Quella mattina del 17 febbraio 1992 eravamo proprio a Milano.
Nel primo giorno di ‘Mani Pulite’ con l’arresto di Mario Chiesa, all’Università Statale si presentavano due libri: “La Milano da bere”, firmato da Gianni Barbacetto ed Elio Veltri; e “ ‘O Ministro – La Pomicino story-”, scritto a Andrea Cinquegrani, Enrico Fierro e Rita Pennarola.
Due libri che dal fronte meneghino e da quello partenopeo già aprivano ampi scenari nel più perfetto copione di Tangentopoli.
Due j’accuse in grado di mettere a nudo i perfetti meccanismi corruttivi che andavano avanti da anni, senza che mai si muovesse una foglia, senza che nulla potesse scuotere i Palazzi del Potere, alle prese con la scientifica spoliazione delle risorse pubbliche, un autentico assalto alla diligenza, la manna continua degli appalti pubblici arcimiliardari che finivano alle solite imprese, alle consuete sigle di riferimento delle correnti, DC in pole position.
QUEL PERFETTO ‘SISTEMA’ A TRE
Un copione andato in scena con gran successo a partire dal 1980, grazie ai fondi del post terremoto 1980 per la Campania e la Basilicata, 65 mila miliardi di vecchie lire tanto per gradire: un sistema di appalti & subappalti a prova di bomba, il sistema delle ‘concessioni’ permeabilissimo alle infiltrazioni mafiose, tanto da creare quel patto d’acciaio a tre, ossia imprese, partiti & mafie (camorra, ‘ndrangheta e mafia a piacere). La Voce ha dettagliato quel ‘Sistema’ in un altro libro-j’accuse, ‘Grazie Sisma – Dieci anni di potere e terremoto’, scritto sempre a sei mani (Cinquegrani-Fierro-Pennarola), edito dalla Voce proprio a dieci anni dal sisma, nel 1990.
Quel copione, pari pari, verrà utilizzato esattamente dieci anni dopo, quando bisogna dar l’assalto alle nuove vagonate arcimiliardarie, quelle dedicate al nascente ‘Treno ad Alta Velocità’, il mitico TAV che garantirà fiumi di danari pubblici per anni e anni e consoliderà quel patto scellerato, per la gioia di imprenditori taroccati, faccendieri, politici e uomini di rispetto.
La Voce ha dettagliato passo passo, anno per anno, quel saccheggio scientifico, dal terremoto fino all’alta velocità e oltre. Seguendo il filo di aziende, sigle, incroci, connection tra colletti bianchi e boss, uniti nei business, nel sempre più vorticoso giro di commesse pubbliche.
Anche la magistratura aveva cominciato a fare sul serio: con l’inchiesta sugli appalti per la realizzazione della Pozzuoli bis, “l’affare Monteruscello”. Un’indagine ‘storica’ ma stoppata in modo ‘scientifico’, perché avrebbe significato alzare troppo presto il coperchio di Tangentopoli: i tempi non erano ancora maturi, perché stiamo parlando del 1984. Ecco, in sintesi, cosa era successo.
Per i maxi appalti di Monteruscello s’erano dati tutti appuntamento, secondo lo schema che si stava consolidando: grandi imprese nazionali (un esempio per tutti, la fiorentina ‘Pontello Costruzioni’, allora in auge perché faceva capo agli allora patròn della squadra gigliata), grandi politici di riferimento (Paolo Cirino Pomicino, il dc Enzo Scotti che passerà poi al Viminale), i faccendieri giusti (Vincenzo Maria Greco per Pomicino, Aldo Boffa per Scotti), i clan del momento (come i fratelli Sorrentino di Torre del Greco, ottimi amici di Pomicino).
Una grande inchiesta che ha visto in campo le migliori energie della magistratura partenopea di allora: Franco Roberti, che molti anni dopo diventerà procuratore nazionale antimafia, Paolo Mancuso (per anni procuratore capo a Nola), Luigi Gay (poi procuratore capo a Potenza).
Ma quell’inchiesta ‘doveva morire’, doveva essere archiviata in istruttoria: perché mirava – e colpiva – troppo in alto; e anche troppo ‘in anticipo’.
Per questo il procuratore capo dell’epoca, Alfredo Sant’Elia, su preciso imput di Scotti, mise il coperchio sull’inchiesta e lo chiuse in modo ferreo.
