Qualcosa avvertivo il dovere, quasi un impeto morale, di scriverla anch’io, su questi quarant’anni della Voce. Io accanto al giornale ne ho trascorsi “solo” 38, sono arrivata nel 1986, la Voce della Campania aveva già ripreso le pubblicazioni nell’84 per iniziativa di Andrea Cinquegrani, che vi aveva mosso i primi passi nel giornalismo “guerriero” sotto la direzione di Michele Santoro. E tornava da Roma dove, pur giovanissimo, aveva fatto esperienze in alcune importanti redazioni nazionali, quotidiani ed agenzie. Chiuso il Roma, dove pure era stato redattore, poi chiusa la prima edizione della Voce, con annessa, rigorosa militanza nel PCI partenopeo al fianco di uomini come Antonio Bassolino, Isaia Sales, Luciano Scateni ed altri, si era trasferito dalla casa paterna di Posillipo in un mini appartamento nella zona di Cinecittà. E da lì aveva spiccato il volo nelle più altolocate koiné del giornalismo italiano, lavorando con autentici miti della carta stampata.
Poi un giorno arriva la notizia: la testata storica della Voce è libera, è caduto ogni vincolo. Così Andrea rinuncia alla nomina di redattore al Mondo Economico che gli era stata appena conferita (al suo posto entrerà Federico Rampini, oggi storico inviato di Repubblica) e decide di investire la sua vita e il suo futuro per riannodare i fili della mission iniziale cui era collegata la nascita del giornale: dare voce, per davvero, ai tanti che, altrimenti, non l’avranno mai.
Due anni dopo arrivo io, qualche breve esperienza di collaborazioni esterne alle spalle ma, soprattutto, un libro in pancia: quel “Li fece maschio e femmina” che Tullio Pironti pubblicherà nel 1987 e che Domenico Rea verrà a presentare in un salone gremito dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, alla presenza del fondatore Gerardo Marotta, un grande, e con Andrea al mio fianco per farmi da “spalla forte”.
Da lì ad oggi tutto è volato in un soffio. Restano alcune pietre miliari ben impresse nel ricordo, alcune anche nella cronaca. A maggio del 1992, quando con una telefonata riceviamo la notizia della strage di Capaci, comprendiamo che qualcosa cambierà definitivamente nella storia del nostro Paese. Ma non sapevamo ancora in che modo, non immaginavamo quanto quella mattanza, seguita poche settimane dopo dalla strage di Via D’Amelio, avrebbe segnato l’inizio di una degenerazione della Giustizia italiana che in questi decenni ha lasciato centinaia di morti sul campo, più di una guerra. Non appariva chiaro, a nessuno credo, che seppellendo tra le lacrime Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avremmo perso non solo loro due, ultimi martiri della magistratura italiana, ma anche la speranza che il sistema Paese potesse reggere a quei durissimi colpi. Oggi sappiamo – o almeno, io lo so e lo documento – che non è andata così. Che la tremenda “lezione” non era stata inflitta solo ai due estremi eroi della magistratura italiana, pronti entrambi a pagare con la vita l’intento di riportare dentro i giusti valori morali la Giustizia italiana, già allora infestata da corvi, ma ancora sostanzialmente sanabile. No, quella “lezione” doveva arrivare alla classe giudiziaria, non meno che al ceto politico. Chiunque proverà a seguire il loro esempio, a rompere certi immarcescibili circuiti di potere, che già a quel tempo vedevano nelle stesse logge magistrati, mafiosi, politici ed affaristi, pagherà. Pagherà con la vita. O, in tempi più recenti, con la carriera, con l’espulsione dalla magistratura.
Nel ’93 invece sembrava a tutti, anche a noi, che fosse in atto una rigenerazione palingenetica del Paese, grazie ai quattro dell’apocalisse, quel pool di Mani Pulite che a Milano stava comminando autentiche torture a ipotetici testimoni e seminando suicidi fra gli innocenti messi alla gogna.
