Bella mattinata e grandi nomi al Tribunale di Napoli lo scorso 6 marzo
per confrontarsi sul libro di Rita Pennarola “La Repubblica delle Toghe”.
«Nelle aule di udienza non si può nemmeno parlare di parità tra difesa e pubblica accusa, non esiste neppure un barlume della parità prevista dalla legge, tanto che l’avvocatura può essere considerata totalmente inerme». La rilevante affermazione rientra nell’intervento di un penalista partenopeo tra i più noti sul livello nazionale, Gennaro De Falco, tenuto lo scorso 6 marzo nella Sala Metafora del Tribunale di Napoli, durante il dibattito sulla riforma costituzionale del CSM, proposta nel libro della giornalista Rita Pennarola “La repubblica delle toghe” (La Bussola Edizioni). Con l’autorevolezza che è pari alla sua fama di brillante cassazionista, De Falco ha inteso centrare al cuore quello il problema che sta nella carne viva della giustizia in Italia, la distanza che esiste fra i due magistrati appartenenti alla stessa “casta” e carriera, cioè il giudice ed il pubblico ministero, da una parte, e dall’altra parte i difensori: «inutile negarlo – ha detto – c’è un clima kafkiano, di paura. Che non si deve soltanto ad atteggiamenti di superiorità di una certa parte della magistratura, ma anche, secondo me, ad un complessivo malgoverno dell’avvocatura stessa».
Mostrando poi alla sala un quotidiano del giorno prima, quando si trovava per un’udienza importante in Toscana, l’avvocato De Falco ha letto il titolo a tutta pagina: “A Firenze avvocati in fuga dalla professione. Meglio cercarsi un posto fisso”. Più che eloquente anche il sottotitolo: “Nessuno vuole più fare il praticantato. Pesano precarietà e costi. Nel 2013 in Toscana in 1.351 agli esami di abilitazione. Dieci anni dopo sono meno di 400″. «Questa – ha evidenziato De Falco, che è stato anche firma del Riformista – è solo una delle conseguenze di un sistema giustizia, il nostro, che non esiterei a definire un “teocratico”, per quanto risultano sempre più simili fra loro anche gli aspetti esteriori, ad esempio le toghe rosse, che ricordano i paramenti sacri».
Rischiamo davvero, allora, quella che l’avvocato De Falco ha definito una “cinesizzazione” degli avvocati italiani, costretti dentro un sistema sempre più low cost e privo di effettive tutele?
Secondo Gaetano Montefusco, avvocato e scrittore (celebre il romanzo “Carmela Lo Scalzo”, anticipatore di tanti mali della giustizia nostrana poi venuti alle cronache), il pericolo della “cinesizzazione” esiste, «specialmente oggi – ha rimarcato Montefusco – con il dilagare del processo telematico, quando non hai nemmeno la possibilità di guardare in viso il giudice, né la tua controparte. Ma – ha aggiunto – questo problema è antico, perché gli avvocati sono per loro stessa natura un fattore di contrasto al potere». Quanto poi al tema posto nel libro di Pennarola, che fa coincidere l’inizio della fase degenerativa della magistratura italiana con le stragi del ’92 e ciò che ne conseguì sotto il profilo politico e giudiziario, Montefusco si è detto d’accordo.
In particolare, l’avvocato-scrittore ha ricordato quello che ha definito “lo strapotere” dei pm di Mani Pulite e come «lo stesso Berlusconi, un leader politico con un forte consenso popolare ed una maggioranza solida, non sia mai riuscito ad ottenere nemmeno che l’elezione dei membri del CSM avvenisse per sorteggio». «Questo ci dà la dimensione di quanto sia forte il potere giudiziario in Italia, ma non dobbiamo dimenticare – ha concluso Montefusco – che anche nell’avvocatura ci sono gruppi di potere, il che certamente non favorisce una dialettica alla pari con la magistratura».
Di un «calo profondo della fiducia nella magistratura in Italia» ha parlato senza mezzi termini l’unico magistrato presente tra i relatori, Nicola Graziano, definito dall’autrice del libro «il giudice che onora la sua professione, un modello». «Ma su questo calo – ha aggiunto Graziano – devono essere per primi i magistrati ad interrogarsi. E’ un dovere, che anche io sento come magistrato e come cittadino. Certo, ci sono tanti colleghi che definirei eroi, eroi silenziosi, tuttavia non possiamo consentire che qualcuno resti chiuso dentro il suo mondo ed assuma posizioni che non sono difendibili».