Tutto ok.
Come incredibilmente è finito a tarallucci e vino (solo poche e risibili condanne per pesci piccoli) il maxi processo, durato anni e costato vagonate di soldi pubblici allo Stato, per la ricostruzione dopo terremoto, che pure poteva contare sul possente j’accuse formulato dalla ‘Commissione Scalfaro’ , la quale ne aveva accertate di cotte e di crude. Invece niente, tutto finito in beata prescrizione. E sapete perché? Perché il pool di inquirenti (addirittura quattro pm) si era ‘dimenticato’ un ‘bis’, nel mare magnum di faldoni & scartoffie: quel bis che, unito al classico 416, avrebbe consentito di procedere per la ovvia ‘associazione a delinquere di stampo mafioso’, con tempi di prescrizione di gran lunga maggiori rispetto ad appena 7 anni e mezzo per i tre gradi di giudizio.
E sapete come mai non scattò quel fatidico ‘bis’? Perché gli inquirenti non avevano trovato tracce di presenza camorristiche in tutta la connection: quando anche i sassi sapevano che la camorra era il terzo convitato al banchetto della spartizione dei fondi, con il suo buon 20-25 per cento. Eppure dei boss, nei lavori per il dopo sisma, nessuna traccia! Tutti fantasmi…
Ma veniamo, adesso, alla polpa della Mani Pulite nazionale: quella che parte dal pool di Milano, incaricato – secondo il Davigo pensiero – di ‘rivoltare l’Italia come un calzino’.
E vediamo subito cosa succedeva solo qualche mese prima di quel fatidico 17 febbraio 1992.
QUEI CORDIALI INCONTRI AL CONSOLATO AMERICANO
Lo racconta, esattamente 20 anni dopo, l’allora console generale degli Stati Uniti a Milano, Peter Semler, nel corso di un’intervista rilasciata il 28 agosto 2012 all’inviato de ‘La Stampa’ Maurizio Molinari, oggi al timone di ‘Repubblica’.
Ecco alcuni passaggi di quel lungo amarcord: “Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini. Fu lui che mi cercò attraverso Bagioli (un funzionario italiano del consolato, ndr). Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre. Mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la DC”.
Prosegue il racconto: “Lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse pubblica. Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato”.
“Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al consolato”.
“Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo con continuità”.
“Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro”. Peter Secchia ricopriva la carica di Ambasciatore statunitense a Roma.
Facciamo un salto di circa un anno, ed eccoci alla vigilia del Natale 1992, e stavolta ci affidiamo alla penna di Felice Cavallaro per parlare di una istruttiva cenetta, un ‘vertice enogastronomico’ come lo dipinge l’inviato del Corsera in un reportage uscito anche in questo caso molti anni dopo, il 2 febbraio 2010. Lasciamo a lui la parola.
CENA & SERVIZI
“Alcune foto inquietano Antonio Di Pietro. 12 foto scattate il 15 dicembre 1992 con il futuro leader di Italia dei Valori seduto a tavola, durante una cena conviviale in una caserma dei carabinieri, tra alcuni ufficiali arruolati nei Servizi segreti, uno 007 eccellente come Bruno Contrada e un altro James Bond vicino alla CIA arrivato da Washington per una targa ricordo della famosa ‘Kroll Secret Service’ da consegnare all’ospite (Di Pietro, ndr)”.
Commenta Cavallaro: “Di Pietro non avrebbe informato di quella cena con Bruno Contrada né i suoi colleghi del pool di Milano né i magistrati di Palermo che il 24 dicembre disposero l’arresto di Contrada. Anzi, quel giorno scatta la caccia alle foto per distruggerle”.
Ancora: “Adesso l’ex magistrato ricorda di aver incontrato lì per caso Contrada”.
Ma chi aveva accompagnato, quella sera, Di Pietro all’allegra cenetta?
Cavallaro lo scopre: “L’Ufficiale dei carabinieri Francesco D’Agostino, soprannominato ‘El Tigre’, amico e frequentatore del banchiere italo-svizzero Pier Francesco Pacini Battagliache uscì indenne dagli interrogatori avvenuti prima delle scenografiche dimissioni di Di Pietro. Con soddisfazione del maggiore, in seguito al centro di un discusso prestito di 700 milioni elargito dallo stesso Pacini Battaglia”.
