– L’esordio della regista, sessant’anni dopo, nel blu-ray della CG Entertainment –
La Vela d’Oro a Festival di Locarno, dove I basilischi fu presentato in “prima” mondiale, fu il naturale e meritato riconoscimento a quell’”ottimo esordio”, come lo definì nel maggio del ’63 sul n. 9 di “Cinema Domani” (che al film dedicò la copertina e ne pubblicò la sceneggiatura) Corrado Terzi, che aveva potuto vederlo in anteprima: “un’opera originale, fresca, e la rivelazione di una personalità promettente”.
Ma come ci era arrivata nel profondo Sud la “regista in pantaloni” che fino ad allora aveva svolto l’intera carriera artistica a Roma, nel triangolo Teatro Sistina – Viale Mazzini – Cinecittà? E perché aveva scelto quelle location per il suo primo film?
Galeotta fu un’improvvisa deviazione stradale nel lungo viaggio che nell’estate del ’62 doveva portare la Wertmuller, insieme al produttore Nello Santi e alla moglie Franca, da Roma fino in Sicilia, a Portella della Ginestra, dove Francesco Rosi stava girando Salvatore Giuliano. Per l’esattezza, un fuoriprogramma di qualche ora (almeno così prevedeva la futura regista) per visitare il comune di origine dei Wertmuller: <<Arrivati in Puglia, decisi di fare una piccola deviazione verso il paese dove era nato mio padre, Palazzo San Gervasio, un luogo dalla antica, struggente bellezza. Qui incontrai la famiglia del fratello di mio padre, che faceva il farmacista>>, ricorda nella prefazione a Lucani altrove. Un popolo con la valigia (Memori, Roma, 2007), di Renato Cantore.
Era la prima volta che Arcangela Felice Assunta Wertmuller von Elgg Espanol von Brauchich, per usare il suo nome completo, discendente da una famiglia di Zurigo approdata nel corso dell’Ottocento nel Regno delle Due Sicilie, metteva piede nel paese di origine del padre, trasferitosi a Roma prima della nascita di Lina.
Di quei luoghi aveva fino ad allora una conoscenza molto vaga, mediata dai racconti di suo padre e di nonna Angelina, l’ava materna di Ariano Irpino che tanto aveva influito sulla sua formazione. Era un Sud misterioso e mitico, a partire dal nome solenne che in famiglia davano a quel territorio al confine tra Lucania e Puglia: <<Per me, la sconosciuta Basilicata, fin dall’infanzia, era stata la favolosa “Terra del Re”, lontana, come lontani e favolosi erano pure quei nonni dai roboanti nomi di mitici baroni svizzero-tedeschi. Ora però scoprivo la verità di questa terra dura, ma splendida>>, ricorderà la Wertmuller nell’autobiografia edita nel 2006 da Frassinelli.
Una scoperta tardiva e casuale, ma destinata a segnare in profondità la sua filmografia, disseminata di storie e personaggi meridionali: <<Fu un incontro straordinariamente affascinante – scrive ancora nella prefazione – dal quale nacque l’idea del mio primo film. Per la precisione presi spunto dalla vicenda di un mio cugino che era venuto a Roma a studiare farmacia; fece tutti gli esami ma poi non prese mai la laurea>>.
Quel fertile cortocircuito tra realtà e grande schermo verrà evocato in una delle scene cruciali del film: l’improvviso arrivo in paese dei parenti romani del protagonista, Antonio, che sarà invogliato da quell’incontro inatteso a trasferirsi nella capitale. Una breve parentesi nella monotona esistenza del giovane, che di quell’esperienza nella grande città conserverà un ricordo mitico quanto fasullo, nulla più che un ricorrente diversivo nelle interminabili passeggiate con gli amici in un paesaggio sempre più silenzioso e vuoto, una sorta di Limbo rassicurante ma senza via d’uscita nel quale si crogiolavano i rampolli di una borghesia parassitaria e chiusa. Una condizione del tutto anomala agli occhi della Wertmuller, che la regista riuscì tuttavia a percepire al primo impatto e a rappresentare con un acume e una verosimiglianza davvero ammirevoli.
