Sono generalmente timidi e insicuri, bravi ragazzi, ma che frequentemente si chiudono in sé stessi o nelle loro stanzette, senza più curare le relazioni umane né quelle amicali. Sembrano essere ragazzi con pochi problemi che fanno una vita che potremmo definire “normale”. È questa la condizione di un numero crescente di adolescenti … che decidono di togliersi la vita. È difficile, molto doloroso al punto da apparire disumano persino immaginare la loro condizione, gli adulti li guardano inorriditi e senza possibilità di capire le motivazioni del loro gesto estremo. La verità è che non se ne parla abbastanza. Prevale una sorta di pudore che accompagna il loro lacerante senso di colpa.
È il dramma dei giovani che si tolgono la vita. Oggi una vera emergenza sociale in molti Paesi occidentali. Italia compresa. Un gesto estremo compiuto ormai da più di 500 giovani ogni anno. Senza contare che per ogni suicidio riuscito, almeno altri 4-5 risultano essere tentativi sventati. Secondo i dati diffusi dall’OMS, il suicidio è la seconda causa di morte in Europa nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, dato secondo solo alle morti per incidenti stradali. Ce lo dicono i dati dell’ISTAT, lo confermano i report dei servizi di neuropsichiatria infantile.
Riportiamo la storia di Roberta, madre di un adolescente suicida che racconta così la sua esperienza, in una lacerante testimonianza raccolta dalla stampa «… era un pomeriggio di giugno. Con mio marito e mia figlia più piccola eravamo andati a pranzo fuori. Livio non era venuto con noi, come spesso ultimamente preferiva fare, restando a casa da solo. Quando mio marito rientrò per primo trovò il portone aperto. Chiamò più volte Livio, forse per sgridarlo. Ma dentro casa c’era solo silenzio. Allora raggiunse il giardino, lo chiamò ancora, finché intravide un’ombra sotto l’albero di albicocche. Livio era lì, penzolava proprio dal ramo dove da piccolo si dondolava con l’altalena, ma stavolta aveva una corda al collo. Il suo respiro era svanito. E con lui andò via il senso della nostra vita con l’illusione di essere una famiglia normale e serena. Come aveva potuto compiere un gesto del genere a 16 anni?». Roberta e la sua famiglia non si riprenderanno più da quel trauma. E non riusciranno a darsi una risposta alla domanda poi ripetuta innumerevoli volte “come è stato possibile che, fino a quel momento, nessuno di noi si sia accorto che qualcosa non andava?” Erano certi che la vita di Livio corresse normalmente. Aveva amici, una ragazza che lo amava, una famiglia che lo adorava>>.
È questo uno dei grandi paradossi dell’Occidente ricco. La qualità della vita continua a crescere e lo fa parallelamente alla ricchezza di una comunità, ma allo stesso tempo cresce anche il numero di chi decide di togliersi la vita. Soprattutto diminuisce l’età media di chi decide di togliersi la vita. Negli Usa il tasso di incidenza dei suicidi tra i giovani è più che raddoppiato dal Duemila a oggi. In Italia non siamo ancora arrivati a quei livelli, ma i numeri sono in costante aumento. Le morti coinvolgono in egual misura adolescenti maschi e femmine; ma se i primi scelgono in genere soluzioni violente – come l’impiccagione, il defenestramento o il buttarsi sotto un treno – le coetanee ricorrono all’avvelenamento o all’overdose di farmaci da banco.
Livio prima di morire aveva lasciato un messaggio “non riesco più a sopportare questo peso”. Poche parole che, inevitabilmente, hanno aperto nel cuore dei suoi cari un abisso di dolore e lasciato tante domande senza risposta. Il primo sospetto è che si vergognava di qualcosa o che temeva di essere giudicato, ma nessuno sa per che cosa. Certamente se si potesse tornare indietro, tutti i suoi cari parlerebbero di meno per ascoltarlo di più, dando spazio alla comprensione delle sue emozioni. Una compagna di classe, dopo la tragedia, ha riferito che Livio a scuola era preso di mira e umiliato. Lo prendevano in giro per il suo peso e per il fatto che aveva una cotta non ricambiata per una coetanea. In realtà non si potrà mai sapere cosa è veramente successo. È, e sarà sempre, difficile dare risposte ai tanti perché che si pongono le famiglie come quella di Livio.
“A differenza di quanto accade agli adulti – dice Antonella Costantino, presidente della Società Italiana di Neuropsichiatria Infantile – nei quali il gesto suicidario è in genere la risposta a una situazione vissuta come negativa, come può essere un fallimento o un abbandono, nei giovani raramente la causa è una sola, ci troviamo di fronte un mix di fattori che risulta micidiale. Si tratta di un gesto raramente programmato, ma agito d’impulso, sull’onda di una forte emozione”.
L’adolescenza è, secondo tutti gli esperti del settore, un’età dicotomica, in cui tutto è bianco o nero. Le emozioni sono assolute e si cercano sempre soluzioni estreme anche a problemi che, in altre età, si stemperano con l’esperienza.
Ma forse il problema vero è che la generazione dei genitori di oggi vuole considerare i figli come amici, proteggerli ad ogni costo, accudirli e li vizia senza educarli o insegnargli a tollerare le frustrazioni … per affrontare la vita. Questi ragazzi infine sono più soli di fronte alle difficoltà e possono facilmente farsi prendere dal panico. Sono emotivamente più fragili e disarmati dei giovani delle generazioni precedenti. Ma attenzione, questo non significa che tutti loro, sotto pressione, possono arrivare a compiere gesti estremi.
La vera sfida si gioca a monte, con la prevenzione, con la capacità dei servizi (e dei familiari, degli insegnanti, della comunità dei pari) di intercettare il malessere fin dal suo esordio. Di prestare attenzione ai cosiddetti warning sign, ossia quei segnali-spia che indicano un pericoloso disagio.
Ma quali sono questi segnali? Un imprevisto calo di performance a scuola, l’apparire più trasandato, il dormire male o il perdere interesse per lo sport e per gli amici di sempre. Insomma, un cambiamento del comportamento. In questi casi bisognerebbe aprire un dialogo e cercare di capire cosa non va. Loro non lo diranno mai
La prevenzione non può essere lasciata solo in capo alle famiglie. Anche docenti, educatori e allenatori, che passano molto più tempo con i ragazzi, possono e devono segnalare comportamenti del genere. Ma nelle scuole e nella società civile si tende a non vedere questo disagio, forse anche perché la sola idea che un ragazzino possa star male, tanto da volersi uccidere, è qualcosa di troppo forte, tragico e disumano, scomodo da concepire.
Bisogna infine aiutare i genitori di questi adolescenti ad uscire dal loro dolore. Con servizi di aiuto psicologico o con gruppi di auto-aiuto, dove possono incontrare altri genitori che hanno vissuto lo stesso lutto e cercare assieme la forza di reagire.
Quello che i ragazzi non sanno è che in molti casi si può anche sopravvivere … ma riportando danni gravi e permanenti, che renderanno la vita che resta loro ancor più infelice.
Per arginare questo fenomeno nel Regno Unito, dove il fenomeno è più diffuso, il governo ha persino chiesto alle case farmaceutiche di ridurre al di sotto della dose letale il numero di compresse o la quantità sciroppo presente nelle confezioni dei farmaci da banco più utilizzati dai giovani per tentare un suicidio.
Walter Di Munzio è psichiatra e pubblicista
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