Sulle tracce di Pasolini nei Sud del mondo

Il Sud di Pasolini, più che un’entità geografica, è stata una categoria poetica, connotata da una dimensione pre-storica, arcaica, che al suo sguardo conservava i caratteri e il fascino del mito. È ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato: un topos letterario e antropologico che affiora fin da Le ceneri di Gramsci, nel poemetto intitolato L’Appennino, laddove Pasolini sente di ritrovare nelle “meridionali voci” il mondo contadino del Friuli della sua infanzia e l’eco di quella “età del pane” che alimenterà uno struggente rimpianto ed una ricerca inesausta delle sue ultime tracce.

In un’ampia recensione a Scritti corsari e alla raccolta di poesia La nuova gioventù – pubblicata sul settimanale “Il Mondo” del 14 agosto del ’75 – Enzo Siciliano colloca il rimpianto pasoliniano non in una metafisica età dell’oro, quanto per una reale “età del pane”, quando gli uomini “erano consumatori di beni estremamente necessari”, evocando in questa recensione il Freud del Disagio della civiltà e il sentimento del limite dell’umanità de La Ginestra di Leopardi.

Un tema ribadito in anni recenti dallo scrittore Giacomo Scotti, che ha ripercorso le tracce del rapporto di Pasolini con la Jugoslavia, e segnatamente con l’Istria: “Era ossessionato dalla minaccia incombente di un “universo orrendo” del potere e del consumo, nel quale avrebbero finito per estinguersi le “storie particolaristiche” e nazionali, sarebbero state crudelmente represse le “diversità”, liquidati il “sentimento”, l'”avventura”, il “romanzesco”, la bellezza; un mondo di “omologazione” tecnologica e di consumismo che avrebbe scatenato l”aggressività individuale'”,

Dal Friuli alle borgate romane, al Meridione d’Italia, all’Africa, all’India, fino allo Yemen e all’Iran “si sono susseguite in Pasolini le tappe di un’ininterrotta epifania del Mito, ovvero della ricerca di nuove incarnazioni della mitologia di un’umanità vergine e primitiva: sempre più a sud, sempre più lontano dall’odiata civiltà neocapitalistica e borghese, verso mondi ancora barbari e incontaminati”, rileva Guido Santato in Pasolini: quale eredità?, gli atti del convegno promosso nel 2005 dall’Agis del Veneto, editi nella nuova collana dei “Quaderni di Cinemasud”.

 

ALLA SCOPERTA DEL MEZZOGIORNO

Questa ricerca di un “universo antropologico”, come lo definisce Stefano de Matteis in un saggio del ’99 sulla rivista “Lo straniero”, è alla base di quella “costante attenzione per il Mezzogiorno d’Italia e i Sud del mondo” che caratterizzerà in misura rilevante la poetica e la creatività cinematografica di Pasolini.

Un Mezzogiorno che nel suo sguardo è sì idealizzato (secondo i critici più severi, in maniera “deformante”) ma non del tutto trasfigurato. Nel Sud d’Italia, e successivamente nel Terzo Mondo, questa ricerca di un diverso e incontaminato universo antropologico si svolgerà in tre fasi successive: giornalistica, culturale, cinematografica.

Un anno cruciale è il 1959: nel reportage in tre puntate dalle spiagge italiane, in collaborazione con il fotoreporter Paolo Di Paolo, pubblicato sul mensile “Successo” con il titolo La lunga strada di sabbia, e nei frequenti viaggi tra l’estate e l’autunno, Pasolini scopre la costa campana, si ferma per una breve vacanza a Ischia (a cui dedica un diario di viaggio), visita la Puglia, Calabria, la Sicilia orientale: da Messina a Siracusa, arrivando a Pachino e poi fino a Capo Passero e a Porto Palo, cioè nell’estremo lembo meridionale dell’isola e dell’Europa, rimanendo entusiasta dei luoghi visitati.

Il suo approccio al Sud si rivela subito molto poetico, rileva Franco Miracco, molto differente da quello che pochi anni prima aveva contraddistinto il Viaggio in Italia di Piovene, che pure si caratterizzava per un taglio sociologico forse più attento. Pasolini si lascia invece guidare dall’intuito e dalle sensazioni, concedendosi il piacere della sorpresa e, nelle pagine più felici del reportage, all’abbandono dell’incanto. Come a Ischia: “Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente. O quasi. Un silenzio meraviglioso è intorno a me”.

Dalla costa, in quello stesso 1959, Pasolini si sposta quindi nell’entroterra, dove ai suoi occhi si materializzerà un “secondo Sud”, più impervio ma non meno suggestivo, che il poeta scoprirà a poco a poco solcando l’Appennino. Dove il silenzio ha un sapore diverso rispetto all’isola verde, e la notte è ancora antica e misteriosa: “Sono sempre più solo: la notte nel Meridione è ancora quella di molti secoli fa”, annota nel suo reportage.

