Ormai è provato. Il nostro SSN sopravvive solo grazie al lavoro di operatori e alla fiducia dei cittadini. Ogni giorno i nostri operatori continuano a garantirne il funzionamento e i cittadini a rivolgersi ai servizi per essere curati. Bene a leggere i dati di funzionamento. Possiamo concludere che forse siamo diventati più poveri ma certamente continuiamo ad essere abbastanza sani. Questo comporta che abbiamo sempre meno risorse da investire per la salute dei cittadini. Ma la nostra sanità pubblica per quanto tempo potrà continuare a funzionare? Intanto boccheggia, opera con sempre meno personale e senza i necessari adeguamenti tecnologici e strutturali. E pensare che l’OCSE ci colloca nel suo report annuale ancora al di sopra della media europea.
Lo dicono i dati. L’OCSE ha pubblicato i dati accorpati per la, in termini di esiti clinici, del funzionamento dei servizi di assistenza di tutti i paesi europei. E l’Italia riceve un giudizio ancora positivo, certamente al di sopra della media europea.
Questo dato è certificato nonostante il basso numero di posti letto ospedalieri e il sostanziale sottofinanziamento, appena mascherato dal risibile incremento formale degli stanziamenti nel settore che non riesce a compensare né la svalutazione né l’aumento dei costi causato dalla micidiale commistione di pandemia e guerra in Ucraina.
Senza parlare poi del mancato rinnovo dei contratti di lavoro del personale, la mancanza dei quali contribuisce enormemente alla fuga degli operatori dal servizio pubblico. Aumenta infatti una sorta di disaffezione dei giovani laureati verso il lavoro nel SSN, che una volta era la massima aspirazione dei giovani medici. Ma erano altri tempi. I giovani medici oggi, pur presenti in termini di numerosità, non partecipano più ai concorsi che le ASL e le AO bandiscono in tutte le regioni d’Italia. Guardano con crescente interesse alle opportunità offerte dalla sanità privata o si lasciano irretire dalle offerte che vengono dall’estero. Queste sono numerose e sempre più gratificanti per salari e per opportunità di ricerca e di carriera. Alle tradizionali sirene europee (Regno Unito, Francia e Germania) recentemente si sono aggiunti persino i ricchi paesi arabi, che stanno proponendo ricchi contratti di lavoro ai nostri medici e infermieri … proprio come hanno già fatto nello sport con nostri calciatori e allenatori.
Il ministro della salute Schillaci ha chiesto, nell’ambito della discussione sulla bozza della prossima legge finanziaria, altri 4 miliardi da aggiungere ai 2,5 già previsti, fondi che sarà arduo trovare. La Sanità non ha disponibilità tali da cui si possono sottrarre risorse da destinare a gratificare e trattenere il personale. Il rinnovo dei contratti che tarda a venire, sarebbe l’unica arma per trattenere un personale sanitario ormai esasperato e stressato da ritmi di lavoro insostenibili dal punto di vista dell’impegno del proprio tempo ma anche per l’inevitabile decadimento delle competenze conseguente alla cronica carenza di tempo da dedicare alla formazione. Formazione che dovrebbe essere continua per poter garantire i livelli di competenza necessari per continuare ad erogare una buona assistenza. Senza comincerebbe anche il declino organizzativo.
E pensare che qualche politico continua a pensare che i fondi già destinati alla sanità possano essere ancora tagliati, come si è sempre fatto, per finanziare misure considerate politicamente più redditizie.
La priorità dovrebbe essere implementare gli investimenti per il reclutamento del personale e per migliorare tutti gli aspetti connessi a prevenzione, salute mentale e servizi di prossimità, soprattutto dopo la drammatica esperienza della pandemia.
