Rosso ‘malupino’
Mi sfottono ‘sti quatto strunzille e vabbè c’aggia fà, tengo ’e capelli comme ’o ffuoco d’o Vesuvio, ma pure comme ’a bandiera de’ comuniste e ’a faccia è chiena ’e lentiggini.
Era domenica ieri, e “vattelapesca” chissà com’è che questo marine americano attraversa via Scarlatti, nel cuore del Vomero, per sua fortuna risparmiato dalle bombe degli ‘alleati, proprio nel punto dove cambio marciapiedi per comprare al bar Daniele una bustina di ‘barchette’ di liquirizia, di quella morbida che s’attacca ai denti e li fa neri. Incrocio questo soldatone di uno e novanta. Sembra abbronzato, il collo della camicia d’ordinanza è slacciato, brillano in fronte e sulle guance bollicine di sudore, la mano sinistra stringe un tascapane di stoffa mimetica: quasi mi travolge, distratto dall’incfrocio con una giovane napoletana bella come una madonna, invano corteggiata dai ragazzi della funicolare di Chiaia, dove ci danno appuntamento con ‘quelli di San Martino’. Raccontiamo agli ‘altri’, con orgoglio di vomeresi, il recente scontro fisico, vincente, con la gang di piazza Amedeo e dintorni. Ne ho date, ne ho prese e mi porto addosso la fama di capo branco. Ne traggo vantaggio. Spesso si raggranella per me, che sono sempre senza un soldo in tasca, le lire per un biglietto del cinema Olimpia che frequentiamo anche d’estate a sera, quando con il buio aprono il tetto scorrevole, ed entra un po’ di fresco a portar la nuvola di fumo che appesta l’aria con il malodore delle sigarette americane, vendute agli angoli delle strade, delle ‘nazionali’ volta stomaco.
Si chiama John. In verità si chiamerebbe Giovanni, ma l’ha cresciuto lo zio emigrato negli States da Corigliano Calabro e ha creduto così di americanizzarlo. Mammà e papà del nipote sono morti assieme, affogati a poche decine dalla riva per il ribaltamento di un barcone nel mare in burrasca. S’accorge di me solo mentre evita di travolgermi. “Hei, picciotto, attention”. Piego due o tre volte la testa per dirgli che ho capito, vado oltre, ma dopo un passo o due mi ferma la pressione di una mano sulla spalla. “Wait, boy…aspetta”. E questo che vuole da me mamma Imma, si è fatta giurare che non devo dare confidenza a chi non conosco, dunque a maggior ragione a questo americano, che mi trattiene per un braccio: “Prendi, mi dice in calabro-americano, è cioccolato very good, molto buonissimo”. Mi mette tra le mani una maxi tavoletta al latte e quanto resta di un pacchetto di chewingum. “Aspetta, dont’ go away, nun te ne ire”. Si racconta: ha sposato in America una ragazza irlandese con “i capelli rossi come i tuoi e di Ted, il figlio più o meno della mia età, che li ha anche lui così, ricci e rossi. Lo vede da due anni in fotografia, gli manca. Ci sediamo sulla panchina a metà strada tra il bar dove un capannello di big del tifo per il Napoli attornia uno dei fratelli Sentimenti, portieri di buona fama e la piazza Vanvitelli, con i tram in sosta al capolinea dopo la corsa partita dalla Stazione Centrale, dalla piazza Garibaldi. Gli dico della prudenza da cui mammà mi ha raccomandato di non derogare, si appassiona al racconto di me e il basket, praticato insieme ad altri quattro nipoti di uno zio, convocato dalla nazionale per un triangolare contro la Francia e una squadra di americani di stanza a Napoli con la flotta militare: “Toccherà a noi disputare una partitina contro i ragazzi di due scuole napoletana, prima di Italia-Francia”. “E che ne vuoi sapere”, dice John, anch’io ho giocato a basket, con la squadra del mio college. Guarda questa è la fotografia di una very important victory”.
Non mi va di tenere per me solo questo incontro che si rinnova nei giorni successivi. Il mio ‘amico’ americano-italiano mi ha parlato di guerra, ma specialmente di pace: “Non ce la faccio più, Cristiano, ho nostalgia di mia moglie, rischio di non riconoscere più mio figlio, mi mancano il lavoro, gli amici, New York, il mio mondo. Spero che quando sarà tutto come prima, ti farò venire in America.
“Ho conosciuto John. Lo dico a cena, seduto spalle al muro, al posto di sempre accanto al lavello. Mio padre non dice una parola. Il suo schiaffo lascia il segno sulla mia guancia. Duole il punto d’impatto della testa con il muro e non è il peggio. Non ho capito il motivo della violenza inattesa. Più tardi lo chiarisce mia madre: “Sono due le ragioni. Quando è tornato a casa e ha attraversato la vostra stanza babbo (si fa chiamare così, da oriundo della Toscana). Ha visto nella vostra libreria il diario di Gramsci scritto in carcere e sai che da cattolico integralista (non a caso ha voluto chiamarti Cristiano) non gli è andata a genio la scelta di tuo fratello, la tua te, ma lo schiaffo è stata anche la reazione alla tua disobbedienza, per aver accettato di frequentare un estraneo, come ci hai raccontato.”.
A New York ci sono andato, ospite di John. Da adulto, quando mi sommo liberato dalla ‘tutela’ di un padre, troppo in là con gli anni per imporre l’oppressione della patria potestà. Come disobbligarmi con i miei ospiti? Ho portato il ‘Limoncello’ di Amalfi per la moglie di John, per lui il piccante della ‘nduja, della terra di Calabria che gli ha dato la vita e per il figlio, quasi mio sosia, il dvd di Pino Daniele, la maglia azzurra numero dieci di Diego Armando Maradona. John è stato la guida per la visita alla Ellis Island, alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, principale punto d’ingresso per gli immigrati che sono sbarcati negli Stati Uniti. L’edificio ospita l’Ellis Island Immigration Museum e di lì si accede alla Statua della Libertà. Il museo documenta la corposa storia dell’immigrazione, si avvale di una straordinaria collezione di fotografie, cimeli di famiglia e testimonianze delle persone che sono approdate ai porti statunitensi. John Indica con l’indice il nome dello zio che ha fatto le veci dei genitori e si asciuga le guance bagnate di lacrime. Al centro dalla grande sala espositiva un abete con mille lucine intermittenti e mille biglietti di nipoti dei migranti di italiani in fuga dalla fame della loro amata, amara terra.
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