CECILIA TORNA A CASA

La giornalista Cecilia Sala è stata liberata dopo 20 giorni di reclusione in un terribile carcere iraniano destinato ai dissidenti politici. Dopo pochi giorni il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha revocato l’arresto dell’ingegnere iraniano e rigettato la richiesta americana di estradizione. Era stato questo il vero motivo della missione lampo di Giorgia Meloni a Mar-a-Lago in Florida per incontrare riservatamente il presidente eletto Donald Trump e il suo immancabile supporter Elon Musk? Doveva chiedere un formale avallo alla liberazione di quello che l’alleato americano considerava un terrorista? Dopo quel misterioso colloquio la liberazione della nostra giornalista è puntualmente arrivata, erano trascorse appena appena tre settimane.

Era stata arrestata (o sarebbe meglio dire sequestrata) a Teheran il 19 dicembre scorso con una generica, quanto inconsistente, accusa di “violazione delle leggi islamiche”. La notizia è stata diffusa dal nostro Ministero degli Esteri il 27 dicembre scorso. La reporter è stata rinchiusa nel carcere di Evin in condizioni durissime, ha dormito sul pavimento e le è stata impedita ogni comunicazione verso l’esterno. Il suo fermo è avvenuto pochi giorni dopo l’arresto in Italia dell’ingegnere iraniano, fermato e imprigionato a Milano senza che avesse commesso alcun reato sul suolo italiano. Si è trattato di un puro atto di asservimento acritico al potente alleato americano. Evidentemente una coincidenza che ha fatto pensare ad un legame tra i due arresti. L’abituale pratica dello scambio di prigionieri messa in atto dal governo islamico in simili contingenze.

Per la liberazione di Cecilia l’Italia si è spesa molto e, stavolta, senza alcun distinguo polemico. Nessuna delle abituali motivazioni a cui siamo abituati da parte di questo governo, del tipo “è colpa della sinistra”, “dei governi precedenti” o “si tratta dei metodi abituali dei governi di sinistra che hanno governato il paese negli ultimi decenni”. Dimenticano che è falso, la destra ha anch’essa governato più volte e per lo stesso tempo complessivo.

Il presidente Mattarella, nel discorso di fine anno, aveva parlato della giornalista formulando il suo auspicio di una sua apida liberazione, invitando il nostro corpo diplomatico ed i servizi ad attivarsi allo scopo.

Cecilia Sala è una giovane giornalista che lavora per Chora Media e collabora con il quotidiano Il Foglio. È nota per la sua capacità di raccontare, con podcast e interviste mirate eventi politici e sociali complessi. Dalla crisi in Venezuela alle proteste popolari in Cile, dalla caduta di Kabul alla guerra in Ucraina. Il 19 dicembre era stata arrestata, senza una reale motivazione, a Teheran dove era andata solo per fare il suo lavoro, era entrata nel paese islamico con un regolare visto giornalistico governativo. Aveva già realizzato, sempre nel rispetto delle restrittive norme locali, alcune interviste a donne del popolo e a personaggi politici locali. Materiale gornalistico utilizzato per alcune puntate del suo podcast Stories. L’arresto è stato reso pubblico da un comunicato del Ministero degli Esteri e, da quel momento, si sono immediatamente attivati Palazzo Chigi e la Farnesina. Contando sul pieno appoggio della famiglia Sala, della stampa nazionale e dei partiti dell’opposizione, stavolta compatti e determinati e determinati a collaborare. Tutti assieme hanno assicurato riservatezza e massimo impegno. È stato proprio grazie a questa unità di intenti che si è potuti arrivare in tempi brevissimi alla sua liberazione.

Il coinvolgimento della nostra ambasciata in Iran ha consentito prima la consegna in carcere di beni di conforto e la concessione, nel giorno di Capodanno, di una telefonata a casa. È grazie a quel colloquio che la famiglia ha potuto comunicare con la giornalista e apprendere le condizioni della sua detenzione. “È ancora in isolamento e dorme sul pavimento” avevano riferito i genitori agli esponenti del governo a cui hanno chiesto aiuto. Cecilia aveva denunziato che i carcerieri le aveva persino “tolto gli occhiali da vista” e che quindi aveva dovuto affrontare gravi difficoltà, non solo non aveva potuto leggere (anche se non aveva nulla da leggere se non le etichette degli ingredienti del pane), ma nemmeno riconoscere i pochi oggetti che la circondavano. Nel tempo di quell’unica breve conversazione aveva chiesto di fare presto a liberarla e farla tornare in Italia. A quel punto la Farnesina ha convocato l’ambasciatore iraniano a Roma, la Meloni ha organizzato un vertice a Palazzo Chigi ed ha incontrato la madre della giornalista. La famiglia ha chiesto il silenzio stampa per non interferire con la trattativa che intanto si apriva.

Questa storia è andata a buon fine e ci dimostra che quando si attiva una piena collaborazione tra politici, stampa e cittadini interessati si possono ottenere azioni efficaci e risolutive. Ci dice anche dell’efficienza e della grande professionalità dei nostri servizi diplomatici e di sicurezza, che godono da sempre di una grande considerazione internazionale. Ma ci dice anche che la scelta italiana di dialogare sempre con tutti e di rifiutare quelle generiche etichette di terrorismo, attribuite acriticamente ai paesi arabi, paga sempre.

In Iran sono incarcerati da anni alcuni cittadini francesi, inglesi e americani, senza che si intravede alcuna possibilità di liberli.

Qualcuno dovrebbe pure comunicare tutto ciò anche al ministro Salvini, che continua a parlare, per coprire i suoi fallimenti ministeriali nel settore dei trasporti, solo di presunte responsabilità della sinistra e dei sindacati che avrebbero impedito il corretto funzionamento delle nostre ferrovie … magari anche piantando improbabili chiodi nei cavi della rete elettrica per mandarla in tilt.

A riprova di ciò, appena cinque giorni dopo la liberazione di Cecilia, il ministro della Giustizia Nordio ha revocato l’arresto dell’ingegnere iraniano e, rigettata la richiesta di estradizione, ha disposto che i nostri servizi lo riportino nel suo paese con un volo militare a spese del nostro governo.

 


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