Questa prima, empirica e quasi casuale, esplorazione antropologica nella “terra dell’osso” (per riprendere la definizione ormai classica del Mezzogiorno interno coniata da Manlio Rossi-Doria) si manifesterà per Pasolini con esperienze ed esiti diversi. A Cutro – che in un articolo aveva definito “un paese di banditi” – riceve una querela per diffamazione dal sindaco e il prefetto di Catanzaro chiede l’annullamento del Premio Crotone che era stato attribuito a Pasolini per Una vita violenta. Lo stesso romanzo sarà invece presentato con successo, il 3 settembre, in Irpinia, dove Pasolini riceve un’accoglienza calorosa e unanime: nel capoluogo dai professionisti e dai giovani intellettuali al Circolo della Stampa, e sull’altopiano del Laceno, a Bagnoli Irpino, da un pubblico popolare, nel quale gli sembrerà di ritrovare la povertà ma anche il carattere genuino dei contadini del suo Friuli, ai quali il suo amico David Maria Turoldo, sacerdote e poeta, dedicherà qualche anno dopo, nel ’63, il film autobiografico Gli ultimi, diretto da Vito Pandolfi. Pasolini giunge nella provincia di Avellino, all’epoca una delle più povere e isolate d’Italia, sull’onda emotiva di una lettera piena di genuina passione civile scrittagli da due giovani intellettuali, Camillo Marino e Giacomo d’Onofrio, e per sostenerne l’idea di dar vita ad una rivista di cinema e ad un festival in nome del Neorealismo, condividendone gli stessi “ideali forti”: l’adesione al marxismo, la difesa della «civiltà contadina», l’impegno al fianco dei diseredati e delle classi subalterne. In quell’occasione Pasolini battezza la prima edizione del “Laceno d’Oro”, promosso dalla rivista “Cinemasud”, nata l’anno precedente, a cui Pasolini collabora attivamente – nei primi anni – con articoli, testi inediti, consigli.

Pasolini con Camillo Marino. Sopra, lo vediamo nei vicoli di Napoli

L’impegno culturale di Pasolini nel e per il Mezzogiorno si concretizza in quegli anni anche nella partecipazione a memorabili dibattiti nelle città principali, come Napoli (al cineclub in via Orazio) e a Salerno, dove nel marzo del ’60, al Circolo Democratico, subirà una contestazione ad opera di militanti di destra, che l’aveva accolto con un manifesto in cui si esortava a “metterlo al muro”. Una circostanza frequente, questa, a Salerno come a Roma, a Milano come nella stessa Napoli, dove Pasolini – come ricorda Felice Piemontese in un articolo del ’75 su “La Voce della Campania” – riuscì fortunosamente a scampare a un’aggressione di giovani fascisti “davanti alla sede del vecchio circolo De Sanctis, in piazza degli Artisti, al termine di una conferenza”.

È tuttavia soprattutto nel Mezzogiorno appenninico, quel “secondo Sud” lontano dalle rotte turistiche e commerciali della nuova società di massa e ancora legato a una dimensione arcaica e preindustriale, che Pasolini riuscirà a trovare le ultime tracce di quel mondo contadino scomparso nell’Europa occidentale, come dichiarerà a Oswald Stack: “Bisogna ricordare che l’Italia era, ed è ancora, in una posizione abbastanza insolita nell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è completamente scomparso nei maggiori paesi industrializzati come la Francia e l’Inghilterra (dove non si può parlare di contadini nel senso classico di questa parola), in Italia, invece, esso ancora sopravvive, sebbene recentemente si sia verificato un suo declino…Il mio rapporto col mondo contadino è molto diretto, come per molti Italiani: quasi tutti noi abbiamo avuto almeno un nonno contadino, nel senso classico di questa parola”.

 

UNA “FISICA GRECITÀ”

L’attrazione di Pasolini verso il Sud d’Italia veniva in realtà da lontano, e si era manifestata, fra l’altro, nella ricerca rigorosa e appassionata sui dialetti e la cultura orale, confluita in diverse pubblicazioni e successivamente nelle scelte linguistiche per i suoi romanzi e per alcuni dei film più importanti, da Accattone al Decameron. Un impegno capillare, iniziato nel Friuli della sua adolescenza (dove già nel ’43 il ventunenne Pasolini fonda l’Academiuta de lingua furlana) e protrattosi su scala nazionale fino a tutti gli anni Cinquanta, sempre in linea con la distinzione teorica tra poesia popolare e poesia dialettale. Era quest’ultima, per Pasolini, l’unica e genuina espressione degli umili, sintetizzata nell’affermazione “il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”.