Prosegue la minuziosa ricostruzione di Cavallari: “Quel 15 dicembre 1992 D’Agostino è un fidatissimo collaboratore di Di Pietro. E’ con lui che va alla cena, lasciando tornare a Milano da solo Gherardo Colombo, dopo la notte dell’avviso e dopo aver trascorso insieme la mattina a Roma, al CSM, per un convegno. Di Pietro è così l’unico magistrato presente al vertice enogastronomico con gli alti gradi dei Servizi e con l’ ‘l’americano’ Rocco Maria Modiani, a tutti presentato come il responsabile della cosiddetta ‘CIA di Wall Street’, la KROLL, la più grande organizzazione d’investigazione d’affari del mondo”.
Continua come un fiume in piena – e zeppa di news – la gustosa narrazione firmata da Cavallari: “Di Pietro, davanti a sospetti e insinuazioni, passa al contrattacco, inserendo qualche errore tra i ricordi.
‘Si vuol far credere, attraverso un dossier di dodici foto mie con Mori, Contrada e funzionari dei servizi segreti, che io sia o sia stato al soldo dei servizi segreti deviati e della CIA per abbattere la Prima Repubblica, perché così volevano gli americani e la mafia’”.
“Una citazione errata – osserva Cavallari – quella di Mori (Mario Mori, il comandante del ROS dei carabinieri, ndr), estraneo alla cena derubricata da Di Pietro al rango di ‘bufala o trappola’”.
E rammenta, Cavallari, la puntata di ‘Annozero’ condotta da Michele Santoro e con la partecipazione di Di Pietro e Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito. In quella occasione il pm raccontò “di essere stato informato, alcuni giorni prima della strage di Capaci, di una relazione del ROS su un attentato preparato contro lo stesso magistrato e contro Paolo Borsellino. Con una differenza: che a Borsellino la nota fu inviata per posta e mai recapitata, mentre a lui (Di Pietro, ndr) fu consegnato un passaporto con nome di copertura, Mario Canale, per rifugiarsi all’estero: come fece, andando in Costa Rica, ma lasciando i figli a casa. Eppure, anche la storia della fuga del ‘Signor Canale’ è venuta fuori solo a 17 anni di distanza”. Tutto, regolarmente, a scoppio stra-ritardato…
Scrive ancora Cavallari, nel suo lungo reportage, su quel ‘vortice giudiziario di fine ‘92’. “In quei giorni Di Pietro non lavora solo su Craxi, ma anche sulle storie siciliane. Segue l’asse Mafia-Appalti, come farà nei mesi successivi andando a trovare, con l’allora capitano Giuseppe De Donno (il braccio destro di Mori al ROS, ndr), a Rebibbia, don Vito Ciancimino. Un incontro che sarà poi dimenticato”.
Cosa successe in quell’incontro ‘storico’ menzionato da Cavallari? Il silenzio più assoluto. Venne redatto un verbale di interrogatorio? Come mai su tutta la vicenda calò un totale muro di gomma?
Stesso copione in un’altra vicenda molto simile. Ossia l’interrogatorio, sempre a Rebibbia, e sempre di un altro pezzo grosso, l’uomo che tutto sa su Mafia & Appalti, la gola profonda che permesso al ROS di ricostruire tutte le tessere del mosaico in quelle 800 e passa pagine di fuoco, il cuore della Tangentopoli 2, quella ancor più deflagrante (se mai fosse scoppiata), perché tirava in ballo- e documentava – i mega rapporti d’affari tra le grandi imprese del Nord e quelle mafiose, con la supervisione dei big politici di riferimento: il famigerato asse Imprese (del nord e del sud, stavolta), Mafia, Politica. Cin cin.
Eccoci quindi al secondo interrogatorio clou effettuato, in totale segretezza, da un Di Pietro in missione romana, a Rebibbia, per un faccia a faccia con il geometra Giuseppe Li Pera, l’uomo della friulana ‘Rizzani De Eccher’ in Sicilia, e che ha già ‘vuotato il sacco’ con il pm catanese Felice Lima, le cui inchieste – però – sono state stoppate.
Cosa altro vuol sapere Di Pietro dal depositario di tanti segreti, Li Pera? Anche di quel verbale non c’è traccia. Come mai?
