Sono passati 40 anni esatti da uno dei più grossi buchi neri della nostra storia, di uno dei ‘Misteri d’Italia’ che – se mai scoperchiati – avrebbero davvero fatto saltare il Palazzo. Anzi, tanti Palazzi che più potenti non si può.
Stiamo parlando dell’omicidio di Roberto Calvi, il ‘banchiere di Dio’, ammazzato la notte del 18 giugno 1982 sotto il ‘Blackfriars Bridge’, il ‘Ponte dei Frati Neri’ lungo il Tamigi, a Londra.
Tornano a galla pezzi d’inchieste mai portate a termine, inchieste che definire ridicole è un eufemismo, processi farsa, veri e propri depistaggi ante litteram, prima in Inghilterra e poi in Italia.
Perché a tanti, troppi faceva comodo la morte di Calvi, perché quindi ‘Calvi doveva morire’ e perché quindi nessuno doveva essere scoperto, né esecutori né tantomeno i mandanti: rimasti sempre a ‘volto coperto’, gli uni e gli altri, un delitto davvero ‘perfetto’: perché solitamente alcuni killer, dopo anni, finiscono in galera, e i mandanti continuano regolarmente a godersela, liberi come fringuelli.
Faceva comodo a tanti, troppi, dicevamo: al Vaticano con il quale aveva riciclato palate miliardarie, ai politici che aveva regolarmente finanziato corrente per corrente, all’altro super banchiere che andava per la maggiore, Michele Sindona, il quale si riteneva ‘fregato’ in alcune operazioni; ai boss di Cosa Nostra che reclamavano una parte del bottino affidata a Calvi per riciclarla e mai più rivista. Insomma a tutti: e sembra proprio il copione del celebre ’10 piccoli indiani’ di Agatha Christie, dove sono in tanti a pugnalare il corpo della vittima designata, perché tutti avevano una loro ben precisa ragione.
Il contesto ‘storico’, i ‘moventi’, e in qualche modo i ‘mandanti’ sono quindi ormai ben noti, anche se il caos delle inchieste malfatte (ad arte) e dei depistaggi ha talmente intricato il quadro che nessuno, logicamente, è stato mai condannato e non ha passato neanche 24 ore in gattabuia.
Ma stavolta, almeno i killer, gli esecutori, si sarebbero potuti scoprire, senza neanche muovere mari e monti. Emerge anche dalle fresche parole di Tescaroli.
QUELLA ‘VOCE’ DEL 1986
Ed emergeva, soprattutto, in una ‘storica’ inchiesta della ‘Voce’, storica perché nel frattempo ha fatto le ragnatele ed è finita in naftalina.
Quella cover story, infatti, era di ben 36 anni fa, gennaio 1986.
Riprendiamo in mano una copia ingiallita. Titolo di copertina che non lascia spazio ai dubbi: “CASO CALVI, DELITTO DI CAMORRA” e il sottotitolo “Vincenzo Casillo, vice di Cutolo, il killer”.
Ecco un passaggio saliente di quella inchiesta. A proposito delle proteste di alcuni detenuti di camorra che chiedono trattamenti carcerari meno duri, misure di protezione per i familiari e in alcuni casi di poter ottenere i domiciliari, “i pentiti hanno assicurato che il loro contributo potrebbe essere ancora più importante per comprendere alcuni affari miliardari intessuti dalla malavita organizzata in combutta con piduisti, politici e grande finanza. Dopo le dichiarazioni del pentito Oreste Lettieri, sul caso dell’assessore Dc rapito Ciro Cirillo, anche altri sono pronti a parlare”.
Così continuava quel reportage del gennaio 1984: “E tanto per iniziare hanno lanciato un segnale per far capire bene di cosa si tratta. ‘Vi ricordate quel volantinaggio a favore del banchiere Roberto Calvi, a Milano, quando era detenuto? A distribuire quei volantini eravamo noi cutoliani! Eravamo stati mandati lì dal faccendiere Francesco Pazienza. Anzi, avevamo anche un’altra missione da compiere, dovevamo dare una lezione ad un giornalista, un certo Luigi Cavallo, molto amico di Michele Sindona. Cavallo dava fastidio al nostro protetto. Calvi ci dava ogni mese 100 milioni. Quando ‘si impiccò’ a Londra, in Inghilterra c’era anche Vincenzo Casillo, il luogotenente di don Raffaele Cutolo, amico di Pazienza e dei servizi segreti’.