La piccola, sgarrupata redazione della Voce in un vicolo accanto a piazza Mercato stava diventando il crocevia, il punto d’incontro di alcuni fra i più grandi cronisti italiani. Con Beppe Nocera del Giornale, che era tra i più assidui, stringemmo poi una solida amicizia, ma incontravamo anche colleghi come Gian Antonio Stella, Peter Gomez, Antonello Caporale, Goffredo Buccini, Gian Paolo Pansa, Paolo Liguori, Gianni Barbacetto ed i tanti come loro inviati a Napoli dalle grosse testate, perché si era capito che l’epicentro, dopo Milano, era il capoluogo partenopeo, dove un pool altrettanto “militarizzato” stava facendo cadere le teste più notabili e potenti della DC.
Sappiamo come è andata a finire. Quello che non sappiamo, quello che non è stato detto abbastanza, è il prezzo che molti giornalisti di quel tempo hanno pagato per rendere un’informazione quanto più possibile aderente alla verità, almeno quella processuale o documentale, senza abbassarsi di fronte ai timori reverenziali. Noi, di certo, non immaginavamo a che cosa saremmo andati incontro, perché nemmeno con la più immaginifica fantasia avremmo potuto intravedere quella parabola discendente, fino agli inferi, di tanta parte della magistratura italiana. Da perfetti illusi continuavamo a lottare, a testa bassa, c’incontravamo spesso con un giovanissimo Roberto Saviano, che ancor prima, molto prima dei fasti di Gomorra, cominciava a collaborare con la Voce. Marco Travaglio lo incontravamo a Padova, dove Armando Della Bella organizzava incontri sulla cronaca di quei mesi con una presenza oceanica di pubblico. Peppe Lanzetta, altro irriducibile combattente di sinistra, cominciava a pubblicare i suoi primi racconti sulla Voce. Lo stesso farà poi Jacopo Fo, che sceglierà la Voce per il suo romanzo verità “Napoli nel sangue”.
Sembrava che tutto dovesse cambiare. E invece tutti i politici coinvolti in quelle inchieste, tranne i caduti sul campo, non hanno pagato per i reati, veri o presunti, che venivano loro attribuiti. Così come niente hanno pagato i magistrati aguzzini che hanno prodotto la devastazione di centinaia di imprese, vite e reputazioni per indagini e provvedimenti cautelari poi clamorosamente smentiti o finiti in un nulla (per loro). Ciò che la gente non sa è che tutto il prezzo, per quella lucida, rigorosa ricerca di verità, l’hanno pagato alcuni giornalisti. Qualcuno lo sta pagando ancora oggi, dopo trent’anni. E noi, sì noi, siamo tra questi.
Potete crederci: non è facile resistere quando un giornalista della RAI, autore di un articolo sulla famiglia di un noto politico ed ex magistrato, pubblicato dalla Voce , non viene nemmeno denunziato o citato dalla presunta “vittima” (un’insegnante in pensione amica e conterranea di quel politico, la quale, altro che vittima o fantasiosi “patemi d’animo”, a seguito dell’articolo ha spiccato i volo nel partito assumendo ruoli dirigenziali), mentre il direttore responsabile, Andrea, insieme ai pochi averi del giornale (quattro soldi di contributi del Dipartimento Editoria, già anticipati dalla banca), viene crocifisso con una raffica di pignoramenti per quello stesso articolo scritto dal giornalista RAI, con l’ufficiale giudiziario in casa un giorno sì e l’altro pure e l’impossibilità – che dura ancora oggi – di aprire un conto corrente a suo nome. Ancora oggi, da allora…
Basta un grosso politico “colluso” con certa magistratura, oppure un magistrato che querela in prima persona, dall’alto del suo insindacabile potere, per smentire i fatti veri raccontati dal giornalista, e il gioco è fatto: non hai commesso alcun reato, hai sempre lavorato e vissuto onestamente del poco che hai, ma da un giorno all’altro ti sei trasformato in un pericoloso criminale, perseguitato dal “creditore” (in questo caso l’anziana insegnante amica d’infanzia e compaesana del politico, più volte ancora altissimi magistrati in servizio), così come vieni inseguito dalla banca e dalla Procura di Napoli, che arriva al punto di mettere all’asta la testata storica della Voce.
