Ventidue anni dal tragico assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, massacrati a Mogadiscio il 20 marzo 1994.
Uccisi due volte, non solo da quei killer e soprattutto dai mandanti ‘eccellenti’ rimasti regolarmente a volto coperto: ma anche da una giustizia che ha solo depistato in modo clamoroso e, soprattutto, vergognoso.
La Voce ha dedicato decine di inchieste al caso. Potete rileggerne alcune cliccando sui link in basso.
SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA
Trascorrono anni e anni di indagini ‘scientificamente’ a vuoto, con decine di inquirenti che si rimbalzano, in modo macabro, i fascicoli bollenti.
Solo il primo magistrato incaricato delle indagini, Giuseppe Pititto, aveva visto giusto e cominciato a percorrere le piste ad hoc: molto pericolose, perché arrivavano a toccare ambienti istituzionali. Quella toga, perciò, andava subito rimossa: ed è così che, per incanto, Pititto diventa ‘ambientalmente incompatibile’ e viene trasferito in un altro distretto giudiziario.
Indagini sciatte e intenzionalmente fuorvianti alla fine vengono indirizzate unicamente contro un giovane somalo, Hashi Omar Assan, che non c’entra niente con la vicenda.
Ma tanto serve a ‘sbattere il mostro in prima pagina’, ‘far bella figura’ e fregarsene di cercare i veri esecutori e mandanti.
Ed è così che la giovane vittima designata dalla giustizia (sic) di casa nostra finisce nel tritacarne, condannato nei tre gradi di giudizio senza prove (anzi con prove taroccate) e si becca una condanna senza fine.
Che sconta per ben 17 anni, quando succede, una volta tanto, il miracolo.
Un’inviata di “Chi l’ha visto”, Chiara Cazzaniga, fa quel che le nostre forze dell’ordine e soprattutto gli inquirenti non hanno mai voluto fare. Cioè trovare l’unico teste d’accusa servito a far condannare Omar Assan: si tratta di Ali Rage, alias Gelle. Il quale – incredibile ma vero – non solo non ha mai testimoniato in aula, ma è stato ‘gentilmente’ invitato a fuggire all’estero!
Per mesi ha vissuto tranquillamente a Roma, occupato in un’officina meccanica, addirittura accompagnato al lavoro con un’auto della nostra polizia di stato. Quindi si è provveduto ad organizzare la fuga, padròn la partenza. E’ stato accompagnato alla stazione, messo su un treno e spedito in Germania. Qualche mese di vacanza in terra tedesca, quindi il trasferimento in Inghilterra. Un’organizzazione meticolosa, da perfetta agenzia di viaggi.
Ed è proprio a Londra che l’ha trovato la coraggiosa e benemerita Cazzaniga. Lo ha intervistato e Gelle ha vuotato il sacco: è stata tutta una montatura, Omar Hassan non c’entra niente, lui è stato costretto a raccontare quella versione costruita da altri e ad indicare nel giovane somalo – che neanche conosceva – l’autore del duplice delitto.
IL COLOSSALE DEPISTAGGIO DI STATO
A questo punto il legale di Omar Hassan chiede la riapertura del caso.
Ed il tribunale di Perugia non fa fatica ad accertare la totale estraneità di Omar Hassan all’eccidio di Mogadiscio, assolvendolo da ogni accusa e rimettendolo in libertà: ma attenzione, dopo aver scontato 17 interminabili anni di galera. Lo Stato italiano, però, è generoso, e dopo pochi mesi l’ingiusta (sic) detenzione verrà ‘risarcita’ con 3 milioni e 180 mila euro. Spiccioli per una vita distrutta.
La sentenza di Perugia dovrebbe essere letta non solo in tutte le aule di tribunale di un paese nel quale la giustizia è ormai una pura utopia: ma anche in tutte le scuole e in quelle tivvù che (in buona compagnia della carta stampata) fanno solo autentica disinformazione, infarcendo di bufale e fake news i cittadini, come plasticamente e drammaticamente si vede in queste settimane con il conflitto in Ucraina.
