SHARON / L’HA UCCISA IL KILLER DI YARA RIMASTO IN LIBERTA’?

Esistono almeno tre “strane” coincidenze fra l’omicidio di Sharon Verzeni e quello della piccola Yara Gambirasio. Ben oltre la prima, che riguarda i prelievi a tappeto del DNA richiesti dalla Procura (nel caso di Yara furono 25.000, qui finora una cinquantina), c’è la vistosa contemporaneità fra l’assassinio di Sharon e la serie televisiva su Yara in 5 puntate andata in onda su Netflix a partire dal 16 luglio scorso, che ha sollevato nuovi, pesanti interrogativi sulla colpevolezza di Massimo Bossetti e sulla genuinità delle prove che lo hanno fatto condannare all’ergastolo in tre gradi di giudizio.

Ma ad inquietare è la terza coincidenza, quella ricorrenza, in entrambi i casi giudiziari, delle sostanze stupefacenti, che ora come allora mostrano il contesto territoriale di Brembate e dintorni come una piazza di spaccio da far invidia a Gomorra.

La locandina dell’inchiesta sul caso Yara andata in onda a luglio

Nel 2017 il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Como aveva scoperto un vero e proprio laboratorio per trasformazione e smercio di sostanze stupefacenti che operava dentro un condominio proprio a Brembate. Sequestrati all’interno del locale 63 “panetti” contenenti eroina, per un totale di oltre 32 chilogrammi, due pistole di cui una dotata di silenziatore e con la matricola semi abrasa, 108 cartucce di diverso calibro, oltre 40 chilogrammi di sostanza da taglio, unitamente ad una vasta collezione di “attrezzi del mestiere”: bilancini di precisione, frullatori, occhiali protettivi, mascherine antipolvere e presse per compattare lo stupefacente. Il tutto, gestito da un cittadino albanese, il solito pesce piccolo che fa il lavoro sporco per conto dei capi.

E ancora a ottobre 2023 la Procura di Lecco sequestrava ben 7mila dosi di droga spacciate a Lecco e dintorni in poco più di 3 anni. Un “giro d’affari” illecito del valore di almeno 285mila euro: soprattutto cocaina, ma non solo: anche hashish ed eroina. Tra gli acquirenti liberi professionisti, studenti (tra cui pure qualche minore) e pensionati.  «Questa organizzazione criminale – ha precisato il commissario capo della Squadra mobile Gianluca Gentiluomo – era ben strutturata, non certo improvvisata e predisposta in modo verticistico, con due ‘capi’ in particolare che rifornivano poi i singoli spacciatori per smerciare in vari luoghi del centro città».

 

DA SAN GIUSEPPE VESUVIANO A BREMBATE…

Pasquale Claudio Locatelli

Questo è insomma il contesto, costellato di eroina, hashish e coca, nel quale gli investigatori per la seconda volta cercano di afferrare la pista passionale. Ripartiamo allora dal caso Yara, che la Voce aveva ricostruito nei minimi dettagli con una serie d’inchieste a seguito di alcune, autorevoli segnalazioni che ci erano pervenute da giornalisti indipendenti del territorio. «Inutile correre dietro al delitto passionale – questa era la voce ricorrente – andate a scavare fra i boss del napoletano che qui non solo controllano le piazze di spaccio come la Zingonia, dove sembra di essere a Secondigliano, ma intrattengono rapporti altolocati con le istituzioni, a cominciare da elementi apicali della Procura e delle forze dell’ordine.

Non ci volle molto per risalire ai boss. Da semplici ricerche su fonti aperte venne fuori subito che il 12 ottobre del 2010 i finanzieri del nucleo operativo antidroga, arrivati in provincia di Bergamo su ordine della Direzione antimafia partenopea, arrestavano i fratelli Massimiliano e Patrizio Locatelli. I due gestivano un’impresa edile nel campo della pavimentazione. Affari a gonfie vele: dalle migliaia di alloggi per i terremotati dell’Aquila, fino al nuovo centro commerciale di Mapello, nel comune di Brembate.

