E DOPO IL VAFFA DRAGHI DAY? / IL RISCHIO MELONI E’ DIETRO L’ANGOLO. MA…     

Draghi santo subito: se caso mai Bergoglio lascia lo scranno pontificio il candidato c’è già, pronto a moltiplicare pani e pesci per gli italiani affamati; oppure Presidente alla Macròn in caso di defezione del Mattarella bis. Meglio ancora Re secondo le consuetudini britanniche, o Monarca assoluto oppure dittatore come l’egiziano al-Sisi col quale facciamo affari a iosa, il principe saudita bin Salman che, chissenefrega, ha fatto ammazzare Khashoggi, o un Erdogan criminale a giorni alterni.

Draghi meravigliao, a botta calda secondo il coro-gregge degli altisonanti maitre a penser convocati per i rituali talk show o le maratone tivvù.

Paolo Mieli

Vi siete per caso imbattuti nel programma ‘In onda’ su ‘la7’   dopo il vaffa al premier? Paolo Mieli al settimo cielo: “una giornata fantastica per Draghi, un discorso strepitoso, parole perfette, le sottoscrivo una ad una”. Solo un micro distinguo sulle auto-lodi tipo “è il popolo che mi vuole”, “ho avuto un plebiscito dai cittadini, dalle associazioni, dai territori, dalle università”, mancavano solo all’appello mosche & zanzare impegnate in altre attività estive.

In sulluchero il direttore de ‘La Stampa’ Massimo Giannini: “un Draghi perfetto, non poteva fare di meglio, un grande statista che la nostra politica non merita”.

In brodo di giuggiole la conduttrice Conchita De Gregorio, che non sapendo più quali lodi tessere s’è prodotta in un triplo avvitamento carpiato, esaltando il profilo di “un docente di Harvard che noi scambiamo per un piccolo albergatore di Massalubrense”. Boh.

Sorge spontanea la domanda: ma è il sole bollente ultra-ferragostano ad aver fuso i cervelli di lorsignori?

 Passiamo a cose un po’ più serie.

 

UNA SCENEGGIATA CHE VIEN DAL QUIRINALE

La ‘cosa’ – o ‘sceneggiata’, chiamatela come volete – nasce almeno a gennaio, quando il Super Banchiere che tutto il mondo ci invidia ha ricevuto un altro Vaffa per l’ascesa al Quirinale, poltrona per la quale aveva puntato tutte le sue fiches. Tanto da confessarlo candidamente nella conferenza stampa prenatalizia: “il lavoro è fatto, completato, adesso basta un semplice esecutore (il riferimento era al suo fedelissimo e ministro dell’Economia Daniele Franco, ex Bankitalia) per finire le cose”. Come dire: in pochi mesi ho sistemato la baracca Italia come meglio non si poteva, adesso posso tranquillamente trasferirmi al Quirinale, da dove, comunque, posso mantenere pur sempre il controllo della situazione.

Sonoramente bocciato, Draghi se l’è legata al dito. Obbligato alla poltrona di premier, costretto ogni giorno ad occuparmi delle beghe tra queste frattaglie di partiti, a barcamenarmi tra reddito di cittadinanza ed estimi catastali, sapete cosa faccio? Decido tutto io, fottendomene di tutti, se vi sta bene bene, altrimenti andate tutti a quel paese.

Luigi Di Maio

E così è stato: non più, negli ultimi mesi, il suadente banchiere che con suo forbito eloquio convince, ma il despota, il reuccio, il buttafuori che decide la minestra del giorno da far ingurgitare a tutti gli italiani: i quali figurarsi se oggi – come lui fa intendere – lo osannano come il Salvatore, mentre invece, giustamente, lo detestano come il più bieco dei persecutori. E gli intonano un quotidiano ‘Vaffa’ che più sonoro non si può.

Ciliegina sulla torta, arriviamo ai frequenti colloqui con Beppe Grillo, nel corso dei quali arriva addirittura a chiedere la testa di uno dei pochi, forse l’unico, che osa fare delle domande, dire   alcuni No, rappresentare un qualche intralcio di fronte al suo imperioso cammino: il numero uno dei 5 Stelle Giuseppe Conte  Può aver mai dato di volta il cervello ad una persona seria come Domenico De Masi, che fa uscir fuori la ‘anomala’ richiesta del premier al fondatore dei 5 Stelle?

Da qui inizia la fine. Il maggiordomo Giggino Di Maio mette a segno il colpo della sua vita politica: rinnega, letteralmente rimangia tutto quello che aveva detto per oltre un decennio tra le fila (anzi, tra i fondatori dei pentastellati), dall’1 vale 1 fino alle alleanze atlantiche. Una giravolta acrobatica, da trasformista della peggior specie democristiana d’un tempo: comportamento ‘ottimo e abbondante’ per spaccare i 5 Stelle, azzoppare l’odiato Conte, salire sulla barca del Comandante Draghi con la ridicola formazione ‘Italia Futura’, neanche un briciolo di fantasia nella scelta del nome.

Giuseppe Conte

Le ha messe in campo tutte, Santo Draghi, per tirare la corda fino all’inverosimile. Ben conscio che potesse spezzarsi, come è accaduto.

Ne sono prova palese il primo intervento al Senato e la replica.

Livorose, rancorose, offensive nei toni, nella forma e nei contenuti. Non solo, of course, contro l’uomo di cui voleva la testa sul vassoio, Conte, ma anche contro i leghisti, ai quali ha dedicato le frustate più brucianti nel corso dell’intervento mattutino. Ancor più ‘chiara’ la replica: tre minuti di frustate come neanche nel rodeo più sgarrupato.

