ESCLUSIVO / ITALIA, L’UNICA REPUBBLICA PENALE AL MONDO

Per gentile concessione dell’autrice, pubblichiamo da oggi in esclusiva alcuni brani tratti dal libro “La Repubblica delle Toghe – L’errore costituzionale che ha trasferito la sovranità dal popolo italiani alla magistratura” (La Bussola Edizioni), in cui la giornalista d’inchiesta Rita Pennarola documenta il sovvertimento attuale delle regole democratiche nel nostro Paese ad opera del potere giudiziario e indica l’unica, possibile via d’uscita: la modifica dell’articolo 140 della Costituzione, quell’articolo che ancora oggi garantisce alla magistratura il predominio assoluto sulla classe politica e sulle istituzioni. Perché proprio attraverso l’articolo 140 il principio sacrosanto della separazione dei poteri, capo­saldo di ogni democrazia, «in Italia è stato tradito», come scrive Sabino Cassese, l’indipendenza della magistratura «si è trasformata in autogoverno» e, da qui, in una forma di incondizionato arbitrio. Con la conseguenza che «l’abnorme dilatazione del potere giudiziario» ha fatto diventare il nostro Paese una «società amministrata dalla giustizia penale», che «ha l’ambizione della popolarità» e si circonda di «un alone mediatico».

Carlo Nordio

Da qui l’appello al ministro Carlo Nordio e a tutte le forze realmente democratiche di non usare con gli italiani strumenti di distrazione di massa, proponendo modifiche costituzionali che in tema di giustizia cambierebbero ben poco, ma di mettere mano all’unica riforma in grado di restituire effettiva sovranità al popolo italiano: il radicale cambiamento dell’articolo 140 della Costituzione, riportando in parità il numero dei togati con quello dei laici. Come avviene in tutti gli altri Paesi del mondo. Tranne che in Italia.

Nel brano che segue l’autrice parte dalla desertificazione industriale dell’Italia causata dalla stagione di “Mani pulite”. Poi, tracciando il quadro a tinte fosche dell’attuale amministrazione della giustizia in Italia, ci racconta come sia avvenuta la “svolta” del 1992 quando, dopo il sacrificio degli ultimi magistrati-eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la casta apicale dei togati si è chiusa nella propria intoccabilità, fino al punto che le mafie hanno preso il sopravvento economico e sociale sull’intero Paese.

 

 

Gabriele Cagliari e Raul Gardini

IL DECLINO INDUSTRIALE DELL’ITALIA

DOPO I REPULISTI DEL ’92

Se fino ai sovvertimenti del 1992 (stragi di Capaci e Via D’Amelio ma, soprattutto, rivoluzione di Mani Pulite) la tenuta produttiva del Paese era rimasta in costante crescita, da quei fatidici anni in poi il nostro Paese imbocca la strada poco invidiabile della deindustrializza­ zione. Lo storico Valerio Caruso in un saggio pubblicato dalla rivista specializzata Clionet scrive che «fino alla metà anni ’90 non esisteva in Italia un vero processo di deindu­strializzazione. Gli economisti parlano piuttosto del pas­saggio dall’economia fordista del dopoguerra alla nascita della Terza Italia, basata sulla crescita del settore terziario rispetto a quelli industriali, all’interno di un processo che definiscono, complessivamente, virtuoso».

Da metà anni ’90 comincia il declino, sempre più ac­centuato, fino alla recessione globale del 2008: «Il perio­do successivo, circoscritto fra la seconda metà degli anni Novanta e la crisi del 2008, si caratterizza, invece, per lo smantellamento del settore industriale italiano e per la cri­ si della Terza Italia», spiega Caruso.

Cosa era accaduto in quei primi anni ’90 per determina­ re una frattura così imponente?

Ricordiamo tutti che era la stagione cosiddetta di “Mani Pulite”, aperta il 17 febbraio 1992 dall’arresto di Mario Chiesa, segnata dal lancio di monetine contro Bettino Craxi all’uscita dell’Hotel Raphael (29 aprile 1993) e dal­ la successiva fuga dell’ex premier in Tunisia. In quegli anni il pool di Milano (e, con esso, tutta la magistratura italia­na) scopre l’esaltazione della ribalta mediatica. Una possi­bilità cui, per loro, sarà sempre più difficile rinunciare, fino ai giorni nostri.