Anche qui, le coincidenze sono a dir poco spaventose. Il blitz del 12 ottobre era scattato nell’ambito dell’Operazione Box, che sempre nel 2010, a maggio, aveva condotto per la terza volta in manette Pasquale Claudio Locatelli, padre dei due imprenditori napoletan-bergamaschi, nonché elemento di spicco del sodalizio criminale collegato al clan Mazzarella, con solide basi logistiche nella Costa del Sol, in Spagna. Pesanti le accuse, riciclaggio e narcotraffico, anche per i Locatelli junior, la cui azienda fu affidata dalla Dda di Napoli al custode giudiziario Cesare Mauro. I beni sequestrati ammontavano a 10 milioni di euro.

Prima ricorrenza. Quello di Mapello è lo stesso cantiere in cui i cani molecolari hanno più volte fiutato le tracce di Yara, la tredicenne di Brembate scomparsa la sera del 26 novembre 2010 all’uscita dalla palestra e ritrovata cadavere il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola, distante pochi chilometri. Quando Yara viene rapita sono trascorsi poco più di 40 giorni dall’arresto dei Locatelli. E molti fanno notare la ritualità fra le date: 90 giorni esatti dalla scomparsa. Tre mesi.

Seconda ricorrenza. Sponsor ufficiale del Palazzetto dello sport di Brembate, dove Yara si allenava, accingendosi a diventare una stella della ginnastica ritmica, era stata a lungo proprio la Lopav Pima dei fratelli Locatelli.

Terza. Fulvio Gambirasio, padre di Yara, lavora da sempre nel campo della pavimentazione edile. Nel 2020 risultava dipendente della Gamba coperture, ma parve accertato che questa ditta avesse avuto in passato rapporti di collaborazione proprio con la Lopav.

Della Lopav Pima, a Brembate e dintorni, se ne parlava come di un fulcro economico e sociale sul territorio. Riecheggiava ancora, nelle parole della gente,  l’eco delle iniziative “benefiche” messe in campo dagli imprenditori camorristi, come il dono di attrezzature per i parchi giochi dei bambini, o le feste sui campi organizzate con le famiglie dei 140 dipendenti. Senza contare, poi, le sponsorizzazioni sportive e gli spot nelle tv locali. Ma c’è di più: «Nel 2009, prima che scattassero i provvedimenti antimafia a carico dei fratelli Locatelli – raccontano a Brembate – all’open day della Lopav parteciparono membri delle forze dell’ordine, due magistrati, il direttore di un carcere, politici e religiosi locali». E tutto questo benché, come abbiamo visto, fosse già noto alle cronache il profilo camorristico di Locatelli senior.

 

…FINO ALLA COSTA DEL SOL

Infine, altre impressionanti coincidenze. Il 25 novembre, poche ore prima della scomparsa di Yara, si toglie la vita nel suo ufficio della caserma di Zogno, in zona Brembate, il brigadiere Pierluigi Gambirasio, 53 anni. Non lascia nemmeno un biglietto che spieghi il suo gesto. Si siede alla scrivania, estrae la pistola d’ordinanza e si spara in bocca. I suoi familiari negano la parentela con la famiglia di Yara: probabilmente si tratta d’un caso di omonimia. E’ certo, però, che il brigadiere si occupava proprio del traffico di stupefacenti nel territorio della Val Brembana.

La seconda coincidenza, l’ultima, potrebbe forse offrire una spiegazione. Perché ad aprile 2012, sempre nell’ambito della Operazione Box, i militari del Goa della Guardia di Finanza di Napoli hanno catturato a Bergamo quello che è considerato l’informatore della holding Locatelli. Si tratta di Gianfranco Benigni, ex carabiniere del Ros, accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga. Benigni – questa l’imputazione – era stato assoldato dai trafficanti del clan Mazzarella per fornire ai Locatelli informazioni riservate riguardanti indagini in corso, intercettazioni o misure cautelari a loro carico». «L’arresto di Benigni – commentava il procuratore aggiunto di Napoli Rosario Cantelmo – rappresenta l’ultimo sviluppo della Operazione Box, l’inchiesta giudiziaria su un sodalizio collegato col clan camorristico dei Mazzarella e con basi logistiche in Spagna, sulla Costa del Sol, attivo nell’importazione di ingenti quantitativi di hashish destinati allo spaccio, in Campania e nel Lazio». «Il gruppo di narcos italo-spagnoli capeggiato da “Mario di Madrid” (soprannome di Pasquale Claudio Locatelli, ndr) – veniva aggiunto – è ritenuto uno dei principali fornitori di hashish del mercato italiano, in particolare di quello napoletano, controllato dal clan Mazzarella di San Giovanni a Teduccio».