Una sentenza, quella perugina, che parla senza mezzi termini di “depistaggio di Stato”, di indagini taroccate, di false piste: insomma, un vero museo degli errori & degli orrori, dal quale sarebbero dovuti scaturire un’inchiesta, e quindi un processo, proprio a carico di quei depistatori: che hanno nomi, cognomi e indirizzi ben precisi e chiaramente desumibili dall’imperdibile testo della sentenza, che fa – è proprio il caso di dire – storia.
Ma eccoci agli ennesimi paradossi.
DA PERUGIA AL PORTO DELLE NEBBIE
Non solo non è stato aperto alcun fascicolo giudiziario per accertare fino in fondo le responsabilità dei depistatori e portarli finalmente alla sbarra.
Ma addirittura il fascicolo perugino trasmesso alla Procura di Roma, affinché venisse riaperto il caso di Ilaria e Miran, sta ancora ammuffendo negli uffici di quel ‘porto delle nebbie’, oggi tale più che mai.
Ecco, infatti, cosa è incredibilmente successo dopo la sentenza di Perugia.
Il fascicolo è stato assegnato al pm capitolino Elisabetta Ceniccola, che non ha ravvisato, nei materiali perugini, elementi tali e sufficienti da giustificare la riapertura del caso e l’avvio di un nuovo processo.
Incredibile ma vero.
Quindi Ceniccola ha chiesto l’archiviazione del caso. La sua richiesta è stata controfirmata, come succede nelle vicende di maggior peso, dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone.
A questo punto manca solo la decisione del gip. Si tratta di Andrea Fanelli che tiene tra le sue mani il fascicolo per mesi e alla fine chiede al pm di approfondire alcuni punti, ben precisi, e li elenca: una dozzina di fatti circostanziati.
Ma che succede? Ceniccola sbriga presto il lavoro e, a suo giudizio, non ravvisa elementi utili a proseguire con ulteriori indagini. Tutto, secondo lei, è chiaro. Quindi chiede, per una seconda volta, l’archiviazione. E anche stavolta la richiesta viene controfirmata, quindi pienamente avallata, da Pignatone. Praticamente l’ultimo ‘atto’ compiuto da Pignatone in qualità di procuratore capo: va infatti in pensione. Ma presto è chiamato ad occupare una nuova, prestigiosa poltrona: quella di Presidente del Tribunale della Città del Vaticano.
Ma torniamo al caso Alpi-Hrovatin, dove il copione si ripete.
Il fascicolo torna al gip Fanelli che deve convalidare la richiesta di archiviazione oppure decidere di proseguire. La prosecuzione delle indagini, ritualmente, viene ottenuta di sei mesi in sei mesi.
Ebbene, Fanelli ne ha ottenuta una, poi delle altre non si ha più notizia.
Tutto finisce nelle solite nebbie capitoline.
Ad oggi, infatti, tutto è ancora fermo.
Firmato Franz Kafka.
P.S. Strenuamente continua, quasi nel deserto, la battaglia di ‘Ossigeno per l’informazione’, la coraggiosa associazione fondata e animata una quindicina d’anni fa da Alberto Spampinato, fratello del giornalista dell’Ora di Palermo Giovanni Spampinato, ammazzato il 27 ottobre 1972 dal fascista Roberto Campria, figlio dell’allora presidente del tribunale di Ragusa
‘Ossigeno’ svolge una meritevolissima opera di informazione e monitoraggio sulle minacce ricevute quotidianamente dai giornalisti, non solo di tipo mafioso, ma anche ‘giudiziario’, cioè attraverso querele penali e citazioni civili che spesso e volentieri sono una vera e propria intimidazione contro giornalisti colpevoli solo di fare il loro dovere, spesso in territori border line e in contesti ad alto tasso criminale.
Per ricordare Ilaria Alpi e le vittime innocenti delle mafie, ‘Ossigeno’ ha promosso una ‘Giornata della Memoria e dell’Impegno’ che si svolgerà a Roma il 21 marzo, dalle 10 alle 13, presso la ‘Casa del Jazz’, che si trova in viale di Porta Ardeatina 55.
Ecco la locandina dell’evento.
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