E il nostro reportage così proseguiva: “Alle domande dei magistrati che chiedevano se ci fosse un rapporto tra la presenza di Casillo a Londra e la oscura morte di Calvi, i pentiti hanno preferito, per ora, rispondere maliziosamente: ‘In Inghilterra, e questo lo abbiamo già messo a verbale con molti particolari, la Nuova Camorra Organizzata (più nota come N.C.O. capeggiata da Cutolo, ndr) disponeva di numerose basi e forti amicizie per i suoi traffici di armi e droga. Certamente Vincenzo Casillo, ‘o nirone, a Londra non era andato per godersi una vacanza… e Calvi, questo è sicuro, è stato ammazzato!”.
Sorgono più che spontanee, a tanti anni di distanza, alcune domande quasi ovvie.
INTERROGATIVI D’OBBLIGO
Come mai la magistratura italiana, all’epoca, non ha mosso un dito per approfondire quella pista?
Ossia l’unica pista in grado di arrivare al killer, o ai killer di camorra?
E quindi di consentire, poi, di aprire spiragli sui mandanti eccellenti?
Cosa si è inceppato nei meccanismi degli inquirenti di allora? Parliamo, ovviamente, di quelli italiani, visto che la magistratura britannica allora non sapeva neanche cosa fosse la camorra, non conosceva l’esistenza del reato di 416 bis e per questo fin dalla fine degli anni ’89 e poi in modo massiccio in tutti i ’90, i clan emergenti della camorra hanno potuto riciclare a tutto spiano in Inghilterra e ancor più in Scozia, come – per fare un solo esempio – è successo per la gran parte dei locali, dei ristoranti e dei night di Aberdeen. Su questi temi scrisse per la ‘Voce’ un ottimo reportage Amato Lamberti, il grande sociologo e fondatore di quell’Osservatorio sulla Camorra al quale collaborava Giancarlo Siani, il giovane cronista ammazzato proprio per quello che stava documentando (e in via di pubblicazione con un libro-choc) sulle connection tra imprese-politica-camorra nel maxi business della ricostruzione post terremoto.
Torniamo a bomba: come mai la magistratura di casa nostra, pur potendo contare su una sfilza di verbalizzazioni fornite dai pentiti, non si mosse (oppure si mosse maldestramente) per trovare riscontri, incrociare i dati, battere piste parallele, indagare su altri soggetti collegati a quelle trame?
UN CAVALLO DESAPARECIDO
Nell’inchiesta della ‘Voce’, ad esempio, i pentiti fanno un nome, quello di ‘un certo Luigi Cavallo’, un giornalista, precisano, molto legato a Michele Sindona. Eppure, quello di Cavallo non era un nome certo nuovo per le cronache giudiziarie, come testimonia ampiamente un dettagliato articolo uscito su ‘Repubblica’ il 22 maggio 1984 dove se ne raccontano di cotte e di crude (lo potete leggere cliccando sul link in basso): anche sulla campagna mediatica anti Calvi organizzata da Cavallo per ordine (ben retribuito) di Sindona.
Niente? Neanche un approfondimento, nemmeno uno straccio d’indagine?
E nemmeno dopo che altri pezzi da novanta della camorra napoletana, come Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, hanno confermato quella pista che portava al killer (o ai killer) del banchiere sotto il Ponte dei Frati Neri si muove qualcosa. Niente. Il silenzio più assoluto.
Muri di gomma invalicabili.
Ma è mai possibile una serie di flop giudiziari a catena così incredibili, da autentico Guinness dei primati?
INCHIESTE & PROCESSI IN FLOP
Ripercorriamo gli esiti da brividi in rapida carrellata.
Velocissima la prima inchiesta inglese, neanche il tempo di aprire il fascicolo che subito viene archiviato con pragmatismo tutto britannico: non c’è alcun dubbio, si tratta di un suicidio.
Più salomonico l’esito della seconda inchiesta londinese: comincia a far capolino qualche dubbio, alcune tessere del mosaico non combaciano. Per cui ecco il risultato: Roberto Calvi è morto. Può trattarsi di suicidio oppure no.
Elementare, Watson.
Molto più articolato e tortuoso l’iter delle inchieste nostrane.
La prima segue le orme britanniche pari pari: pratica archiviata, si tratta di un chiaro suicidio.
Poi vengono raccolte altre testimonianze e verbalizzazioni, soprattutto in ambienti mafiosi. Nel 1991 il collaboratore di giustizia (prima si chiamavano ‘pentiti’) Francesco Marino Mannoia racconta che a strangolare il banchiere fu il mafioso Francesco Di Carlo, per ordine di Pippo Calò. Cinque anni dopo anche di Carlo comincia a ‘collaborare’ ma nega di aver ucciso Calvi, pur se Calò gli aveva chiesto di occuparsene.
“L’operazione sarebbe poi stata affidata ai camorristi”, commenta oggi il ‘Post’, che in una lunga, dettagliata e quasi estenuante biografia-ricostruzione fa solo questo cenno alla ‘manina’ di camorra.