Sulle diverse proposte di riforma della magistratura, il giudice Graziano ha poi dichiarato: «come ho avuto modo di affermare più volte, sono favorevole alla separazione delle carriere, ma intanto auspico che già adesso, subito, venga attuato il diritto di tribuna degli avvocati nei Consigli giudiziari. Voglio dire che se un giudice rispetta i tempi, non fa aspettare magari per ore gli avvocati e le parti, arrivando in ritardo, quel giudice non ha nulla da temere se in Consiglio siedono avvocati con diritto di tribuna. Sono regole normali, di rispetto ed anche di educazione, ma troppo spesso vengono violate».
Il grande rispetto del giudice Graziano per i difensori va anche oltre. «Nella mia carriera – ha inteso sottolineare – ho avuto l’onore di confrontarmi con grandi avvocati e questo scambio è stato sempre assai proficuo, reciprocamente, da loro ho imparato tanto». In sostanza, «è questo concetto, questo senso di umiltà, ciò che la magistratura italiana dovrebbe recuperare. Ed è proprio «dalla mancanza di questa umiltà, della capacità di confrontarsi alla pari, che nasce il sentimento di sfiducia nei cittadini». «In una simile situazione – a aggiunto il giudice – mi aspetto una protesta dell’avvocatura, più vibrante ed efficace». E qui la testimonianza a bruciapelo del penalista De Falco, che ha acceso la sala: «Una volta ho protestato per il grande ritardo del giudice, solo io tra tutti i difensori… alla fine quella causa l’ho persa!». «Chiunque sia stato – ha risposto Graziano – un caso come questo rappresenta un esercizio volgare della giurisdizione, non è ammissibile».
Parole chiare, coraggiose e dirette, anche sulle possibilità effettive di riformare la magistratura. «Tutto il sistema giustizia beneficerebbe di grossi miglioramenti se vi fosse una affettiva applicazione delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati – ha aggiunto il giudice Graziano – né vengono pienamente esercitate quelle sulla responsabilità disciplinare». «Tanto è vero che, se andiamo a guardare le valutazioni di professionalità, troviamo l’incredibile dato del 99% di valutazioni positive, senza che vi sia alcuna verifica interna».
Restando in tema di ipotizzate riforme, sui test psico-attitudinali per l’ingresso in magistratura, di cui tanto si parla, Graziano non ne vede l’utilità, «perché nella vita, nel corso degli anni, si cambia e quei test si svolgono già sul campo, nell’attività quotidiana». In conclusione, oltre ad essere favorevole ad una possibile revisione dell’articolo 104 sulla composizione del CSM, proposta nel libro, il giudice Nicola Graziano ritiene che intanto vadano applicati altri correttivi. Oltre al diritto di tribuna, cita la necessità di rendere impossibile proseguire la carriera per quei magistrati che non rispettino le regole. «E qui – aggiunge – arriviamo ad un grande alibi cui ricorrono in tanti: qualità o quantità delle sentenze. Volete dieci sentenze non approfondite, o una sola in dieci anni, ma che sia un capolavoro? Io dico invece che è proprio questa la grande sfida che deve saper cogliere il servizio giustizia. Perché questo è la magistratura: un servizio ai cittadini e al Paese».
«Si contano sulle dita di una mano – ha esordito Angelo Pisani, avvocato, scrittore e presidente del Movimento NOI Consumatori, intervenuto subito dopo il giudice Graziano – i magistrati che non solo eseguono correttamente il proprio compito, ma sanno farlo con umanità, animati da principi e valori, come Graziano». «Proprio per questo – ha incalzato Pisani con il consueto piglio deciso – oggi l’unico sistema punitivo in Italia è incarnato solo dalla magistratura, detentrice di un potere a confronto del quale quello della politica è niente. Anche perché i politici cambiamo, ma i magistrati restano. E siedono nei ministeri con potere legiferante, altra anomalia inammissibile».
Ed eccolo arrivare, quindi, il gran timore, la paura: «Tutti – dice Pisani – temono la magistratura, i cittadini, i giornalisti ed anche noi avvocati, che pure, almeno sul piano numerico, siamo superiori e spesso anche più preparati, ma ciò nonostante molto spesso facciamo passi indietro, non riusciamo nemmeno a confrontarci coi giudici. Non parliamo poi dei politici che hanno provato a cambiare il sistema giustizia, sappiamo come è andata a finire con Berlusconi». Staffilate finali alla giustizia civile «che non funziona – tuona Pisani – vi dico solo che oggi i giudici di pace a Napoli stanno rinviando al 2026 anche cause da mille euro…!».
