Pubblichiamo il secondo brano tratto da “La Repubblica delle Toghe” (La Bussola Edizioni) della giornalista d’inchiesta Rita Pennarola. In questo capitolo, intitolato “Il grumo”, si affronta di petto il tema dell’articolo 104 della Costituzione, che segna la distanza abissale del nostro Paese dalle altre democrazie ed ha provocato – scrive l’autrice – la deriva in atto del potere giudiziario in danno degli italiani.
La foto in apertura è tratta dal libro del grande Mauro Mellini “Il partito dei magistrati” con prefazione di Giuliano Ferrara (Bonfirraro, 2011). Un’immagine evocativa di come la magistratura italiana tenga in pugno il Parlamento.
Quel grumo costituzionale del potere giudiziario
che sta demolendo la democrazia in Italia
Il Titolo Quarto della Costituzione italiana è interamente dedicato a dettare gli assetti ed il potere della magistratura, enunciando principi che, come vedremo, in linea teorica sono analoghi a quelli delle Costituzioni vigenti nelle principali democrazie europee. Solo in teoria, però. Nei fatti, la distanza è abissale.
Cominciamo con l’articolo 101, secondo cui “La giusti zia è amministrata in nome del popolo” e “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”. Perfetto. Se non fosse che, nel nostro Paese, mancano i controlli terzi — presenti nelle al tre nazioni — per far sì che tali principi vengano regolar mente rispettati.
All’articolo 102 si legge poi, fra l’altro, che “La legge re gola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia”. Invece, non è mai accaduto, in tutta la storia repubblicana, che il popolo italiano abbia potuto partecipare direttamente, in qualsiasi caso o forma, all’amministrazione della giustizia, se non quando alcuni cittadini, solo nei casi di più gravi delitti, vengono sorteggiati per far parte di giurie popolari nelle Corti d’Assise.
Ben diversa la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia negli Stati Uniti, dove viene tuttora esercitata non solo nelle giurie popolari, ma anche attraverso il Grand Jury, organismo che può decidere, ad esempio, se un cittadino accusato dal pubblico ministero debba, o meno, andare a processo, ascoltando i testimoni ed esaminando le prove raccolte dagli investigatori, fino a concedere, in alcuni casi, gli arresti domiciliari all’indagato. Al Grand Jury spetta anche il potere di chiedere l’impeachment di un magistrato o di altro funzionario della pubblica amministrazione, quando ne ricorrano i presupposti.
In alcuni stati degli USA questo istituto è stato abolito e sostituito dal rito dinanzi al giudice dell’udienza preliminare. Il che potrebbe far pensare che si sia di fronte ad un sistema del tutto analogo a quello italiano. Ma è così solo dal punto di vista formale. Difatti, come sappiamo, i giudici statunitensi non sono soggetti solo all’autocontrollo della loro categoria (come avviene in Italia), bensì rispondono del proprio operato dinanzi alla Corte Suprema, i cui membri vengono nominati dal presidente degli Stati Uniti e confermati dal Senato.
Ricordiamo inoltre che negli USA, dove vige la drastica e netta separazione fra giudici e pubblica accusa, è sempre il presidente degli Stati Uniti a nominare il Procuratore generale e che quest’ultimo, il quale svolge anche funzioni di capo del Dipartimento Giudiziario, è prescelto fra coloro che fanno parte del Gabinetto del presidente in carica, al quale risponde direttamente.
Andiamo avanti, perché l’autentico nocciolo duro del potere giudiziario in Italia sta tutto nel dettato degli artico li 104 e 105 della Costituzione.
Cominciamo dal 104, secondo cui “La magistratura costituisce un ordine autonomo da ogni altro potere”. Come vedremo nei capitoli successivi sull’analisi comparativa del sistema giudiziario in diversi Paesi del mondo, questa netta formulazione sull’indipendenza dei magistrati è comune a quasi tutte le Costituzioni, perfino a quella vigente in un Paese teocratico come l’Iran, dove la Costituzione del 1979 definisce nel suo articolo 156 il potere giudiziario come “indipendente”, “protettore dei diritti dell’individuo e della società” e “responsabile dell’attuazione della giustizia”.