Nasce da qui anche la stretta interrelazione tra poesia e antropologia, costante in Pasolini, che ne ravviserà uno dei prodotti più significativi nella poesia popolare del Molise, in particolare le raccolte di Eugenio Cirese – di cui scrive nei primi anni Cinquanta sulla rivista “Il Belli” – che ispireranno anche le ricerche sulle usanze del mondo contadino condotte dal figlio del poeta, Alberto Maria Cirese, il quale si affermerà come uno dei maggiori antropologi italiani.

Con i due Cirese, rileva nei suoi studi Sebastiano Martelli, Pasolini collaborerà attivamente ad un’inchiesta sulla poesia dialettale promossa dalla rivista molisana “La Lapa” (1953-1955), a conferma che la sua empatia con il mondo popolare del Sud non aveva un carattere occasionale o di superficie ma tendeva a strutturarsi in un impegno condiviso insieme alla sua intellettualità più avanzata ed aperta, come avverrà anche nel decennio successivo con le esperienze del “Laceno d’Oro” e di “Cinemasud”. Per la redazione di “La Lapa” il poeta friulano diventerà da subito “l’amico Pasolini”, e quest’ultimo a sua volta ricambierà questa vicinanza umana e intellettuale pubblicando, alla morte di Eugenio Cirese, un ampio e partecipe ricordo su una delle riviste culturali più autorevoli e diffuse, “La Fiera letteraria”, nel numero del 20 marzo 1955, con il titolo Poetica popolare e colta (riproposto cinque anni dopo in Passione e ideologia). Della poetica di Cirese, ricordò in quell’articolo, sentiva vicina e congeniale soprattutto la nostalgia dell’infanzia, scandita da quei canti popolari che in età matura il poeta molisano avrebbe cercato e raccolto per sottrarli all’oblio, e per ritrovare in essi la radice di una più autentica e matura voce personale. Una nostalgia, sottolineava Pasolini, di natura non campanilistica e retriva, come in tanta letteratura deteriore di provincia, ma delicata, e rispettosa di una realtà storica e sociale, quelle delle campagne molisane di fine Ottocento, segnata dalla povertà ma non ancora dalla disperazione: “L’urbanesimo non era ancora un fenomeno preoccupante (…) e si cantava ancora molto nei paesi, si beveva anche e si faceva all’amore”, è uno dei passi di Cirese citato ad hoc da Pasolini. Il corpus di sentenze e di sonorità condensato nella poesia dialettale del Sud, ravvisa Pasolini, rimanda agli echi ancestrali della cultura greca. Non era tuttavia una cultura popolare statica e pacificata, come l’aveva presentata il Fascismo nella sua concezione oleografica del “folklore”, ma dinamica e sofferta: come nel dialetto del poeta molisano, dove l’assimilazione delle migliori esperienze letterarie del Novecento, osserva Pasolini, “tende ad avvalorare una già preesistente componente che si suole dire in questi casi “greca”: ma si tratta sempre di una “grecità” melica, vibrante e patetica, mai marmorea o neoclassica: la fisica grecità del Meridione”. La stessa che si manifesterà di lì a poco nelle prime esperienze cinematografiche di Pasolini nel Sud Italia, e successivamente in larga parte della sua filmografia, dei reportage giornalistiche, delle indagini di natura antropologica, che viene oggi ricostruito nel libro, di autori vari, Geografie pasoliniane, pubblicato dalla giovane casa editrice napoletana La Valle del Tempo.

Un percorso originale e per molti versi inedito nel “pianeta Pasolini”, intrecciando alcuni temi portanti del suo itinerario poetico, tra letteratura e cinema, giornalismo e impegno civile, e il rapporto fisico e intellettuale con i luoghi della sua formazione (Bologna, Roma, il Friuli) e poi con i Sud dell’Italia, dell’Europa e del mondo, nell’inesausta ricerca dei “popoli perduti”, con il prezioso corollario di una Antologia

critica, che recupera scritti d’autore di estremo interesse sulla figura di Pasolini.

Un rilievo particolare è attribuito nei saggi di questo volume al rapporto complesso e proficuo con le realtà della Campania e del Mezzogiorno, da Napoli alla “terra dell’osso”, culminato nella sua lettura antropologica del Vangelo secondo Matteo e del Decameron e nella partecipazione attiva all’utopia vincente del “Laceno d’Oro”, e all’impronta indelebile che Pasolini ha lasciato, con la sua umanità e la sua arte, nell’Europa orientale e in paesi di antica cultura come il Marocco, l’Iran, il Brasile.


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