L’incontro era stato aperto dai saluti istituzionali degli organizzatori. Per il Sindacato Forense l’avvocato Giuseppina Fusco, che ha ricordato alcune modifiche proposte dalla riforma Cartabia, specie in fatto di spoil system o porte girevoli tra magistratura e politica. Sulla riforma proposta nel libro, che prevede di riportare in parità numerica i componenti togati e laici nel CSM, l’avvocato Fusco ha poi affermato: «prima di proporre una riforma della magistratura calata dall’alto, auspico una presa di coscienza da parte della magistratura nella sua complessità e dei magistrati che operano sul campo, per un recupero di dignità della loro stessa funzione e per sanare quel sentimento di sfiducia crescente dei cittadini nella magistratura, che rappresenta un problema gravissimo per la democrazia».
Guido De Maio, presidente Unione Italiana Forense, ha analizzato a fondo molte parti del libro, soffermandosi in particolare sulle parole finali del saggio, su quella dedica in memoria del piccolo Davide Pavan, morto in un omicidio stradale, con i genitori convocati dallo Stato a pagare una tassa per pulire dalla strada il sangue del bambino e l’omicida già libero, dopo il patteggiamento. «La mia non è carenza di garantismo, la critica non era certo rivolta alle norme sul patteggiamento, bensì alle pene risibili attualmente in vigore per il delitto di omicidio stradale, che a mio avviso dovrebbero essere riviste».
Nicola Cioffi, decano dell’avvocatura partenopea, un fiero animo radicale che regge all’usura del tempo, grazie anche alla sua lunga vicinanza ad un maestro del garantismo come Mauro Mellini, con la sua Camera Europea di Giustizia ha portato in sala l’esempio vivente di una battaglia contro la protervia di certa magistratura, che tuttora conduce in punta di diritto.
Gran parte dell’attesa in sala, a dirla tutta, era per l’intervento del giornalista RAI Geo Nocchetti, volto noto della tv, apprezzato per la sua indipendenza non meno che per il coraggio delle sue inchieste.
«Quella portata avanti in questo libro di Rita Pennarola – ha esordito Nocchetti – è una battaglia delle Termopili ed io oggi sono qui a prendermi una parte di sconfitta, perché l’intervento dell’avvocato De Falco mi pare paradigmatico in tal senso». «Consiglio a tutti – ha poi proseguito – la lettura di un saggio quasi introvabile di Mario D’Elia, Edizioni ERI, dal titolo “Origini e funzioni del Diritto”. In questo saggio D’Elia dice esattamente ciò che ha appena affermato l’avvocato De Falco, cioè che il diritto nasce come divinazione. I primi ad amministrare il diritto sono i sacerdoti, il diritto quindi coincideva con l’etica, presunta, la morale, presunta, e il potere, presunto, che ti dava il Padreterno».
Ricordando che dopo la laurea in giurisprudenza ha seguito la sua vocazione di giornalista andando contro la volontà del padre, il quale, allievo di Renato Capozzi, lo voleva invece magistrato, Nocchetti ha poi così continuato: «Ci hanno abituati a comprendere che la grande conquista del mondo moderno è la separazione è tra lo ius naturalis e lo ius positivo, quindi tra morale e diritto, e finalmente potevamo per esempio spiegare ai cattolici integralisti che la legge sull’aborto non obbliga ad abortire, ma depenalizza una situazione che non è necessariamente governata dalla morale». «Eppure, l’avvocato De Falco paventa di nuovo la confluenza, che nel caso della Cina, secondo me, è solo apparentemente politica. Posso dirlo perché sono nipote di Massimo Caprara, segretario particolare di Togliatti, e sono quindi cresciuto tra due figure molto ingombranti, educato da mio padre all’autocrazia del diritto, mentre per mio zio il diritto era, come diceva Marx, l’espressione della classe dominante, quindi assolutamente incodificabile, chi comanda detta le regole».
In tema di costituzionalità, dure e chiare le parole di Geo Nocchetti su alcune recenti norme. «L’aver accettato, voi avvocati, il Codice Rosso, ha significato accettare un incostituzionale doppio binario, nel quale si parte dal presupposto non dell’accertamento della verità, ma si parte dal presupposto che bisogna accettare solo ed esclusivamente le dichiarazioni di una sola parte, di una sola persona, alla quale viene dato credito a prescindere. Cioè si crea una presunzione iuris e de iure di genere, ma nessuno ha il coraggio di dirlo. In una sentenza del 2019 una magistrata arriva ad affermare che, anche in mancanza di prove esogene, se il racconto della donna ha una sua logica, quella donna può essere creduta…».