Il pm Letizia Ruggeri

Tutto questo clamoroso, arcinoto contesto non bastò al pm Maria Letizia Ruggeri per seguire fino in fondo le tracce della malavita organizzata nelle indagini finalizzate a scoprire chi aveva massacrato e reso irriconoscibile il corpicino di Yara Gambirasio, utilizzando i classici “codici” della camorra: delitti che devono restare impressi nella storia delle gesta criminali, per servire da “insegnamento” a chiunque volesse provare a fare “l’infame”, collaborando con la polizia.

 

Qualcosa di simile era successo a Melania Rea, platealmente fatta ritrovare in un bosco con la siringa puntata sul petto e le mutandine abbassate, per punire un marito che aveva cercato di “mettersi in proprio”, trafficando “polveri” dall’Afghanistan, dove era stato mandato in missione anni prima. Tutti napoletani, anche stavolta. E anche qui gli inquirenti ascolani preferirono seguire la pista del delitto passionale, condannando il marito che l’avrebbe ridotta in quelle condizioni, cariche di vergogna, senza un reale movente, con la bambina che dormiva in auto lì vicino e poteva svegliarsi da un momento all’altro.

 

 

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L’ASSASSINO DI YARA IN LIBERTA’ HA UCCISO SHARON?

Torniamo ai giorni nostri, alla vita spezzata della trentatreenne Sharon Verzeni la notte tra il 29 e il 30 luglio a Terno d’Isola, due passi da Brembate, da un assassino che, se le indagini continuano con la piega che hanno preso, probabilmente anche stavolta la farà franca.

Già, perché la terza coincidenza fra le coltellate inferte a Yara e quelle che hanno stroncato la vita di Sharon è la presenza, in entrambi i casi giudiziari, della droga. In forme diverse, sì, ma non cambia la sostanza. Se infatti, come abbiamo visto, nel 2010 i clan camorristici del napoletano controllavano indisturbati l’intera Val Brembana, oggi nello stesso territorio, guarda caso, esistono presidi aperti da Narconon, i noti, discussi centri di riabilitazione per tossicodipendenti. E, altro “caso”, Sharon lavorava in una pasticceria gestita proprio dal titolare del Centro Narconon di Lecco, a una trentina di chilometri da Brembate, gemmazione del gruppo internazionale Scientology, il misterioso gruppo para religioso cui la ragazza si era avvicinata, stando alle cronache.

Ad allarmare, su questo gruppo, sono le accuse di essere “un’impresa criminale”, “impegnata in attività di racket” in violazione delle leggi contro la mafia, la Racketeer Influenced and Corrupt Organization (RICO) Act. Lo riporta il ‘Dailymail.com  specificando che la prima udienza del processo è stata fissata al settembre del 2025.

Il sito ‘Deadline’aggiunge che la causa, avviata e condotta dagli studi legali Boies Schiller Flexner e Edwards Henerson Lehrman, ha resistito a numerosi tentativi di Scientology di farla archiviare. Dal canto suo, un portavoce della Chiesa di Scientology ha dichiarato al Daily Mail che le accuse sono “completamente inventate”, “distorte”, “oscene”, “al 100% il contrario della verità”.

Fatto sta che la droga, anche nel caso di Sharon come in quello di Yara,  filtra tra le righe come un ingombrante convitato di pietra. 

Non è difficile, a questo punto, avanzare l’ipotesi che il delitto passionale attribuito a Massimo Bossetti – padre di figli della stessa età di Yara, che non aveva mai conosciuto né frequentato prima la ragazza – sia stato il punto d’arrivo obbligato della Procura di Bergamo, anche per giustificare le decine di milioni dello Stato spesi per effettuare quei 25.000 prelievi del DNA. Senza contare il fatto che il delitto passionale è sempre la “prima scelta”, specie per quelle Procure che, come Bergamo, non hanno in sede una Direzione Distrettuale Antimafia in grado di valutare l’esatta consistenza di una penetrazione mafiosa ormai asfissiante.