Il presunto “repulisti” della politica corrotta sollevò un vasto moto di consenso nell’intero Paese, gli “eroi” del pool erano in prima pagina dei principali quotidiani un gior­no sì e l’altro pure. Qualcosa di simile a ciò che è acca­duto nel 2018, quando i grillini entrarono a vele spiegate in Parlamento promettendo agli italiani che lo avrebbero aperto come una scatoletta di tonno, salvo poi finire mise­ramente, qualche anno dopo, a mendicare posti e posticini nel sottobosco ministeriale, dal momento che gli elettori, avendone compreso la vocazione arrivistica, hanno volta­ to loro le spalle.

La grossa, sostanziale differenza tra i due fenomeni sta però nel fatto che mentre i seguaci di Beppe Grillo sono stati giustamente, come tutti i politici, sottoposti al vaglio della volontà popolare, per i magistrati di Mani Pulite e per tutta la loro categoria, in generale, i cittadini non han­ no mai — né in quella stagione né in seguito — potuto emettere alcun verdetto. O, se lo hanno fatto, si sono do­vuti limitare a mormorarlo tra loro, senza nemmeno po­terlo esprimere apertamente, per non incorrere nelle lame della legge sulla diffamazione, applicata dai magistrati con condanne pecuniarie devastanti ed esecuzioni sommarie, che in Italia possono privarti anche del necessario per vive­ re (come vedremo in un prossimo capitolo).

In quegli anni, dal ’92 fin quasi al 2000, le indagini di Tangentopoli si estesero a macchia d’olio in tutte le Procure d’Italia, che seguivano l’esempio dei colleghi mi­lanesi, forti dell’entusiasmo popolare, travolti dalla ribal­ta mediatica. I cittadini italiani non si rendevano conto del fatto che l’annunciato repulisti della classe politica da parte della magistratura stava spazzando via da un giorno all’al­ tro pezzi preziosi e consistenti dell’apparato industriale del Paese, messi su dal dopoguerra in poi grazie alla tenacia ed alla fatica di intere generazioni d’imprenditori.

Il 28 luglio 1992, pochi giorni dopo l’interrogato­ rio dinanzi ai pm di Mani Pulite, si spara alla testa Mario Majocchi, principale imprenditore edile del comasco, vice­ presidente nazionale dell’ANCE. La sua Nessi e Majocchi dava lavoro a più di 200 dipendenti, oltre al vasto indotto.

Il 20 luglio 1993 nella cella del carcere di San Vittore si toglieva la vita con un sacchetto di plastica avvolto intorno alla testa il presidente dell’ENI Gabriele Cagliari, manager visionario, che aveva raccolto l’eredità di Enrico Mattei por­tando l’azienda petrolifera di stato ai primi posti nel mondo.

Arrestato l’8 marzo 1993 su richiesta del pool di Mani Pulite, Cagliari era stato poi raggiunto, nel giro di poche settimane, da altri due mandati d’arresto. Dopo oltre quat­tro mesi di carcerazione preventiva poneva fine alla sua esi­stenza, lasciando una serie di lettere che suonano ancora oggi come un potente j’accuse contro i metodi di quella certa parte della magistratura che si era auto–investita del compito di emendare l’umanità per dare vita ad uno sta­ to etico.

«La convinzione che mi sono fatto — scriveva Gabriele Cagliari — è che i magistrati considerano il carcere nient’al­ tro che uno strumento di lavoro, di tortura psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuf­fire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle del­ la gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima. […] siamo cani in un canile dal quale ogni Procuratore può prelevarci per fare la propria eserci­tazione e dimostrare che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni pri­ma o alcune ore prima».

Poi la lapidaria conclusione, che riecheggia ancora nel­ le aule dei Tribunali italiani tutte le volte in cui un inno­cente viene privato della libertà: «Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percor­rendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci vo­glio essere».

Le due ispezioni ministeriali disposte da Via Arenula sulla Procura di Milano a seguito del suicidio di Cagliari fi­nirono entrambe sotto la pietra tombale dell’archiviazione.