Manifesta voglia di rompere. Tanto il Profeta sa bene che non tornerà, nei prossimi anni, a fare il premuroso nonnino per i suoi adorati nipoti, ma che lo aspetta, calda calda, un’altra poltronissima, come si sapeva già da tempo: quella di Segretario Generale della NATO, visto che il numero uno, il norvegese Jens Stoltemberg, è già in prorogatio e il mandato scade definitivamente a fine anno.

E proprio in questa ottica vanno lette le decisioni assunte dal nostro governo sul fronte ucraino, non solo dal Maggiordomo-Ministro degli Esteri, ma dallo stesso Draghi in prima persona. Il quale, nel suo intervento a palazzo Montecitorio, ha voluto sottolineare con particolare enfasi: “Come mi ha ripetuto ieri (martedì 19 luglio, ndr) Zelensky, armare l’Ucraina è il solo modo per permettere loro di difendersi”. E chissenefrega dei negoziati: la guerra va combattuta – come vuole il Capo dei Capi, Joe Biden   – fino alla resa della Russia del macellaio Vladimir Putin e ‘fino all’ultimo ucraino’, secondo il leit motiv che da mesi circola al Dipartimento di Stato Usa guidato dai falchi Tony Blinken e Victoria Nuland.

 

CHE FARE, ADESSO ?

Ma veniamo al domani. Che è ormai dietro l’angolo, ossia le prossime elezioni che potrebbero essere ai primi di ottobre se non addirittura nell’ultima settimana di settembre (70 giorni da oggi, 22 agosto, ha promesso il capo dello Stato Sergio  Mattarella).

Visto che agosto per gli italiani non conta, le urne sono ormai aperte.

Sorge spontanea una domandina. Visto che siamo stati costretti a non votare da ormai una dozzina d’anni – come è prassi nei regimi dittatoriali di cui tanto si discetta – in quale mondo è pensabile di organizzarsi in un baleno, come dover far fagotto all’approssimarsi di uno tsunami?

In questo modo significa, al 90 per cento, consegnare il Paese alla destra, che certo impiega meno tempo (pur fra tutte le fratture, le frizioni e le oggettive incapacità politiche dei suoi leader) per abborracciare un’intesa comunque, un patto elettorale di qualche specie, un programmucolo meglio dello zero più assoluto.

Un bel domani si spalanca davanti a noi, con la fascistoide Giorgia Meloni (stile Vox spagnola) premier e un ringhioso xenofobo Matteo Salvini al seguito.

Il problema sta dall’altra parte. Che francamente non sappiamo più neanche come chiamare: visto che di ‘sinistra’ ormai c’è poco, o quasi zero.

Alessandro Di Battista

Perché il PD si è in pratica trasformato, nel corso degli anni, nel Partito Democristiano e, negli ultimi mesi, nel Partito di Draghi, con un Enrico Letta totalmente genuflesso al Draghi-pensiero,  come descrive lucidamente Giorgio Cremaschi nel pezzo che pubblichiamo nelle News.  Nulla di più lontano dai valori, dalle utopie, dalla volontà di cambiare il mondo, dalla giustizia sociale che erano una bandiera imprescindibile per il Pci di un Enrico Berlinguer.

C’è oggi un cumulo di macerie, davanti a noi. Come rimettere in piedi un progetto, e soprattutto un tessuto organizzativo, in pochi scampoli estivi?

Le potenzialità, il ‘campo’ ci sarebbero, eccome. Ma il tempo manca.

Ecco il dream. Conte trova in sé un coraggio leonino e chiama a raccolta i 5 Stelle veri, autentici, non taroccati, come si sono dimostrate le mandrie di fuoriusciti. Torna all’ovile Alessandro Di Battista, per dar vita ad un tandem di lotta e di governo. E rientra in partita anche l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi, che negli ultimi anni di sindacatura a Roma s’è fatta le ossa e ha meglio guidato la capitale.

Questa combattiva task force, comunque in grado di rappresentare una significativa base di potenziali consensi, deve aprire subito un confronto con i PD non lobotomizzati, non ancora del tutto rincoglioniti, draghizzati: si è visto in aula, a Montecitorio, con il quasi abbraccio tra il Pd Andrea Orlando e il 5 Stelle Ettore Licheri. Vuoi che un 15-20 per cento dei PD non sia recuperabile alla causa?

Stesso discorso con LEU e le altre frange sparse a sinistra. E i Verdi, storico motore dei cambiamenti in Europa e da noi ridotti a insignificanti cespugli? Possibile che non ritrovino un barlume d’intelletto e di coscienza civica?

Per non parlare del mondo dell’associazionismo, del volontariato, dei tanti italiani che lavorano per gli altri, per gli ultimi. E che non hanno mai avuto voce in capitolo.

Così come quell’esercito di non votanti, di astenuti, di schifati non dalla politica, ma da questa politica. Possibile che un 40 per cento (altrimenti destinato a crescere sempre più) non abbia il diritto a trovare una sua voce, una sua rappresentanza in Parlamento? E che almeno un terzo sia pronto per tornare alle urne davanti a una proposta credibile, non la solita immangiabile minestra?

 

Ci sarà la volontà di aggregarsi intorno a un reale progetto di cambiamento?

Le idee ci sono: basta rinfrescare il primo programma 5 Stelle, unire i 9 punti dell’ultimo Conte, qualche realizzabile utopia in più, capovolgere il decalogo draghiano.

Il più è fatto. Ma il tempo?…

 

 


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