Tornando al cuore del problema posto dal libro, la modifica dell’articolo 104 della Costituzione sulla composizione del CSM (attualmente con i due terzi di togati contro un solo terzo, figurativo, di laici), rivolto all’autrice Nocchetti ha poi affermato a gran voce: «Rita, il problema dei due terzi contro un terzo… ma noi siamo già nell’incendio, la casa sta già bruciando, ha ragione l’avvocato De Falco, bisogna fare delle cose subito, e ha ragione quando dice che l’avvocatura, e io aggiungo il giornalismo, hanno le loro responsabilità». «Nella situazione in cui siamo – ha concluso – la riforma che auspica Rita, di riportare in parità laici e togati nel CSM, è solo una parte del problema. Prima bisogna ritrovare una cultura: del giornalismo, della giurisdizione e dell’avvocatura».
«Pubblici ministeri e giudici attualmente si sentono garantiti a vicenda». Più che puntuale l’osservazione del penalista Errico Frojo, in quanto componente dell’Osservatorio Camere Penali sull’ordinamento giudiziario. «E questa reciproca tutela – ha aggiunto – comporta molto spesso la violazione da parte del pm dell’articolo 358 del Codice di procedura penale, che lo obbliga a raccogliere anche le prove a favore dell’indagato. Io non credo alla possibilità, evocata dalla collega Fusco, che la magistratura possa auto-riformarsi, questo compito secondo me non può essere lasciato solo alla sensibilità dell’Ordine giudiziario». «Occorre – ha concluso l’avvocato Frojo – che vada in porto la riforma sulla separazione delle carriere fra inquirenti e giudicanti, sul modello anglosassone, con pubblici ministeri che sono effettivamente alla pari, anche come carriera, dei difensori».
Le conclusioni sono state affidate al penalista Alessandro Gargiulo, battagliero esponente del Movimento Forense che tante volte abbiamo visto insieme a Rita Bernardini e Sergio D’Elia, animatori di “Nessuno tocchi caino”, battersi per un trattamento più giusto e più umano all’interno delle carceri. Non a caso, Gargiulo ha inteso introdurre il suo intervento con un ringraziamento pubblico a Geo Nocchetti per la risonanza mediatica che ha dato con un servizio del TG3 nel corso dell’ultima manifestazione dinanzi al carcere di Santa Maria Capua Vetere «nel quale – ha affermato Gargiulo – a seguito di un’ispezione abbiamo trovato una situazione terrificante».
Nette le sue considerazioni anche sulle ipotesi di riforma, il 104, ma anche quelle avanzate dagli altri relatori: «Non basta secondo me procedere per step, come ha indicato il dottor Graziano, partendo dal diritto di tribuna. E anche a prescindere dal numero dei togati presenti nel Consiglio Superiore, sappiamo già che attualmente i meccanismi dell’azione disciplinare non funzionano, mentre i laici continuano a fare da ago della bilancia all’interno delle correnti. Vi chiedo, abbiamo mai visto un non togato protestare all’interno del CSM? Mai, mai successo».
La conclusione ha inteso tracciarla, Alessandro Gargiulo, riprendendo l’evocazione di Magistratura Democratica che nel primo intervento del dibattito era stata pronunciata dal presidente UIF, Guido De Maio. «Nel 1983– ha ricordato Gargiulo – un giovanissimo magistrato di appena 27 anni presentava all’interno di un consesso MD il suo articolo appena pubblicato sull’organo di quella corrente, “Questione Giustizia”. Nell’articolo quel magistrato affermava, in sintesi, che la funzione politica dell’opposizione al governo era venuta meno, quindi questo compito era stato devoluto alla magistratura. Ebbene, quel magistrato sarebbe poi diventato un protagonista della stagione di Mani Pulite. Il suo nome è Gherardo Colombo e sappiamo anche che, solo in tarda età, è stato folgorato dal garantismo sulla via di Damasco». «Non ho dunque – ha concluso – speranza in grandi cambiamenti della situazione attuale e sono d’accordo con i relatori che mi hanno preceduto quando hanno posto l’accento sul cambiamento culturale. Riforme o non riforme, l’unica speranza per me resta la cultura».
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