La poesia della memoria nelle registe palestinesi

L’onda degli anni ’90 e la nuova generazione

“I feel like I don’t know what to do”, confessa in una delle scene-chiave di Salt of this sea la protagonista Soraya, giovane palestinese che dalla natia Brooklyn è tornata nella terra degli avi, a Ramallah, scontrandosi con una realtà sconosciuta e inimmaginabile, che ai suoi occhi assume contorni quasi distopici. Le limitazioni ai movimenti ed ai viaggi, i controlli ossessivi delle forze dell’ordine israeliane, il clima di conflitto latente, la permanenza di usanze ancestrali e un fatalismo senza orizzonti: tutto fa pensare a un tempo immobile e ad un popolo “sospeso”, a cui il trauma della Nakba (la diaspora seguita all’occupazione israeliana nel 1948) ha sottratto non solo terra e risorse ma più di tutto la normalità quotidiana e un futuro possibile. E tuttavia il richiamo delle radici e il senso di giustizia spingeranno infine Soraya a restare, per impegnarsi al fianco del popolo di cui solo ora è davvero consapevole di essere parte.

 

IL MARE SOGNATO

C’è tutta l’identità del cinema palestinese in questo film del 2008 di Annemarie Jacir. Primo lungometraggio di fiction diretto da una regista, Salt of this sea, uscito nel 2008 dopo 5 anni di sofferta lavorazione, fu un esordio fulminante (applaudito a Cannes, arrivò a un passo dalla nomination agli Oscar) per la 34enne cineasta nata a Betlemme, diventando il manifesto della cinematografia palestinese al femminile.

Annemarie Jacir. Sopra, una scena da 3000 Nights

In nessun altro film si compongono con altrettanta efficacia e armonia tutti i tasselli del mosaico identitario del popolo palestinese: il dolore dell’esilio e il richiamo alle radici, la partecipazione alla lotta collettiva contro Israele e al tempo stesso il sogno di una vita pacifica e normale, lungo un percorso sentimentale accidentato attraverso i vincoli di genere e le strettoie della mentalità tradizionale. Questa dimensione esistenziale sospesa tra conflitto politico e sofferta introspezione viene resa dalla giovane regista e sceneggiatrice con uno stile maturo, dove l’impellenza dolente dell’attualità e del documento convive con una poetica più intima e soffusa, fatta di sguardi, piccoli gesti, di alternanza fra dialoghi concitati e silenzi espressivi, della forza evocativa di piccoli oggetti di uso quotidiano. Il trauma collettivo della Nakba, asse portante dell’immaginario palestinese contemporaneo, viene filtrato in Salt of this sea in una accezione emozionale piuttosto che epica, congeniale per un personaggio come Soraya, impossibilitata a vivere pienamente i sogni più lieti: la libertà di amare, muoversi, respirare il sapore di sale nel mare che bagna la terra dove è nata. Un clima politico opprimente che trasformerà il ricordo elegiaco del passato in una nostalgia rabbiosa, fino a deflagrare in due scene-chiave: la riscoperta della casa dei suoi avi, come esperienza emotiva di natura quasi sensoriale, con il successivo e vibrante j’accuse contro i nuovi proprietari israeliani (dal canto loro del tutto indifferenti e persino stupiti dall’improvvisa sortita di Soraya), e la rapina alla banca di Ramallah dove erano “spariti” i risparmi della sua famiglia. Un film intenso e potente anche grazie alla direzione degli attori e all’intuito della regista, che affidò il ruolo di Soraya a una palestinese con doppia cittadinanza e realmente nata a Brooklyn, la poetessa Suheir Hammad, rivelatasi l’interprete ideale per Salt of this sea.

 

L’ONDA DEL NUOVO MILLENNIO

L’affermazione delle cineaste palestinesi, nate in Medio Oriente o figlie di emigrati in Europa e negli USA, è un fenomeno recentissimo e di dimensioni sorprendenti. Ancora nel 1998, in un libro fondamentale come Una terra promessa dal Cinema. Appunti sul nuovo cinema palestinese, scritto da Sergio Di Giorgi e Joan Rundo, con una nota introduttiva di Roberto Silvestri, per le Edizioni della Battaglia, figuravano in attività soltanto due autrici, presentate in ampie interviste: Norma Marcos, autrice dei primi documentari (all’epoca era già noto L’espoir voile, del ’94, a cui seguiranno fra il 2005 e il 2011 Trois danseuses, En attendant Ben Gourion e il suo titolo più importante, Fragments d’une Palestine perdue), e Mai Masri, che aveva esordito a 23 anni, nel 1982, con Sotto le rovine e nel ’98 aveva già al suo attivo otto documentari – tre in co-regia con Jean Khalil Shamoun – fra i quali gli intensi reportage sui profughi bambini Children of fire (1990, sull’Intifada) e The Children of Shatila, del 1998.

