Affermare che la guerra non risparmia nessuno non è una banalità. Essa coinvolge sempre tutti quelli che direttamente o indirettamente vi partecipano, di ogni ceto e provenienza sociale. Sono coinvolte sia persone colte che ignoranti, sia importanti che insignificanti, tutti sono destinati a combattere fianco a fianco contro uno stesso nemico. Quando poi arrivano al fronte gli uomini diventano, per una volta nella vita, tutti uguali, ma alcuni di loro possono rapidamente transitare dalla condizione di combattenti a quella di prigionieri. Solo i civili sono, e saranno sempre, vittime incolpevoli di questi conflitti fino a diventare sfollati o rifugiati. Possono essere spinti costantemente altrove senza potersi difendere. È esattamente ciò che è già successo in Ucraina e che si sta ripetendo in Palestina. Uomini, donne e bambini di tutte le età, senza armi né diritti, sono stati massacrati solo perché considerati tutti “pericolosi terroristi”. Come se si potesse definire terrorista un bambino o un anziano, solo perché di quella particolare etnia.
Le guerre generano sempre, come effetti collaterali, dolorose ingiustizie, morti e orrori di ogni genere. Abbiamo visto, grazie ai resoconti dei mass media, intere città ridotte a cumuli di calcinacci e possiamo solo immaginare la disperazione di chi, tornato dove prima c’era la propria casa, ha trovato quella devastazione. Non solo le case, vede distrutti e cancellati persino gli ospedali, le scuole, i luoghi di cultura e di culto. Tutto questo causa il voluto collasso totale della società civile e l’impossibilità a far rivivere quei luoghi. Qualcuno forse pensa “risultato ottenuto!”. Questo tipo di annientamento potrebbe persino essere il vero obiettivo di chi ha avviato quelle aggressioni. In fondo che importa se si tratta di genocidio o di vendetta in risposta a un’aggressione terroristica subita. Non si può invocare, nemmeno in casi come questo, un improbabile diritto alla difesa dopo il 7 ottobre.
Lo ha fatto Putin in Ucraina, lo ha fatto di nuovo Netanyahu a Gaza. Dopo ogni aggressione così violenta si diffondono puntualmente epidemie e fame, e allora non resta che fuggire il più lontano possibile. Ma anche il tentativo di fuga diventa un’impresa densa di rischi, non foss’altro perché non esistono più infrastrutture. Sono impraticabili perché distrutte sia le strade che le ferrovie e tutto ciò che normalmente consente alla gente di spostarsi. Immaginate per fuggire.
La popolazione, già duramente provata, rimane presto senza acqua potabile, senza cibo, senza farmaci e senza potersi, in alcun modo, curare. Sono cancellate anche le già limitate possibilità di continuare a svolgere attività educative e di lavoro e si condannano così intere generazioni a un futuro vuoto, riempito solo dall’odio che alimenterà generazioni di nuovi terroristi, con dentro una disperazione senza futuro e senza nemmeno la possibilità di immaginarlo. Sono infatti giovani cresciuti, durante tutta la loro breve vita, tra bombardamenti a tappeto, incursioni militari, soprusi e violenze di ogni tipo che diventano presto cicatrici dell’anima.
Gli effetti a lungo termine di una guerra sono sempre devastanti e si estendono ben oltre la durata del conflitto stesso. La guerra porta con sé anche una stagnazione economica e sociale che rende più difficile il ritorno alla normalità, anche molto tempo dopo la fine delle ostilità.
Dopo una guerra il tessuto sociale rimane irrimediabilmente lacerato. Le relazioni di fiducia e di solidarietà tra le persone sono compromesse per sempre e la coesione della comunità di riferimento viene inevitabilmente meno. Le famiglie allora si dividono, con alcuni suoi membri dispersi, altri scomparsi nel corso del conflitto. Questo ha, come conseguenza, la perdita delle reti di supporto sociale, quelle reti solidali che sono fondamentali per il benessere emotivo e per l’equilibrio delle persone.
La guerra, quindi, non solo può distruggere ciò che esiste oggi ma compromette anche il futuro delle comunità coinvolte. Quelle ferite invisibili inflitte alle persone necessiteranno di tempo, risorse e tanto lavoro per essere sanate.
Solo con un vero impegno collettivo e con una visione di pace accompagnata da una volontà di ricostruzione possiamo sperare di rompere il ciclo della reiterazione della violenza e provare a costruire un nuovo futuro.
Ma di perseguire tali obiettivi non si intravede, al momento, alcuna intenzione.
[1] Psichiatra e pubblicista
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