Travolta dalla furia di Mani Pulite, l’ENI è passata dai 128.000 dipendenti del 1992 (prima che sul colosso petrolifero italiano si abbattessero le inchieste del pool), agli appena 80.700 del 2002. Un trend inarrestabile, co­minciato in quegli anni e culminato nel 2022 con 32.188 lavoratori. Ciò significa che quel tragico 1992 ha lasciato a casa 95.812 dipendenti. Certo, molti altri fattori hanno in­ fluito in un arco di tempo così vasto. Ma resta il fatto che il declino era cominciato proprio allora, con i primi scon­quassi giudiziari all’interno dell’azienda e la morte del ma­nager che aveva reso grande il gruppo del cane a sei zampe ideato da Mattei: Gabriele Cagliari.

Il 23 luglio 1993 veniva trovato morto nella sua casa di Milano l’imprenditore Raul Gardini, scosso per il suicidio di Cagliari e consapevole di essere lui stesso nel mirino del pool e prossimo all’arresto. Gardini, il manager che aveva proiettato in pochi anni il Gruppo Ferruzzi sul piano in­ternazionale, facendolo diventare una delle prime industrie alimentari nel mondo, era anche l’uomo che aveva realiz­zato la fusione di Montedison (Gruppo Ferruzzi) con ENI: l’affaire al centro delle indagini di Mani Pulite.

Il Gruppo Ferruzzi, che nel 1992 fatturava 21.000 mi­liardi di lire ed aveva 52.000 dipendenti in tutto il mondo, è stato chiuso nel 1993.

Da allora la stagione della cosiddetta “Mani Pulite” non è mai finita. La vocazione giustizialista assunta a quel tem­po dalla magistratura italiana, l’irresistibile tentazione me­diatica, quell’irrefrenabile empito moralizzatore del Paese attraverso epurazioni di stampo giudiziario, tutto questo si è abbattuto sul nostro apparato produttivo e continua an­cor oggi a farlo, con risultati che esamineremo a fondo più avanti, uno per uno.

 

 

 

 

IL VANO SACRIFICIO DI GIOVANNI E PAOLO

Nessuno ha mai pagato per le morti di Cagliari o di Gardini, né qualcuno ha mai chiesto conto della scompar­sa di migliaia e migliaia di posti di lavoro in Italia a seguito di quelle inchieste. Però, come dicevamo all’inizio, c’è un prima e un dopo. Che riguarda non solo la recessione industriale del Paese, ma anche un certo, epocale cambiamento della magistratu­ra italiana dopo le stragi del 1992, in cui persero la vita due magistrati–eroi, forse gli ultimi: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Entrambi, benché ufficialmente la stagione di Tangentopoli fosse stata aperta nel febbraio dall’arresto di Mario Chiesa, erano ben lontani da quel milieu moraliz­zatore. Ed è presumibile che lo sarebbero rimasti anche in seguito, se il tritolo non avesse spezzato le loro vite, consi­derando che l’impegno di entrambi era concentrato esclu­sivamente nella lotta senza quartiere alla mafia, con i gros­ si risultati che conosciamo.

Il punto è che l’icona dei due giudici–eroi ha segnato un punto di svolta nella magistratura italiana, una svolta che purtroppo, a nostro giudizio, non sempre è stata degna di onorare il loro sacrificio.

Dietro il “santino” dei martiri autentici, Falcone e Borsellino, ha cominciato a proliferare una casta che, da lì in poi, forte della propria intoccabilità garantita dalla Costituzione, talvolta ha assunto il controllo politico del Paese, comminando arresti nei confronti dei politici che annunziavano riforme del sistema giudiziario italiano (e lo vedremo), riducendo in schiavitù, con sequestri e pignora­ menti, i giornalisti d’inchiesta che ne documentavano abu­si e corruttele, dirottando più volte il destino politico del Paese con arre­sti in massa di politici ed imprenditori (altra piaga che sarà documentata in questo libro).

In pratica, la memoria dei magistrati coraggio — Falcone, Borsellino, ma anche Livatino ed altri — invece di ingenerare nella categoria un senso di giusta e naturale emulazione, per alcuni si è trasformata nell’altarino die­ tro cui è stato possibile abusare ad libitum del potere, fino all’esplosione di scandali come il caso Palamara (di questo parleremo), o di autentici mostri giudiziari maturati pro­prio nel clima del dopo–stragi del ’92, come il caso dell’ex poliziotto Bruno Contrada.