<<La spiegazione la cercai in un certo “oblomovismo” che caratterizzava la vita delle piccole comunità del Sud, chiuse nella loro quotidianità sempre uguale a se stessa>>, confida nella citata prefazione la regista.
A quella dimensione piccolo-borghese del Sud, materializzatasi d’improvviso ai suoi occhi, si sentì subito avvinta da una fascinazione particolare, come rivelò nel febbraio del ‘63 in un’ampia intervista a “Filmcritica” (n. 130): <<La sua pigrizia borbonica mi ha incantato ed irritato al tempo stesso. Ho pensato così di vedere con la macchina da presa come si parla, si ride, ci si “lascia andare”, in certe zone del Meridione dove tuttora esiste una contemplazione e un disfacimento quasi “oblomoviani”>>.
Oblomov nelle Puglie, non a caso, era il titolo a cui aveva pensato la Wertmuller per il suo film, che in quell’estate del ’62 era ancora un progetto in fieri. L’indolenza in fondo bonaria ma alla lunga autolesionistica di quei “vitelloni del Sud”, più pigri e meno goliardici e vitali rispetto ai coetanei riminesi descritti da Fellini dieci anni prima, richiamava immediatamente l’Oblomov protagonista dell’omonimo romanzo dello scrittore russo Goncarov, campione dell’immobilismo contemplativo e assolutamente incapace di assumere qualsiasi decisione relativa alla sua esistenza, che si trattasse di spostamenti o di lavoro, degli affari come delle relazioni sentimentali.
Lo scenario emozionale della comunità “basilisca” è dominato da silenzi cosmici, interrotti di tanto in tanto da discorsi altrettanto rumorosi ma ripetitivi e senza costrutto; da desideri repressi, e perciò ancora più lancinanti e morbosi, che accomunano i giovani di entrambi i sessi; da relazioni fittizie e di convenienza, al netto di poche e sincere amicizie; dal sostanziale rifiuto ad affrontare i problemi di fondo, in questo caso l’emigrazione verso il Nord e i cambiamenti sociali e politici in atto.
Una dimensione esistenziale tipica della borghesia professionale e terriera del Sud, dai giovani (culturalmente passivi) ai più anziani, tenacemente abbarbicati ai privilegi residui e a (dis)valori antichi. Metafora potente di questo Mezzogiorno immobile e rinunciatario diventa, all’inizio del film, la controra (come nel Sud è definito il primo pomeriggio estivo), che avvolge quelle terre in un sonno profondo, nel silenzio assoluto che sa al tempo stesso di arcaico e di eterno. <<Quand’è la controra, tutti si buttano tra le braccia di Morfeo, che in questo paese dovrebbe essere il santo patrono e portato in processione al posto di Sant’Antonio>>, commenta la voce fuori campo di Maddalena. L’unica nel paese che non dorme, tormentata da pensieri e domande senza risposta, primo fra tutti l’eterno dilemma dei giovani del Sud: restare o fuggire?
Antonio, come abbiamo visto, la sua scelta l’ha fatta, suggestionato dall’affetto sincero degli amici di sempre Francesco e Sergio e forse ancora di più dal coro dei paesani che, in una delle scene più riuscite, lo avvolge ammiccante e sinuoso nelle spire del suo trito campanilismo. Tanti coetanei continueranno a dibattersi nel dilemma, come i fratelli più giovani di Antonio, in uno dei dialoghi più densi del film, oscillando tra le categorie del “Ma che restiamo a fare qui?” e del “Ma se ce ne andiamo via tutti, qui chi rimane?”.
Un dilemma che oggi risuona sempre più flebile, nei tanti paesi del Sud condannati (inesorabilmente?) alla desertificazione umana che la Wertmuller aveva vagamente prefigurato in quel suo film di sessant’anni fa.
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