 

Un’immagine tratta dal fil Wajib

 

Il modello artistico di riferimento delle prime autrici è stato quell’equilibrio espressivo tra impegno politico militante e delicata poesia filmica che ha assicurato qualità e prestigio internazionale a tutto il cinema palestinese, sulla traccia dei maestri affermatisi dagli anni Settanta (Michel Khleifi, Rashid Masharawi, Elia Suleiman), oggi affidato in prevalenza alle cineaste: una rete di registe, produttrici, sceneggiatrici, attrici che nell’arco di due decenni hanno finito per costituire il 50% dell’industria cinematografica. Un dato rilevante sul piano numerico, a fronte del 15% di registe in Europa e del 5% negli USA, e in misura anche maggiore sotto il profilo artistico. Si deve soprattutto alle autrici originarie di Betlemme, Nazareth, Nablus se il cinema palestinese si è aperto a nuovi generi e forme espressive, consolidando una presenza stabile nell’industria produttiva e nel circuito dei maggiori festival internazionali.

Il genere documentario, in origine esclusivo in Palestina per il suo carattere di cinema-inchiesta e l’esiguità di risorse finanziarie, è tuttora prevalente (si pensi al successo di Bye Bye Tiberias di Lina Soualem, presentato lo scorso anno a Venezia alle Giornate degli Autori e all’Efebo d’Oro a Palermo, o al precedente In her Footsteps, 2019, di Rana Abu-Fraiha, vincitrice della prima edizione di DocuDonna a Massa Marittima) ma oggi si può contaminare con l’animazione (come in Electrical Gaza, presentato a Pesaro 2023, in cui la giovane videomaker Layla Rosalind Nashashibi dà vita a una Gaza fuori dal tempo, quasi mitologica) o con la videoarte di Larissa Sansour, regista nel 2018 dell’intrigante cortometraggio distopico Nation Estate.

 

FIGLIE DELLA DIASPORA

Sia la Sansour che la Nashashibi vivono e si sono formate a Londra, e questa contaminazione fertile tra radici arabe e cultura occidentale accomuna molte autrici palestinesi: Mai Masri ha studiato cinema a Berkeley e San Francisco, Norma Marcos a Parigi, dove è nata e vissuta anche la rivelazione Lina Soualem.

È proprio questa dimensione cosmopolita a connotare la new wave femminile palestinese dell’ultimo decennio e a renderla più dinamica, aperta, consapevole dei propri mezzi, nonché più collaborativa e solidale. Il fenomeno di registe che producono film di altre autrici è diffuso, e con esiti spesso eccellenti come 3000 Nights (2015), diretto e prodotto dalle due registe più rappresentative – rispettivamente Mai Masri e Annemarie Jacir, che ha fondato la casa di produzione “Philistine Films” – e il progetto 5×5, prodotto da Sahera Dirbas, autrice nel 2008 di La sposa di Gerusalemme, docufilm di impronta neorealista, a beneficio di 5 colleghe (Yafa Atef, Rebeeha Allan, Basma Swaity, Qamar Shabaroo, Shams Gareeb-Zakeih Jabda) per narrare in altrettanti documentari le storie vere e drammatiche di 5 donne di diversa età e condizione.

