai saputo nulla. Sito, posta elettronica telefonate probabilmente sotto controllo per anni. E meno male che, in seguito ai numerosi avvertimenti camorristici ricevuti, siamo sempre stati noi stessi a chiedere che il comando di polizia della zona desse di tanto in tanto un’occhiata più attenta alla nostra redazione.

 

Qualche segnale di eccessiva “attenzione” al nostro lavoro, comunque, non era mancato. Settembre 2001. La Voce dedica il servizio di copertina alla vicenda Spy Story, un argomento peraltro già  trattato ampiamente dai quotidiani con intere pagine di intercettazioni in versione integrale. L’inchiesta della Voce non riporta nuove conversazioni nè particolari coperti da segreto d’indagine ma, come cerchiamo sempre di fare, aggiunge alla conoscenza – anche degli stessi magistrati – numerosi particolari inediti sui protagonisti del giallo. La nostra inchiesta mette evidentemente in allarme qualcuno. Un paio di giorni dopo l’uscita in edicola, alle 6 del mattino ci buttano giù dal letto sirene e bussate insistenti di citofono: sono tre le auto della polizia (due arrivano direttamente da Roma) che cercano con insistenza Rita Pennarola, autrice dell’articolo. Dalle loro prime domande sembra quasi che intendano trarla in arresto. In realtà  hanno un mandato di perquisizione e sequestro. Si aggirano a lungo per la redazione, infine staccano e portano via il nostro computer. Finirà negli uffici della Digos, nella capitale. Solo grazie all’intervento del nostro penalista, Gennaro Lepre, ci sarà  restituito due mesi più tardi, quasi del tutto inservibile.

 

Recuperare la mole di dati andati persi è stato, com’è ovvio, quasi impossibile. Ma l’intento – appare oggi chiaro – era proprio quello di tagliare i fili e provare a zittire per sempre la Voce.

 

Marzo 2005. Gurante i giorni caldi del rapimento di Giuliana Sgrena, la Voce sta per mandare in onda su un’emittente locale un’intervista esclusiva a Carlo Taormina, il quale afferma che per la liberazione degli ostaggi l’Italia ha pagato e sta pagando riscatti da milioni di euro. Piomba nella redazione dell’emittente un funzionario dei Servizi, che chiede di acquisire il filmato. Ne avrebbe probabilmente impedito la messa in onda se proprio in quelle ore non fosse avvenuto l’eccidio in cui perse la vita Nicola Calipari.

 

Oggi il dossier “confezionato” dagli uomini di Pompa sull’attività  della Voce rivela – per quanto almeno se ne riesce a sapere in base all’articolo di Repubblica – l’improvvisazione e il pressappochismo che caratterizza il lavoro di quelle barbe finte nostrane. Non abbiamo mai conosciuto e nemmeno sentito nominare prima d’ora tale Tulli, indicato nel dossier come personaggio organico alla Voce, al punto da figurare insieme ai nomi del direttore e del condirettore. Ma soprattutto, nessuno più del professor Percy Allum – grande studioso, amico ma solo collaboratore occasionale della Voce – è ideologicamente e concretamente lontano da qualsiasi forma di collegamento con l’integralismo islamico, come sanno benissimo i tanti che conoscono la sua personalità, la sua moderazione e la sua produzione scientifica.

 

In sostanza, non avendo trovato nulla di rilevante circa presunte attività  filo-eversive della Voce, bisognava ad ogni costo inventarsi qualcosa. Questo la dice lunga sul livello di pericolosità  connesso a tutto il materiale sporco che sta venendo alla luce. E sui pericoli per la democrazia ad esso connessi, tanto più quando a finire nel mirino di investigazioni tanto approssimative sono i magistrati.

 


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