L’unica strada possibile sarebbe quella di riprendere il percorso avviato dal governo Draghi con il PNRR e attivare la transizione verso la Sanità Territoriale. Altro che tagliare risorse … bisogna investire. Ciò anche perché così facendo si potrebbe, in futuro, arrivare a razionalizzare la spesa e ottenere così veri risparmi ottenuti tagliando i rami secchi dell’organizzazione e la duplicazione di prestazioni, accorpando le competenze della sanità e dei servizi sociali. Esattamente ciò che si voleva ottenere con l’apertura delle case e degli ospedali della comunità indicati dal piano. C’erano persino i soldi allocati dalla UE per rendere possibile questa scelta.
Ma il nostro governo ha ben pensato di rivedere i piani stabiliti rinunciando persino a parte degli stanziamenti, al solo scopo di continuare ad andare verso un sistema fondato sulla sanità privata. Per fare ciò è bastato prosciugare le risorse disponibili, non garantire il turn over del personale e far crescere a dismisura le liste d’attesa sia per i ricoveri ospedalieri che per le singole prestazioni. Così la transizione verso il privato è subdolamente fatta.
Già oggi per avere una TAC si può tranquillamente aspettare oltre sei mesi o, invece, si può avere in pochi giorni rivolgendosi a pagamento ad un centro privato. Centri spesso gestiti dagli stessi operatori che lavorano anche nel pubblico. Siamo di fronte a un evidente imbarbarimento dell’etica dell’assistenza ed a un’inaccettabile regressione delle conquiste sociali del secolo scorso. Processi questi favoriti dall’indifferenza dei media e dalla disaffezione degli operatori e persino quelli più giovani nei confronti del lavoro nel servizio pubblico.
Ma qualcuno può veramente ancora pensare che in sanità ci siano margini di risparmio? Soprattutto dopo i tagli perpetrati negli ultimi vent’anni, dopo le devastanti azioni di penalizzazione finanziaria fatte nei confronti delle regioni che non erano in condizione di garantire le prestazioni LEA, dovute per legge. Una politica ottusa ha infatti “punito” con tagli di risorse, anziché stanziare fondi aggiuntivi, per consentire un recupero del gap organizzativo. Naturalmente esercitando un rigoroso controllo centrale, magari non affidato alle stesse regioni che avevano mal operato. E se penalizzazioni dovevano essere comminate, queste potevano e dovevano essere di tipo politico, fino a commissariamenti ad hoc. Sottraendo allettanti ambiti clientelari a quei decisori che non erano stati, e probabilmente non lo sono ancora oggi, in grado di garantire una corretta gestione delle risorse.
I professionisti ci sono, anche in periferia. Abbiamo anche nel meridione le capacità necessarie per fare i necessari salti organizzativi. Lo dice l’OCSE, lo dicono tutte le agenzie di valutazione e di analisi di dati sanitari e ciò anche di fronte alle criticità esposte nel report.
Ma alcuni dati sono ancora molto positivi. Come il dato sull’aspettativa di vita alla nascita e quello sul tasso di mortalità, entrambi risultano migliori in Italia rispetto alla media europea. E soprattutto rispetto a Francia e Germania, i due paesi europei economicamente comparabili al nostro. Ma comunque la spesa sanitaria che il nostro Paese sostiene in termini di Pil è largamente inferiore a quella media europea. La forbice si allarga ancor più se si guarda però al dato di Francia e Germania, che ci superano ampiamente nella percentuale di risorse investite rispetto al loro PIL nazionale. Il quadro non cambia se si valuta la spesa sanitaria pro capite. L’Italia spende in media 2609 euro (e questa non è una media nazionale, ricordate che pesa anche il differenziale nord/sud) a fronte di una media europea di 3159 euro. Anche in questo caso il gap diventa impietoso se si considera il dato di Francia e Germania, che spendono per ogni abitante molto di più fino a 4831 euro.
Cresce anche la spesa definita “out of pocket”, ossia quella spesa che gli italiani sostengono di tasca propria per ottenere servizi che non riescono ad avere dal SSN. È questo un ulteriore segnale di quella difficoltà di accesso ai servizi che produce la necessità di ricorrere a prestazioni a pagamento erogate da privati.
Qualcuno può veramente credere che tutto ciò accada per puro caso?
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