Il punto centrale dunque è andare a vedere — e questo faremo — quali contrappesi le stesse costituzioni, in primis quelle occidentali, abbiano adottato per controllare che l’indipendenza della magistratura non degeneri in arbitrio, onnipotenza, intoccabilità.
Altro punto cruciale, in tal senso, sono i successivi commi dell’articolo 104, che riguardano il Consiglio Superiore della Magistratura. Qui lo sbilanciamento a favore della “casta togata” è totale: il CSM «è presieduto dal presidente della Repubblica», «ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione» e, soprattutto, «gli altri componenti sono eletti per due terzi (dico 2 terzi, NDA) da tutti i magistrati ordinari appartenenti alle varie categorie e per un terzo (dicasi 1 terzo, NDA) dal Parlamento in seduta comune tra professori di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio».
Eccolo qui, il grumo di potere che distanzia di anni luce l’Italia dalle altre democrazie occidentali: la stragrande maggioranza dei componenti del Consiglio Superiore è costituita da magistrati di carriera, mentre sono relegati ad un ruolo numericamente marginale tanto il Parlamento, quanto i rappresentanti dell’Avvocatura, per il cui status, rilevantissimo in altri Paesi civili, addirittura non esiste a tutt’oggi alcuna previsione costituzionale.
Mettere nell’angolo il Parlamento (cioè il luogo di massima rappresentanza della sovranità popolare) significa smentire clamorosamente l’articolo 102 sulla presunta partecipazione del popolo all’amministrazione della Giustizia in Italia. Ancor peggio, relegare gli esponenti dell’Avvocatura ad un compito di mera certificazione di quanto decidono i magistrati, rappresenta un ulteriore oltraggio al diritto di difesa, pur costituzionalmente sancito.
In altre parole, come si fa a stabilire con l’articolo 24 che «Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri di ritti e interessi legittimi» e che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», se poi si mortifica il ruolo del difensore all’interno del massimo organo decisionale in materia di Giustizia, cioè il CSM?
Verrebbe da dire, su questo punto, che già formulando l’articolo 24 i padri costituenti si fossero in qualche modo accorti della grossolana incongruenza. Altrimenti, perché avrebbero aggiunto, quale ultimo comma, che «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari»?
Andiamo avanti con l’articolo 105, secondo cui «Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Pieni poteri quindi al massimo organo della magistratura, che ha una schiacciante prevalenza di magistrati di carriera, rispetto alla sparuta minoranza di rappresentanti eletti dal parlamento e di avvocati. Nello specifico, compongono l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Capo dello Stato, ben 20 magistrati di carriera (di cui 2 magistrati di Cassazione, 13 giudicanti e 5 pubblici ministeri) eletti dagli stessi magistrati, più altri due magistrati in posizione apicale (il primo presidente della Corte di Cassazione ed il Procuratore generale di Cassazione, in totale 22 magistrati). Il tutto, a fronte dei soli 10 membri cosiddetti “laici” eletti dal Parlamento fra giuristi ed avvocati di conclamata esperienza.
Siamo 22 a 10: è questa l’unicità del caso italiano nel mondo.
Come vedremo, in Spagna l’organo equivalente al nostro CSM è il Consejo General del Poder Judicial. Solo che qui i suoi 20 componenti non si auto–gestiscono, non si auto– eleggono, ma sono nominati dal Re su proposta di Camera e Senato. Ecco il contrappeso, sta tutto qui il ruolo centra le della volontà popolare, espresso attraverso il Parlamento anche per tutto ciò che riguarda la magistratura.
In Francia il Conseil Supérieur de la Magistrature è composto da una maggioranza da membri non togati, che sono 8 (a fronte dei 7 magistrati), di nomina politica ed eletti col parere obbligatorio delle Commissioni parlamentari competenti.