Continuano comunque a parlare collaboratori e non. Un boss della Banda della Magliana, Antonio Mancini, sostiene che il banchiere è stato eliminato su imput di Calò e di Flavio Carboni.
Nel 1998 la salma di Calvi viene riesumata per ordine del gip capitolino Otello Lupacchini e i periti – udite udite – proclamano: non si tratta di suicidio.
2003, è la volta di un altro collaboratore, Nino Giuffrè, che non fa nomi ma sale sulla cattedra di storia e scopre l’acqua calda: a volerlo morto erano il Vaticano, la massoneria e la mafia. Ah sì, manca all’appello solo la politica.
Primo processo nel 2005, alla sbarra Flavio Carboni, la sua compagna Manuela Kleinszij, il contrabbandiere Silvano Vittor che aveva aiutato Carboni e la sua amica a lasciare l’Italia, il boss della Magliana Ernesto Diotallevi. Risultato: tutti assolti.
- Processo d’Appello. Identico risultato, assolti.
Ma nelle sentenze ci sono comunque due piccole chicche: secondo il primo grado, “l’ipotesi del suicidio è da considerare assurda”; stando all’appello, “Calvi è stato ammazzato, non si è ucciso”. Forse da 10 piccoli frati neri…
Ovvio lo stesso risultato in Cassazione, la cui sentenza fa pesare “i ritardi nelle indagini dovuti all’iniziale ipotesi del suicidio” e “l’ambiguità di opposte dichiarazioni la cui veridicità non sempre è stata possibile verificare, forse specchio dello scontro di non sopiti interessi forti intesi ad evitare l’emersione della verità” (da sentenza prima sezione Cassazione depositata il 26 gennaio 2012): come lezione di bizantinismo non c’è male.
Eccoci all’ultima (per ora) tappa. A novembre 2016 è proprio il pm Luca Tescaroli a mettere una pietra tombale sul caso. E il gip del tribunale di Roma, Simonetta D’Alessandro, archivia, su richiesta del pm, il procedimento che vedeva coinvolti, tra gli altri, Gelli, Carboni e Pazienza: a loro parere non ci sono prove sufficienti per iniziare un nuovo processo, perché si tratta di una ‘ricostruzione storica’ troppo piena di ‘mezze verità’. Scrive D’Alessandro: nel caso erano coinvolti “una parte del Vaticano, ma non tutto il Vaticano; una parte di Cosa nostra, ma non tutta Cosa nostra; una parte della massoneria, ma non tutta la massoneria”.
PARLA TESCAROLI
A questo punto chiudiamo il cerchio proprio con Tescaroli, attualmente procuratore aggiunto a Firenze. Processualmente sigilla il caso, ma ci tiene a inquadrarlo, anche lui, ‘storicamente’.
Ecco alcuni passaggi di una sua fresca intervista rilasciata a ‘il Fatto’.
Calvi, in sostanza, s’era fatto amici e, soprattutto, nemici un po’ dappertutto: “Aveva finanziato tutti i maggiori partiti politici, minacciato alti prelati, Cosa nostra non era riuscita a recuperare il denaro che aveva investito suo tramite”.
“La collaborazione di Calvi con la giustizia sarebbe stata dirompente”.
“Dopo 40 anni possiamo dire che è provato, con certezza, che Calvi è stato assassinato, mediante impiccagione, e simulazione del suicidio, nella notte fra il 17 e il 18 giugno 1982”.
“Cosa nostra, nelle sue varie articolazioni, impiegava il Banco Ambrosiano e lo IOR come tramite per massicce operazioni di riciclaggio”, che “avvenivano quanto meno ad opera di Vito Ciancimino, oltre che di Giuseppe Calò”.
“Il collaboratore di giustizia Claudio Sicilia aveva accusato Vincenzo Casillo, luogotenente di Cutolo, legato ad esponenti dei Servizi segreti, ucciso il 29 gennaio 1983, di aver eseguito l’omicidio; accusa ribadita da Pasquale Galasso, da Carmine Alfieri e da altri collaboratori di giustizia. Segretamente passato dalla parte del clan Nuvoletta, legato ai Corleonesi, Casillo e Cosa nostra volevano uccidere Calvi perché si era appropriato del loro denaro”.
Conclude Tescaroli: “Speriamo che un giorno si possa arrivare a conoscere la verità”.
Un giorno chissà mai quanto lontano.
Eppure, quell’inchiesta di gennaio 1984 raccontava già allora una buona fetta di quelle verità.
E di nuovo l’interrogativo alto come un grattacielo: quali condizionamenti ci sono stati per depistare tanto, in modo così massiccio e reiterato nell’arco dei decenni?
Link Repubblica
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di FABRIZIO RAVELLI
la Repubblica 22 maggio 1984 pag. 4 sez. POLITICA INTERNA
Link Voce delle Voci
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