È una tendenza che dura ormai da molti anni e che non accenna a diminuire. Parliamo del fenomeno della nuova forma di migrazione dal sud verso il nord Italia. Si tratta questa volta di giovani laureati e dei migliori talenti che, sistematicamente, emigrano al nord o in altri paesi europei. Perché? Forse perché al sud quei giovani non trovano opportunità di vedere valorizzate le competenze acquisite; forse perché persistono insulse logiche clientelari, nepotistiche e negazione di ogni forma di meritocrazia. I dati dicono che oltre 40mila giovani laureati vanno via dal solo meridione ogni anno. Lo dice con chiarezza il report SVIMEZ, lo dicono tutte le altre agenzie di ricerca sociologica o di statistica. Assistiamo a un paradosso, che è ormai tanto evidente quanto deprimente. Il fenomeno della “nuova migrazione” persiste persino oggi, quando i tassi di occupazione ricominciano a crescere anche al sud sotto la spinta del turismo. Al sud l’emigrazione del personale più qualificato non accenna a ridursi. Senza competenze vere non c’è possibilità di crescita. Questo lo abbiamo imparato nel tempo, questo lo sanno bene sia i decisori politici che gli amministratori. L’ultimo report SVIMEZ analizza, con dovizia di particolari e preziosi commenti, i dati del 2023 rivelando che il Mezzogiorno riesce ancora a tenere il passo con il resto del Paese. Ma a questa tendenza non corrisponde alcun accenno di recupero della voragine creatasi a partire dal 2008.
Tutto ciò è scritto nero su bianco, e questa tesi è contenuta nelle anticipazioni sul Rapporto. Lo ha detto anche il ministro Raffaele Fitto, nell’ambito della conferenza stampa di presentazione dei dati socioeconomici raccolti da SVIMEZ. I dati dicono che il PIL nel 2023 crescerà dell’1,1%, con una forbice che, dal punto di vista territoriale, va dallo 0,9 del Sud fino ad arrivare all’1,2% del Centro Nord. Ma gli stessi dati dicono anche che nel 2024 e 2025 l’economia italiana crescerà ancora di un ulteriore 1,4%.
L’andamento del divario territoriale sarà strettamente correlato ad una serie di variabili. La prima variabile che condizionerà la crescita, sarà quella che fa riferimento allo stato di attuazione del PNRR, ma soprattutto alla capacità complessiva di spendere bene i fondi messi a disposizione. L’abbondanza di risorse disponibili è un’opportunità irripetibile e che appare ora pericolosamente in bilico. Il corretto utilizzo di quei fondi sarà determinante in futuro per consentire il rientro dell’inflazione e il suo successivo controllo.
Nel 2022 si era già registrata in Italia una crescita del PIL maggiore della media europea (il 3,7 rispetto al 3,5), da notare che il Mezzogiorno risultava perfettamente allineato al dato sull’incremento della ricchezza nazionale. I dati sull’occupazione indicano anche una consistente ripresa del Sud. Ma parliamo di dati che non tengono conto del buco che si era creato di quasi 300.000 posti di lavoro in meno dal 2008 ad oggi.
“Nel Rapporto si legge che questi dati lasciano intendere grandi potenzialità e altrettanto grandi rischi per il Mezzogiorno. Insomma, si registrano come sempre luci e ombre. Le potenzialità andrebbero aiutate e accompagnate purché si evitino i rischi. Il tutto richiede massicci interventi di riprogrammazione … che stiamo portando avanti”. Questo è quanto ha dichiarato Raffaele Fitto, ministro agli Affari Europei, del Sud, delle Politiche di Coesione e del PNRR. Il Ministro ha anche anticipato alla stampa che firmerà presto un protocollo di intesa per istituzionalizzare la collaborazione del suo ministero con lo Svimez.
Il Mezzogiorno risulta quindi schiacciato tra la necessità di rientrare dall’alto tasso di inflazione (che deprime i consumi) e il rischio di dover fronteggiare le politiche antirecessive delle autorità monetarie europee. Queste scelte deprimerebbero ancor più sia gli investimenti che una possibile ripresa economica. Servirebbe invece una poderosa politica di investimenti (alquanto improbabile) per consentire al sud di uscire da questa trappola letale. E certamente non aiuterà l’attuale ipotesi di autonomia differenziata, che lascerebbe inalterate, nel migliore dei casi, tutte le attuali diseguaglianze.
I dati presentati dicono anche nel 2023 i consumi delle famiglie cresceranno al sud poco più dell’uno per cento rispetto ad un, comunque modesto, 1,7%, previsto al centro nord. D’altronde anche nel 2022 i consumi delle regioni meridionali, soprattutto per il comparto dei beni alimentari, hanno fatto segnare una netta distanza dal resto del Paese. E niente di buono fanno presagire le scelte fatte nelle ultime proposte del governo che vanno nella direzione di una drastica riduzione dei trasferimenti, a cominciare da quelli destinati alle politiche sociali.
Ancora una volta il sud si trova svantaggiato in un passaggio particolarmente complesso della nostra politica economica. Si rischia di veder riaprire la forbice dei differenziali di produzione della ricchezza che sembravano finalmente congelati. Molto dipenderà nei prossimi mesi dagli investimenti che si riuscirà a portare a termine e questi, a loro volta, dal corretto utilizzo dei fondi del PNRR. Invece si va verso una revisione dei piani di investimento che rischia di veder cancellate alcune voci vitali con la vacua promessa di trovare i fondi nelle pieghe del bilancio ordinario, fondi che non ci sono. Ciò comporterà un rallentamento nell’attuazione dei programmi previsti togliendo al Mezzogiorno l’unica leva per lo sviluppo. Il quadro si complica ulteriormente se aggiungiamo che la gestione dei fondi ancora utilizzabili è ora nelle mani dei governi regionali, notoriamente incapaci di accettabili azioni programmatorie.
Il secondo nodo problematico riguarda le politiche per il lavoro. La perdita di potere di acquisto dei salari è stata nel Mezzogiorno molto maggiore rispetto alle altre regioni, anche se c’è stata una ripresa dell’occupazione. Ma, nonostante ciò, restano aperte le enormi questioni del lavoro povero e dei bassi salari.
Sempre secondo le stime Svimez sono oltre tre milioni i lavoratori che in Italia guadagnano meno di 9 euro all’ora. Ossia meno del livello minimo salariale di cui si sta discutendo. Di questi tre milioni, molti vivono e lavorano nel Mezzogiorno. E non va dimenticata la persistenza del lavoro nero. Questo, infatti, rischia di falsare di molto le statistiche ufficiali.
Ma ciò che preoccupa maggiormente è l’emorragia dei cervelli giovani che sta letteralmente dissanguando il sud. Tra il 2001 ed il 2021 circa 460.000 laureati si sono trasferiti nelle regioni più ricche del nord del paese alla ricerca di opportunità. Nel 2022 la quota di questi nuovi migranti meridionali, formati e con laurea, ha superato il numero di quelli che migrano e che non hanno un titolo di studio. Questo prosciugamento di intelligenze, unito alla componente demografica, condurrà nei prossimi anni a una ulteriore riduzione di competitività.
Questa prospettiva ci dice molto sulla gravità del divario strutturale che, stavolta, rischia di diventare irreversibilmente.
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