Ma torniamo in Italia, dove l’articolo 107 della nostra Costituzione si occupa di limitare i poteri del Guardasigilli. Recita infatti che: «Il ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare». Tutto qui. In pratica, non solo non ha “l’obbligo” di promuovere tale azione (quando ve ne siano i presupposti, ovviamente) bensì solo “la facoltà”, ma non gli viene assegnato alcun altro potere. La politica, il Parlamento, il Governo, risultano totalmente esautorati rispetto a qualsiasi forma di vigilanza e controllo, in nome del popolo, sull’operato dei magistrati. Perché questi, per la nostra Costituzione, si controllano e si giudicano da se stessi.
Un “unicum”, questo, non solo nel mondo occidentale, ma perfino rispetto ad alcuni tra i principali regimi autoritari.
L’unico potere assegnato al ministro della Giustizia (l’altra, come abbiamo visto, è solo una facoltà) lo troviamo all’articolo 110, che mette subito i paletti anche in questo caso: «Ferme le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, spettano al ministro della Giustizia l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia». Il titolare di questo rilevante dicastero viene dunque relegato al ruolo di burocrate, senza nemmeno il totale controllo di tali attività, visto che in premessa si chiarisce bene “ferme le competenze del CSM”.
Tutt’altra storia nelle nazioni occidentali maggiormente progredite. Lo vedremo in dettaglio nei prossimi capitoli, qui anticipiamo solo che in Francia la Loi Perben emanata nel 2010 sottopone esplicitamente i pubblici ministeri al controllo del ministro della Giustizia. Secondo la normativa d’Oltralpe, il pm dipende gerarchicamente non solo dal Guardasigilli, ma anche dalla Direzione Affari criminali, posta alle dipendenze del ministro stesso.
Nel corso dei lavori propedeutici all’emanazione di quella legge, l’allora Guardasigilli Rachida Dati pronunciò la famosa, lapidaria frase: «il n’est pas sain que les magistrats donnent l’impression de s’autogérer». Tradotto, «non è sano che i magistrati diano l’impressione di autogestirsi». Occhio, qui si parlava di “impressione”. Da noi questa dell’autogestione è parte essenziale del dettato costituzionale.
In particolare, il 29 maggio 2008 nel corso dell’Assemblea nazionale francese, riunita in sessione ordinaria, la ministra Guardasigilli spiegava come sarebbe cambiato il potere della magistratura con queste precise parole: «Affinché il Csm sia più aperto, proponiamo di integrare otto personalità esterne, che siederanno accanto a sette magistrati della magistratura».
Di fronte alla protesta dell’opposizione, rappresentata dal deputato Arnaud Montebourg, la ministra replicava, tranquilla: «Se mi consente, onorevole Montebourg, vorrei rettificare quanto lei ha detto: nella maggior parte dei paesi europei a noi paragonabili, i testi non prevedono che i magistrati siano in maggioranza all’interno degli organi che ne propongono lo sviluppo di carriera. Prima hai detto che eravamo gli unici a prevederlo. È falso. I magistrati non sono la maggioranza nel Regno Unito, in Belgio, in Svezia, in Danimarca, in Portogallo e in alcuni Länder tedeschi. […] Non è salutare che i magistrati diano l’impressione di autogestirsi. Per questo dobbiamo assolutamente garantire l’indipendenza della giustizia, ma senza autogestione, senza consentire che la giustizia possa ripiegarsi su se stessa. L’indipendenza della giustizia deve andare di pari passo con l’apertura e con la necessità di rendere conto del proprio operato».
In Spagna, per fare l’esempio di un altro Paese assimila bile all’Italia da diversi punti di vista, benché il Consiglio Generale veda una maggioranza numerica di magistrati (12 su 20), questi ultimi, così come i componenti laici, non provengono da processi di nomina autoreferenziale, ma sono nominati dal Re su proposta di Camera e Senato. Un metodo che assegna quindi la massima autorità al Parlamento, in rappresentanza della volontà popolare.
Leggi anche il primo brano
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