Ma esiste ancora la classe operaia in Italia? Chissà certo è che a causa di delocalizzazioni, chiusure di fabbriche e riconversioni produttive il numero degli operai è diminuito vertiginosamente. Negli ultimi decenni la classe operaia ha subito anche una mutazione nella sua composizione, sono diminuiti i giovani ed aumentati gli immigrati. È lontana l’epoca del mito operaio che faceva intitolare ad Elio Petri un suo famoso film “La classe operaia va in Paradiso”. Oggi piuttosto bisogna parlare di classi lavoratrici a basso reddito o, meglio, di proletariato urbano. La stessa mutazione hanno subito molte altre democrazie occidentali.
In aggiunta le nuove classi lavoratrici hanno subito una trasformazione profonda nel loro posizionamento politico. Un tempo le forze di sinistra raccoglievano la maggioranza dei loro voti e potevano contare sul sostegno attivo di operai ed elettori popolari. Questi oggi guardano a destra oppure hanno abbandonato le urne decidendo di non andare più a votare non sentendosi rappresentate. La loro profonda delusione si è riflessa inevitabilmente sulla percentuale di astensioni e, di conseguenza, sulle preferenze politiche espresse nelle urne. Un dato su tutti, in Italia oltre il 60% delle classi popolari hanno scelto di non andare a votare alle ultime elezioni europee. Il sostegno alla destra è risultato ancora una volta evidente. Il 39% della classe operaia ha votato per Fratelli d’Italia, ma il dato scende al 16% se si tiene conto dell’astensione. Un numero che, per il Partito Democratico, scende ad un drammatico 7%. Non si tratta, dunque, solo di una fuga dalla sinistra, ma di un distacco dall’intera politica, percepita come lontana dalle esigenze e dalle preoccupazioni quotidiane che affliggono il popolo.
La prima osservazione da evidenziare è tutta nella considerazione della scomparsa di quello che un tempo era definito “ascensore sociale”. Ossia quel fenomeno di promozione del ruolo sociale che si è verificato quando, grazie alla scuola pubblica e ad un efficiente sistema di welfare, i figli della classe operaia potevano studiare ed ambire a un lavoro più gratificante e di maggiore rilevanza sociale. Erano quelli gli anni della scuola di massa e delle università aperte a tutti, accessibili e gratuite per le fasce più deboli.
Poi qualcosa è cambiato. In primis, a partire dagli anni ’90, la sinistra italiana ha adottato politiche pro-mercato, ha abbandonato l’aspirazione berlingueriana a riunificare gli elettori dei grandi partiti popolari, ha rielaborato la sua dedizione ai bisogni delle classi più povere per inseguire e battersi per quelli dei ceti medi. Ne è derivata una riorganizzazione della società marcatamente classista e, quindi, discriminante della società, soprattutto dopo la grande stagione delle riforme degli anni ’70 e ’80. È lì che si è concepita la migliore riforma sanitaria al mondo, la riorganizzazione del lavoro, la logica della contrattazione sindacale, la valorizzazione delle istanze dei giovani, delle donne e dei loro movimenti di emancipazione. Ma è sempre lì che è iniziata anche una sorta di ingerenza pervasiva nella società italiana dei servizi segreti stranieri e della grande speculazione internazionale, che hanno dato il via alla stagione del terrorismo e degli attentati.
È lì insomma che iniziò la fine dei partiti popolari e di massa che ha riportato l’Italia nell’alveo delle peggiori tradizioni dei ricchi paesi occidentali. Ossia una bassa partecipazione al voto, un abbandono della centralità delle politiche di welfare e, quindi, di sanità, istruzione e implementazione di servizi pubblici orientati ai bisogni reali. Attività in genere finanziate dalla tassazione generale. Poi è prevalsa nuovamente la vecchia logica del più forte e si è tornati ad un sistema marcatamente classista, senza nemmeno tentare una transizione socialdemocratica, come era accaduto nei paesi del nord Europa, dove questa transizione aveva sortito straordinari effetti di perequazione sociale ed economica. La sinistra italiana, inesorabilmente sedotta dalle logiche del capitalismo più sfrontato, ha definitivamente abbandonato la difesa delle classi sociali più fragili dedicandosi esclusivamente a politiche ecologiste a difesa dell’equilibrio climatico e della salvaguardia del pianeta. Questioni centrali, è vero, ma che spesso sono servite solo a salvare l’anima, allontanando le forze progressiste dal perseguire una politica di welfare e di difesa degli interessi sociali e occupazionali delle classi lavoratrici. Queste ultime, anche per questo, sono state spinte nelle braccia della destra e di governi populisti che si ispirano solo alla difesa degli interessi del capitale, siano essi finanziari (le banche) che industriali (della produzione) sempre più nelle mani di irraggiungibili proprietà estere. Persino i grandi gruppi produttivi, nati e sviluppatisi in Italia fin dal tempo del boom economico, hanno spostato le loro sedi decisionali in altri paesi o all’interno di alleanze sovranazionali tese ad abbandonare l’Italia giudicata sede non idonea di contrattazione e decisionale per le politiche produttive. Ne è risultato un mondo della produzione la cui dirigenza ha spostato i siti produttivi nei paesi poveri e i centri decisionali in altri paesi ricchi, ma che hanno sviluppato politiche fiscali più favorevoli. Le inevitabili conseguenze sono state l’indebolimento del ruolo sindacale e l’affermazione della logica dei dividendi su quella del riequilibrio salariale.
Il tutto con l’adesione delle stesse persone che hanno subito i guasti di tali politiche, dei giovani, delle donne, dei lavoratori fragili e persino dei figli di quel proletariato che non guarda più a sinistra, ma che si illude di trovare solidarietà in una destra sempre più aggressiva, anche quando si ammanta di populismo e di una sfrontata demagogia.
Intanto aumentano i morti sul lavoro e diminuiscono le risorse da destinare a sanità, occupazione, scuola e servizi.
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