L’impietoso, lucido excursus di quel massacro è stato reso dal giornalista d’inchiesta di lungo corso Giuseppe Sottile sul Foglio del 22 aprile 2023, quando anche l’ul­timo, ennesimo grado di giudizio ha certificato l’assolu­ta estraneità del servitore dello Stato, Bruno Contrada, 92 anni, ai fatti che gli sono costati uno fra i più clamorosi, in­ giusti calvari giudiziari della storia repubblicana.

«L’ultima sentenza di Caltanissetta sulla strage di via D’Amelio, quella che ha ucciso Paolo Borsellino, certifi­ca per iscritto che l’antimafia ha creato a tavolino un mo­stro e lo ha crocifisso per quasi trent’anni con un cinismo che, solo pensarci, fa venire i brividi. Quel mostro, costrui­to con le infamità dei pentiti e di altri compiacenti misti­ficatori, si chiama Bruno Contrada: ha 91 anni e al tempo dell’attentato — siamo nel luglio del 1992 — era viceque­store di Palermo. La prima bugia che hanno messo in cir­colo è stata questa: al momento della strage Contrada era lì, nell’inferno di via D’Amelio. E sull’onda di questa bu­gia, ovviamente legata al sospetto che lui avesse trafugato l’agenda rossa dove il magistrato ucciso annotava i suoi in­ contri, hanno inventato la comoda teoria in base alla qua­ le i servizi segreti deviati avrebbero coperto le nefandezze dei boss stragisti. Povero Contrada». Ancora: «L’antimafia, quella degli investigatori felloni e dei giudici in carriera, gli ha appiccicato addosso un’accusa di mafia. Che era una menzogna. E in base a quell’accusa lo ha incarcerato, umi­liato e costretto per trent’anni a difendersi in processi sen­ za capo né coda. Quell’antimafia gli ha rubato la vita», con­clude Sottile.

L’8 giugno 2023, dopo una cruenta battaglia legale du­rata trent’anni, la Cassazione ha stabilito che Contrada do­vrà essere risarcito dallo Stato.

«Dopo anni — dichiara il suo difensore, l’avvocato Stefano Giordano — sono state poste in esecuzione le due sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’uomo che hanno sancito che il procedimento a carico di Contrada è stato fin dall’inizio illegittimo ed illegittima era la con­ danna. La Cassazione ha messo una pietra tombale ad un massacro mediatico e giudiziario vergognoso e putrido che ci ha portati alla vittoria finale. Siamo giunti a tale risultato finale soltanto perché Contrada è rimasto vivo, nonostante tutta la sofferenza inflittagli».

Sui “professionisti dell’antimafia” e sul loro operato tor­neremo, Ora aggiungiamo solo che tutte le denunce di Contrada contro coloro che lo avevano ingiustamente in­fangato sono state archiviate dai colleghi degli stessi magi­ strati che lo avevano torturato per quarant’anni.

Che quello delle mafie non sia un terreno facile per nes­sun investigatore e quanto talvolta sia stato più semplice “girarsi dall’altra parte”, magari ricorrendo all’utile “delitto passionale”, lo dimostrano altri casi giudiziari.

Ad esempio l’omicidio della piccola Yara Gambirasio: una vicenda in cui la camorra vesuviana era il principale convitato, ma a pagare per tutti è un padre di quattro fi­gli che non aveva mai conosciuto né frequentato la ragaz­za. Un uomo tuttora all’ergastolo, che da allora urla e pro­clama la sua innocenza.

Qualcosa di non molto diverso potrebbe essere avve­nuto nel delitto della giovane e bella mamma di Somma Vesuviana, Melania Rea, massacrata platealmente con una siringa piantata sul petto e i pantaloni abbassati. Un chiaro messaggio camorristico, di quelli da manuale, una macabra messinscena per punire chiunque dovesse pensar bene, re­duce dall’Afghanistan, di “mettersi in proprio”, magari trafficando hashish dentro le canne dei fucili.

 

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