Nulla modifica il sentimento di riconoscenza per il fondamentale lavoro delle forze dell’ordine, teso a garantire la sicurezza dei cittadini e se non si risparmiano critiche a loro comportamenti discutibili, non muta il rispetto per il ruolo svolto a tutti livelli. Fanno eccezione la repressione violenta di manifestazioni pacifiche di piazza e rari, gravi episodi di xenofobia. È molto poco grave, anzi non lo è affatto, ma va raccontato anche se non ha il conforto degli analisti, della statistica, scienza quasi perfetta. Riferiscono non poche signore e in special modo giovani signorine, lo confermano molti rappresentanti dell’altro sesso che vigili urbani, poliziotti e carabinieri addetti ai controlli stradali ‘amano’ fermare prevalentemente auto con le donne alla guida.
Niente di più, sia chiaro, la constatazione non va oltre l’idea che agli uomini delle forze dell’ordine non dispiaccia ‘scambiare due parole’ con utenti della strada donne. Invita a ben altra lettura quanto è accaduto e forse accade sempre più di rado alle giovani, coraggiose donne violentate che lo denunciano a polizia e carabinieri. Sono casi limite, davvero sconcertanti, di machismo sub culturale, riferiti con giustificata indignazione da chi ne viene a conoscenza. In sostanza, nel raccogliere la deposizione, alle ragazze che hanno subito la violenza è richiesto di rispondere all’insinuante domanda “Dai, dì la verità, ti è piaciuto…”, seguita da un cenno d’intesa con il collega dirimpettaio e il commento “tu che ne pensi, se l’è andata a cercare, eh?”. Anni fa lo disse in un’aula di tribunale l’avvocato difensore di giovinastri accusati di aver abusato della giovane figlia di migranti.
“Se l’è cercata” lo dicono in altro ambito i politici di destra per assolvere i responsabili della tragica morte di Ramy Elgaml, che, unica colpa, in scooter non si è fermato a un posto di blocco e alla fine di un lungo inseguimento dei carabinieri, speronato dalla loro auto è morto schiantandosi contro un muro. Non lo dice la giudice Ester Russo, ma la sostanza della sentenza da lei emessa in Corte d’Assise lo sottintende con la condanna a trent’anni di reclusione inflitta al settantenne Salvatore Montefusco che ha a ucciso a colpi di fucile la moglie e la figlia, alla presenza del figlio minore. Reato da ergastolo, richiesta dall’accusa negata. Per giustificare la riduzione della pena la Corte dice di aver tenuto conto della confessione dell’imputato, del suo buon contegno processuale (ma i presenti lo hanno visto ridere più volte), della condizione di incensurato, della “peculiare situazione dell’ambiente familiare”. La denuncia del pluriomicida si baserebbe sulla propria condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e frustrazione, conseguenze di violenta incompatibilità con la moglie, che a sua volta lo ha accusato di abusi e violenze, al punto di dover ricorrere più volte all’intervento dei carabinieri. L’impulso del settantenne a uccidere lo avrebbe provocato la disputa sul possesso della villetta della famiglia. La sentenza enumera fra le attenuanti il ‘blackout emozionale ed esistenziale” dell’omicida e non si rende conto di aver introdotto nella lotta al dilagante fenomeno dei femminicidi un pericoloso ostacolo, con l’introduzione di attenuanti, appunto, del tipo “se l’è cercata”.
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