Al tempo in cui per gran parte dei cittadini – compresi i giornalisti – la tentazione di allearsi con l’oppressore è diventata ineluttabile prassi quotidiana, in questi nostri strani giorni, quando diventa necessità l’istinto di lisciare il cappuccio del boia (sperando che ci faccia meno male, ma tanto moriremo lo stesso), ancor più sentite, forti e chiare resteranno scolpite queste riflessioni di Oliviero Beha sulla perduta libertà di pensiero, svanita pezzo a pezzo, giorno dopo giorno, fino a restare un ricordo. Come ci siamo arrivati? Possibile che ad avere diritto di parola e di pensiero siano oggi esclusivamente i “bollettini dell’oppressore” o le “cronache dei boia”?
Abbiamo esagerato, ma forse non poi tanto. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo nuovi brani da “Mio nipote nella giungla” (Chiarelettere), lo straordinario saggio di Oliviero Beha da poco in libreria. (r. p.)
La libertà almeno nel pensare è l’essenza dello stare al mondo, è la ragion d’essere dell’umanità. È o può tradursi addirittura in una sorta di fisicità di essa: ti senti diverso. (…) A me pare invece, dalle testimonianze di chi mi ha preceduto, dalle mie letture, dalla mia esperienza esistenziale ormai non brevissima, che si stia regredendo in maniera macroscopica pure in fatto di libertà di pensiero. Misurabile come, questa regressione? Necessariamente attraverso la libertà di parola ormai evanescente, non solo in chiave mediatica ma anche nei rapporti personali. Prevale la comunicazione di convenienza, di opportunità, senza rischiare inutilmente di mettere in discussione qualcosa, qualunque cosa. Si è dileguata la facoltà critica.
Misuro la recessione, per certi versi terribile, della seconda, quella verbale, la libertà di espressione in un mondo apparentemente dotato di sempre più numerosi ed efficaci mezzi comunicativi, per rifarmi alla prima, la necrosi della libertà di pensiero. E questo avrei potuto scriverlo già alla vigilia dell’era digitale, nei miei anni poco più che verdi. Lavoravo a «la Repubblica», quando era un giornale in auge qualitativa sotto l’egida del capoguerriero Scalfari e della sua panoplia attaccata alle pareti, ancora editore e non anche finanziere come dopo aver venduto al futuro «Caimano di sinistra», De Benedetti.
(…)
La seconda riflessione riguarda gli effetti pratici di questa latitanza della libertà di pensiero, quindi di parola, quindi di comportamento, in un generale dissolvimento soprattutto del coraggio, a partire da quello mentale. Coraggio che ovviamente è o sarebbe patrimonio della testa di ognuno, e potenzialmente diventerebbe poi patrimonio della comunità. Questo dissolvimento è esattamente all’origine dell’acquiescenza di un popolo a modalità mafiose, connotate dal famoso «familismo amorale» di cui parlano i classici siciliani. Non è tanto riferito qui a Cosa Nostra, pur se di certo la Mafia con la maiuscola ha così a lungo impersonato questa riluttanza al libero pensiero, con conseguenti codardia e rassegnazione. E se vogliamo il discorso riguarda assai meno la Cosa Nostra di una volta, anche perché essa vive ormai una stagione differente, da «camici bianchi», è da decine d’anni in simbiosi con la politica anche ai massimi livelli come dovrebbe essere chiaro se non noto (a Napolitano lo è di certo), e quindi minaccia e spara contro magistrati, forze dell’ordine o giornalisti, non più politici. Altro dato è che per tanti versi ha lasciato sempre più spazio nazionale a ’Ndrangheta e Camorra, nelle cronache protagoniste quotidiane del massacro della legalità e di tante vite troppo spesso con correlazioni appunto politiche.
Ma la mafiosità di cui parlo è temo addirittura molto peggio e si ricollega alla versione 2.0 delle «mafie». È il modo di pensare/non pensare, dire/non dire, agire/non agire di decine di milioni di italiani che prima di venir corrotti nel senso letterale, giudiziario del verbo, sono stati corrotti nella testa, nella rinuncia a essere quelli che erano, a pensare in libertà e a comportarsi, se ci riuscivano, di conseguenza. Una seconda pelle conformista vissuta come fosse la prima, una normalizzazione della mentalità mafiosa vissuta come libertà di esserlo, una disponibilità a corrompere e a essere corrotti. Come scelta, sia pure finta e infingarda, e neppure più come costrizione per il ricatto di una realtà amministrata dalla Mafia più e meglio che dallo Stato.
(…)
È una mafiosità orizzontale o trasversale, quanto una volta lo era verticalmente, come un esercito ben organizzato, Cosa Nostra, che ha prima infiltrato e poi imbevuto il nostro «costume di casa», le nostre abitudini, i nostri valori/disvalori molto più di quel che non sia accaduto all’estero. Siamo noi, interiormente prima che nei comportamenti, i veri mafiosi, a qualunque età, disposti a pagare il prezzo o il pizzo per non avere coraggio piuttosto che pagare dazio per averlo e tirarlo fuori. In un conformismo ormai 2.0, che trova nella parte negativa e deresponsabilizzante del web, nella sua anomia e nell’anonimato, la propria versione contemporanea più riuscita: è insieme fisico cioè mentale, e virtuale cioè digitale.
E ripeto che non è riferito alla sicilianità originaria della Mafia (ci sono grandi organizzazioni mafiose su tutto il pianeta senza necessariamente la scia di questa «mafiosità» psichica e antropologica, da strada) ma al terreno comune di un Paese dove questa mala pianta crescendo si è appunto trasformata in giungla, nella quale districandosi ormai a suo agio quasi completo l’italiano si lamenta da mattina a sera ma insiste in un’attitudine di vigliaccheria e adattamento, a partire dalla penuria o totale assenza di libertà di pensiero.
Per tutta la vita, con tutti i miei limiti, ho sbattuto il muso in ogni campo contro il muro di questa mafiosità, appunto figlia dell’«illibertà» mentale di cui parlo. Dovunque mi sia trovato, salvo rarissime eccezioni, ho incontrato gente senza libertà di pensiero, quindi con ridotta, compromissoria e ipocrita libertà d’espressione. E dire che ho vissuto anche e soprattutto tra coloro che per mestiere avrebbero dovuto e dovrebbero parlare e scrivere all’ombra della libertà d’espressione, in un giornalismo troppo spesso leccaculista e più in generale davvero vile, cinghia di trasmissione di una politica senza libertà e quindi senza dignità, dai vertici dello Stato in giù, in una mafiosità elevata a sistema. La cronaca spesso nera rende solo parzialmente il quadro di tutto ciò, in un clima di servi di scena che sconforta e deruba.
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