Ora lo sappiamo, abbiamo le prove: allo sfascio della magistratura, descritto con agghiaccianti particolari da Luca Palamara, uno che aveva osato sfidare il Sistema, non ci si è arrivati per caso, no, ci si è arrivati lungo una strada costellata di cadaveri, di feriti gravi che non potranno più rialzarsi.
E da allora non è mai finita.
Un anziano ex collaboratore della Voce, che aveva pubblicato nel lontano 2010 solo l’elenco di magistrati iscritti alla massoneria acquisito a Palmi da Agostino Cordova, benché quell’elenco fosse già stato pubblicato da testate ben più note e facoltose come L’Espresso, L’Unità ed altre, e nonostante il povero Cordova, pur con la sua salute malferma, si fosse presentato con le stampelle al tribunale di Cassino per confermare che sì, quello era il suo elenco, ebbene quel nostro ex cronista ultra settantenne deve ancora pagare dalla sua misera pensione – e lo farà fino alla fine dei suoi giorni – oltre 100 euro al mese ad uno dei magistrati compresi nell’elenco, il quale per negare la sua affiliazione non si è messo contro i grossi media nazionali (non gli conveniva, fino a qualche anno fa era ancora ai vertici di una grossa Procura e faceva molto parlare di sé). No, ha preferito cavare il poco sangue che restava nello scalpo della Voce e del suo anziano cronista.
Certo, ci sono stati premi, partecipazioni esaltanti a rassegne nazionali di giornalismo, gli incontri ravvicinati in casa di Giorgio Bocca e di sua moglie, la dolce Silvia Giacomoni, a Milano, mangiando stracchino appena arrivato da Lodi e parlando di “Napoli siamo noi”, per il quale abbiamo collaborato con loro… Ci sono state trasferte indimenticabili, come quella a Villa Wanda, quando andammo ad intervistare Licio Gelli che ci donò alcune foto inedite e ci aprì le porte di casa proprio nei giorni in cui tremava per il suo giovanissimo nipote, tra la vita e la morte dopo un incidente in moto. E poi il Premio Saint Vincent al Quirinale, anno 2007…
Ma a sommergere tutto questo c’è stato tanto, tanto dolore. Il dolore, le lame dell’ingiustizia che trionfava, dell’abuso impunito che imperversava, che dilagava sulla nostra pelle. Dimenticavo un altro magistrato, partenopeo, che pur non avendo alcun motivo per querelare il giornale, dall’alto della sua potenza costrinse la Voce a pagare qualcosa come 20.000 euro di oggi, solo per lasciarci in pace. Sapemmo poi per caso da un suo avvocato che gli erano serviti per far imbiancare il tinello della villa al mare.
Ma basta, non ci piace fare del vittimismo. Se mi sono soffermata su come la cosiddetta “giustizia” italiana ha maciullato diverse volte la Voce delle Voci, non l’ho fatto per piangermi addosso. L’ho fatto per aggiungere un altro tassello al servizio d’informazione reso al Paese, per il dovere di far sapere qual è l’abisso in cui è precipitata tanta parte della magistratura nostrana. Quella stessa magistratura che, come ho scritto nel libro “La Repubblica delle Toghe”, realizzato con il medesimo intento a prezzo di grossi sacrifici, ogni anno costringe i cittadini italiani a pagare in media 24 milioni di euro alle centinaia di innocenti che in quei 365 giorni ha sbattuto in carcere da innocenti. Mentre la Spagna e la Francia, dati ufficiali, per questo genere di errori si pagano circa 100mila euro l’anno. E i casi si contano sulle dita di una mano.
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