Quella meravigliosa doppietta di Pelè nella finale dei Mondiali di calcio del ’58, che ci ha di nuovo incantato ed emozionato in questi giorni di cordoglio per la scomparsa di ‘O Rey, fu il suggello finale di un torneo che rivelò al mondo uno dei più grandi dream team del calcio. Contro i padroni di casa della Svezia, che avevano in squadra campioni come Hamrin e Skoglund e il “vecchio” Liedholm, che in finale segnò il primo gol, il futbol bailado dell’undici carioca sembrò una passeggiata, con quel 5-2 ispirato dai dribbling ubriacanti di Garrincha e dal trio di fuoriclasse Pelè-Didì-Vavà, che diventò
ben presto un’allegra filastrocca ripetuta dai bambini di tutto il mondo.
Tutto facile, quindi, per la nazionale verdeoro? Secondo la stampa dell’epoca, in realtà, il vero segreto del Brasile era un altro, molto meno visibile e tutt’altro che glamorous: l’allenatore, che dopo i clamorosi fallimenti dei suoi predecessori nei Mondiali del ’50 in casa (con il devastante Maracanazo) e del ’54 in Svizzera, aveva saputo dare a quella squadra di artisti sregolati un metodo e la necessaria compattezza.
“Simpatica la figura di quest’uomo al quale risale senza dubbio il merito principale dell’affermazione brasiliana”, scrisse sulla “Domenica del Corriere” Nino Oppio, firma del giornalismo sportivo italiano. Era stato lui, tra l’altro, rincara la dose Aldo Biscardi su “Vie Nuove” del 5 luglio ’58, a scoprire Pelè, “il diciassettenne ‘negretto’ di Santos, il ‘bambino d’oro’ del calcio brasiliano”, promuovendolo titolare proprio alla vigilia del torneo al posto di un campione affermato come Josè Altafini, il popolare “Mazzola” dei tifosi brasiliani, per la somiglianza con il capitano del Grande Torino.
Sì, ma lui chi? Lo rivela Biscardi: “Vincenzo Feola, un italiano autentico, un “cafone” del Sud, emigrato 35 anni fa, quando era appena tredicenne”. E qui il futuro inventore del Processo del lunedìintinge la penna nei colori più vivaci del repertorio retorico sull’emigrazione per raccontare la commovente storia di “Vincenzino, il piccolo contadino emigrato con le toppe ai pantaloni, nella modestissima cabina di 3° classe di un piroscafo di linea”. Una patina di colore giornalistico così vivace da confondere le vere origini di Feola. Per la “Domenica del Corriere”, e quasi tutta la stampa, il coach del Brasile era semplicemente “napoletano”. Le ricerche più recenti attestano che era originario di Castellabate, nel Cilento, e sarebbe nato nel 1900 a San Paolo del Brasile. Per Biscardi, che assicurava di aver fatto a Feola l’intervista più lunga della sua carriera giornalistica (specificando che Vincenzo, diventato Vicente, “adesso è ben nutrito, ha i capelli neri ed impomatati ed i pantaloni come si portano a Forcella”), il futuro allenatore era invece nato in Italia, a Castellammare di Stabia, nel 1910, “da genitori contadini, che a forza di arare, vangare e sudar sangue, riuscirono ad acquistare in proprio un piccolo podere, che ancora adesso è coltivato nella piana stabiese da un nipote”, e sarebbe emigrato in Brasile con i genitori (“esauriti fisicamente e con scarse risorse economiche”) e i tre fratelli nel 1923.
L’unica certezza, oltre alle radici familiari nel Mezzogiorno, era il curriculum calcistico, coronato da due scudetti come allenatore del San Paolo nel ’48 e nel ’49. E che per tutta la carriera Feola aveva seguito attraverso i giornali il campionato italiano, prendendo a modello, negli anni Cinquanta, la Fiorentina del primo scudetto, guidata da Fulvio Bernardini, e il Milan di Gipo Viani, che con Feola condivideva la dimensione “ibrida” di general manager e allenatore, tornata in voga in questi anni (soprattutto con Ferguson e Mourinho) nella Premier League. E decisamente ispirato al calcio italiano era l’assetto tattico del Brasile di Feola: una solida difesa a uomo, un centrocampo di cursori, con Zito e l’ala tattica Zagalo, e in avanti tre bomber stellari (Garrincha, Pelè e Vavà) ispirati in regia da un sublime palleggiatore come Didì.
Fu con questa felice fusione di calciatori “artisti” e “operai” che quell’allenatore venuto dall’Italia del Sud (“sereno e pacioccone, grasso come un oste di campagna”, lo definì Nino Oppio, in vibrante concorrenza con Biscardi sul terreno degli stereotipi) riuscì a portare per la prima volta il Brasile sul tetto del mondo, e il non ancora diciottenne Pelè nella storia del calcio.
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