Farha, opera prima della giordana Darin J. Sallam

Contestualmente, il nuovo cinema palestinese può avvalersi di un parterre di attrici di valore assoluto, più volte premiate nei festival internazionali. Una delle più note, Hiam Habbas (protagonista di La sposa siriana, Paradise Now, Free Zone, Munich, The Visitor), emigrata da Nazareth a Parigi più di trent’anni fa, è tornata nella sua Tiberiade per ricostruire nel film di sua figlia, Lina Soualem, una storia familiare che riflette e illumina la vicenda di un intero popolo. A connotare le migliori interpreti è quel cotè di eleganza e misura nei movimenti e nei gesti tipico dell’educazione femminile mediorientale, riflesso nel fascino di attrici come Mouna Hawa, apprezzata in Between Heaven and Earth ((2019), l’opera più compiuta di Najwa Najjar, e nella graffiante commedia di Basil Khalil A Gaza Weekend (2022), presentata in anteprima al Middle East Now di Firenze, e Maisaa Abd Elhadi, anch’essa palestinese con cittadinanza israeliana, ammirata nel drammatico 3000 Nights e voce narrante di Lyd, documentario di fantascienza diretto da Sarah Ema Friedland e Rami Younis.

La star del futuro è una delle attrici-rivelazione del cinema mondiale: Karam Taher, palestinese di nazionalità giordana che nel 2021, appena diciassettenne, ha conquistato pubblico e critica (e il premio per la migliore attrice nei festival di Casablanca e Aswan) per il brillante esordio in Farha, opera prima della sua connazionale Darin J. Sallam. Presentato nella selezione ufficiale del Toronto Film Festival, è la storia della Nakba attraverso gli occhi di una ragazza palestinese di 14 anni, dapprima gioiosi e sognanti e poi dominati di volta in volta dallo sgomento per la guerra, dal dolore della clausura (nella cantina di casa) per non essere scoperta dai soldati, dalla vana attesa del padre morto in combattimento, dal terrore per il destino che l’aspetta. Nel suo traumatico bildungsroman Fahra si scopre trasformata nei pensieri e nel corpo, dalla grazia di adolescente dolce ed ingenua all’angoscia nervosa di donna in pericolo. Per un imprevedibile e tragico incrocio della storia, in seguito alla Nakba la ragazza palestinese si trova a soffrire la condizione della sua coetanea ebrea Anna Frank, a cui la violenza degli occupanti del Paese in cui vive distruggono i sogni di ragazza sensibile e ansiosa di vita, il piacere dell’amicizia (con Farida) e la conquista dell’istruzione, trasformando la sua casa in una prigione senza uscita. Proprio lo svelamento di questo percorso repentino da oppressi a oppressori ha provocato le proteste di una parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica israeliana, che ha boicottato la proiezione di Fahra nelle sale e su Netflix. Una reazione esplicitamente negazionista, che a giudizio della regista «è la conferma che la Nakba non è mai finita, e avviene ogni giorno».

 

LA MEMORIA NECESSARIA

Sulla scia del successo di Farah e Bye Bye Tiberias emerge con chiarezza, parafrasando il titolo del capolavoro di Michel Khleifi La memoria fertile (1990) sulla condizione delle donne palestinesi, che il filo conduttore della cinematografia delle registe è la memoria necessaria. Se in ogni comunità è la donna la custode naturale dei ricordi familiari e la vestale degli affetti e dell’educazione, questo è ancora più visibile per un popolo “sospeso”, senza Stato e senza terra, come quello palestinese, dove gli “archivi viventi” non si limitano a salvaguardare il passato ma suppliscono all’assenza di istituzioni, di archivi cartacei, di un pantheon condiviso.

Najwa Najjar

Il patrimonio storico-documentario più prezioso della Palestina contemporanea è costituito appunto dai film, e dai frammenti visivi (le foto di famiglia, le residue immagini d’epoca), come quelli che Lina Soualem e le donne di quattro generazioni della sua famiglia riescono a recuperare e a condividere in Bye Bye Tiberias, come echi lontani ma ancora vivi di un passato da proteggere, per un futuro ancora possibile. Radici vitali, fatte anche di oggetti da recuperare (la casa dei nonni in Salt of this sea) e persone da ritrovare, come il padre cercato ossessivamente in When I saw you(2012), altro titolo fondamentale di Annemarie Jacir e primo film palestinese in digitale, dall’adolescente Tarek, che la regista accompagna nella sua odissea alternando i registri della partecipazione emotiva, dell’ironia e della suspence, fino all’incontro con i feddayn, che cambierà la sua vita, e a un epilogo sorprendente. Un film ispirato a una storia vera, come molte opere delle autrici palestinesi, che dalla lunga militanza documentaristica (spesso influenzata dalla filmografia di Godard o dal Neorealismo) hanno tratto motivi ispiratori e padronanza tecnica per realizzare i film di fiction. Come Najwa Najjar, regista e sceneggiatrice tra le più coraggiose, che nel 2014 ha sfiorato la candidatura all’Oscar con il drammatico Eyes of the Thief (ispirato alla storia vera di un cecchino palestinese di religione cristiana) e cinque anni dopo, con la commedia agrodolce Between Heaven and Earth, ha narrato con acuta sensibilità, attraverso la storia di una separazione coniugale, lo spinoso rapporto tra i sessi e la soffocante contaminazione tra politico e privato nella società palestinese.