Massimo Bossetti e l’avvocato Claudio Salvagni, suo difensore

Del resto, se nel caso di Bossetti tutto il percorso investigativo fosse risultato quanto meno lineare, non ci saremmo trovati oggi con il pubblico ministero che lo aveva condotto, Letizia Ruggeri, a dover rispondere fin dal 2022 di ipotesi accusatorie come frode processuale e depistaggio. Il 24 luglio scorso, all’udienza dinanzi al Gip di Venezia convocata dopo che la difesa di Bossetti aveva presentato opposizione alla richiesta di archiviazione della Procura, il giudice si è riservato di valutare le richieste delle parti. Per l’avvocato Claudio Salvagni, che da anni assiste Bossetti, il pm Ruggeri non avrebbe gestito correttamente il trasferimento e la conservazione dei 54 reperti di DNA, danneggiando le possibilità di dimostrare l’innocenza del muratore condannato all’ergastolo.

«In aula – scrive l’AGI – erano presenti sia Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio della ginnasta tredicenne di Brembate di Sopra sia la magistrata che, per la difesa del muratore, non avrebbe gestito correttamente il trasferimento e la conservazione dei 54 reperti di Dna dall’ospedale San Raffaele di Milano all’Ufficio corpi di reato del tribunale bergamasco. Il giudice è chiamato a decidere se archiviare, come chiesto dalla Procura, o riaprire il caso».

C’è ancora dell’altro, perché – come si legge sul Manifesto – per legge è indispensabile «che gli esami vengano compiuti in presenza anche dei tecnici di parte dell’indagato, in sede di incidente probatorio o, più avanti, in dibattimento. Così non avvenne per Bossetti, quando la procedura venne ribaltata: prima fu trovato il Dna e solo dopo si arrivò a identificare di chi fosse». «Un vulnus che nessuna giurisprudenza del mondo ha saputo sanare e che adesso rischia di ripresentarsi a Terno d’Isola, dove a quasi tre settimane dal delitto ancora non c’è nessun iscritto nel registro degli indagati e “non si esclude nessuna pista”, cioè non si hanno idee sul come e sul perché dell’assassinio».

Prima del procedimento dinanzi al Gip di Venezia, nel 2019 la dottoressa Ruggeri aveva dovuto affrontare un’altra tegola. Finì infatti sotto i riflettori del CSM per rispondere di alcuni addebiti relativi alla presunta violazione del dovere di riservatezza. Mentre svolgeva il suo delicato incarico del corso di uno dei processi che hanno infiammato l’Italia e che ha portato alla condanna definitiva per Massimo Bossetti, la Ruggeri aveva infatti partecipato ad un docufilm.

Tutto ciò, secondo le toghe del Consiglio Superiore della Magistratura, avrebbe generato “dubbi sulla sua indipendenza e imparzialità”, e quindi danneggiato “la considerazione di cui un magistrato deve godere presso la pubblica opinione”.

Il procedimento davanti ai giudici del Csm si tenne il 26 settembre 2019. Sappiamo come vanno a finire questi “procedimenti” dinanzi al Consiglio Superiore: 99,99% di assoluzioni e proscioglimenti. Così andò anche per lei.

 

E’ L’ORA DI MARCHISIO 

Il pm Emanuele Marchisio

La patata bollente, nel caso di Sharon, è ora nelle mani del sostituto procuratore di Bergamo Emanuele Marchisio, piemontese di Pinerolo, dov’è nato nel 1978. Di lui le cronache si erano occupate nel 2017, quando a far rumore furono le accuse a carico suo e di un milite della Finanza per l’ipotesi di aver interrogato illegittimamente un giovane avvocato a porte chiuse, costringendolo a rivelare particolari coperti da segreto professionale riguardanti il suo assistito, un industriale che stava aderendo alla procedura per riportare in Italia grossi capitali dall’estero.

Certo è che dopo il clamore suscitato da quella brutta storia – finita senza conseguenze per lui, of course – Marchisio chiese ed ottenne dal CSM un’aspettativa di qualche mese, presentò anche la domanda per essere collocato fuori ruolo, ma dovette rientrare nei ranghi dei pm dal febbraio 2017.

Torna ora al centro del frullatore mediatico per le indagini sul DNA a tappeto con lo scopo di individuare il presunto assassino di Sharon, vinto che il fidanzato non risulta iscritto nel registro degli indagati.

Ce la farà, Marchisio, a bissare le gesta della collega Ruggeri, schivando le piste che conducono ai traffici di droga gestiti dai clan?

Ipotesi più che probabile. Comunque, noi qui staremo a vedere.


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