 

UN CINEMA OLTRE LE BARRIERE

È questa esperienza collettiva della sopravvivenza in una grande prigione open space ad aver alimentato nel popolo palestinese, quindi nel suo cinema, una spiccata propensione all’immaginazione e al sogno, al recupero delle radici, alla ricerca di contatti e solidarietà nel cinema internazionale, dalla Francia al Nordamerica (soprattutto al Sundance e al Tiff), dal Belgio all’Italia, che ai film palestinesi dedica da anni partecipate rassegne, come al Middle East Now di Firenze o a “Femminile palestinese” diretto a Salerno da Maria Rosaria Greco.

Maha Haj

Le metafore ricorrenti di questi muri fisici e mentali sono il peso di una tradizione maschilista e l’incubo della claustrofobia. In 3000 Nights lo esprime il carcere (dove Mai Masri ha effettivamente girato molte scene, da una storia vera) in cui la giovane insegnante Layal, arrestata per aver dato rifugio a un presunto terrorista, è costretta a partorire con le catene ai piedi e alle mani. In Farha è la cantina buia in cui il padre nasconde la figlia per proteggerla dall’esercito israeliano, per Tarek e la sua famiglia è il campo profughi in Giordania che fa da scenario iniziale di When I saw you. Dai muri non si scappa neppure nelle commedie, tanto più se sono costruzioni mentali degli stessi protagonisti. Claustrofobica è la casa ad Haifa di Waleed, lo scrittore depresso e smarrito di Mediterranean Fever, originale commedia nera della regista Maha Haj premiata nel 2022 a Cannes, che del cinema francese rivela tracce evidenti nei dialoghi e nel particolare humour. E nel brillante Wajib, ancora di Annemarie Jacir, presentato a Locarno 2018, la vecchia Volvo con cui padre e figlio (il popolare attore Mohammad Bakri, noto anche come regista di Jenin Jenin, e suo figlio Saleh) girano tutta Nazareth, in una sorta di girone infinito, per distribuire gli inviti di matrimonio finisce per diventare, più che un facilitatore di movimento, una sorta di cella, dove infine divampa la dialettica tra il vecchio ed il nuovo, tra il giovane che ha scelto di emigrare e l’anziano genitore rassegnato ad accettare le regole ferree imposte da Israele.

Va a merito delle registe, soprattutto, se nel cinema palestinese, oltre a denunciare i misfatti dell’oppressione, si affrontano anche le contraddizioni interne (politiche, di classe, soprattutto nei rapporti uomo-donna) ancora drammaticamente aperte. Resta ancora attuale il monito di Khleifi: «Se noi arabi non ci liberiamo della nostra mentalità autoritaria, e delle nostre pulsioni malate, non vinceremo mai». E con ogni probabilità toccherà alle autrici palestinesi provare a leggere con occhi nuovi, e senso della complessità, la tragedia immane che sta vivendo il loro popolo per il martirio di Gaza, tra l’estremismo della destra israeliana e le atrocità di Hamas, anche contro la sua stessa popolazione.

Sarà forse necessario richiamarsi ancora a The Dupes (Gli ingannati), il capolavoro neorealista del 1972 di Tewfik Saleh, dal romanzo Men in the sun di Ghassan Karafani, in cui lo scrittore palestinese e il regista egiziano raccontano con lucidità e forza poetica – ravvisando qualche affinità con Il cammino della speranza di Pietro Germi – l’odissea di un popolo costretto a una diaspora infinita e sofferta nei Paesi vicini: nel film l’Iraq e il Kuwait, illusoria e fatale terra promessa dopo un metaforico viaggio nel deserto, nella storia recente la Giordania e la Siria, dopo il 7 ottobre 2023 il Sinai egiziano.

 

 


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