E passiamo, a questo punto, ad un altro tassello base di tutta la story, in grado di rivelare la reale volontà del pm Di Pietro di alzare il velo su Tangentopoli
L’UOMO A UN PASSO DA DIO
Per far ciò torniamo a quel Pier Francesco Pacini Battaglia, detto Chicchi, di cui ha parlato Cavallaro nella sua preziosa ricostruzione.
La Voce ha più volte dettagliato il giallo, l’autentico snodo di Mani Pulite, la vicenda che fornisce la vera chiave di lettura di Tangentopoli, e fa capire una volta per tutte agli italiani quello che “avrebbe potuto essere e non è stato”, la Giustizia tradita, la Sceneggiata andata in onda con una regia ‘perfetta’, seguendo il copione ‘amerikano’.
Quel giallo è stato descritto in modo perfetto in un libro che tutti i cittadini dovrebbero consultare come un manuale, un vero pugno nello stomaco, un j’accuse in piena regola e uscito quasi un quasi un quarto di secolo fa: stiamo parlando di “Corruzione ad Alta Velocità”, firmato da due grandi collaboratori della Voce, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, due voci di cui sentiamo profondamente la mancanza per l’immenso contributo che hanno dato alla Giustizia, alla ricerca della Verità, all’Informazione.
‘Corruzione ad Alta Velocità’ ne è la plastica dimostrazione. Nel volume, infatti, attraverso l’affare TAV, con ogni probabilità il più grande caso di corruzione a livello nazionale, viene fornita la vera chiave di lettura per capire come Tangentopoli sia stata tradita, il suo spirito (o meglio quello spirito che gli italiani avevano intuito) del tutto calpestato, falsato: tutto cambi perché niente cambiari, anzi peggiori, e di molto. In perfetto stile gattopardesco.
Don Tonino Di Pietro è l’esecutore perfetto di questo piano, il killer scientifico di quelle speranze, di quella ansia di giustizia andata in frantumi, fatta in mille pezzi.
Riassumiamo rapidamente i fatti salienti, invitandovi a cliccare sui link in basso per una più completa visione d’assieme, a cominciare dall’inchiesta scritta esattamente cinque anni fa, 14 febbraio 2017, per ‘celebrare’ (sic) un quarto di secolo da Mani Pulite.
Fu il fiero pm ad etichettare il ‘suo’ inquisito, Pierfrancesco Pacini Battaglia, come l’Uomo a un passo da Dio. L’uomo, cioè, che non solo conosce i mille segreti dell’Alta Velocità, ma di tutti i grandi appalti pubblici, dei grandi affari: per fare un solo esempio, il giallo Enimont, la madre di tutte le tangenti.
La Voce, ad inizio anni ’90, scopre il nome di quel banchiere italo-svizzero, tra le carte del caso Kollbrunner, a bordo della sua cassaforte elvetica, ‘Karfinco’, in cui erano custoditi tanti segreti, anche targati P2. E poi anche a scandagliare i fondali di Ustica, a caccia di altri misteri, quelli dell’Itavia inabissatosi per il missile francese (quella verità prima o poi verrà a galla), nientemeno che in compagnia di Eugenio Buontempo, il mattonaro della ricostruzione post sisma e numero uno della sinistra ferroviaria griffata Claudio Signorile. E ancora, alle prese con i primi appalti della nascente TAV, stavolta a bordo di ‘Orox finanziaria’, altra sigla misteriosa.
Ma torniamo a bomba, cioè a Di Pietro. Alle prese anche con le maxi inchieste del Pool milanese sugli appalti. Pacini Battaglia è una fonte preziosissima, è appunto l’Uomo a un passo da Dio. Può essere utile, ‘ottimo e abbondante’, anche per districare la matassa TAV. Ed è per questo che don Tonino chiede ai pm della procura romana di avocare a sé quel filone d’inchiesta, che verteva sui versanti politico-amministrativi.
Gli inquirenti capitolini obbediscono, a quel punto tutta la maxi inchiesta sull’Alta Velocitàè concentrata alla procura di Milano, Pacini Battaglia è un inquisito completamente ‘gestito’ da Di Pietro.
UN ASSO NELLA MANICA
E come si difende ‘Chicchi’?
Quale baluardo erige a sua protezione e per parare i colpi del pm può agguerrito d’Italia, il pubblico ministero senza macchia e senza paura che fa tremare politici e manager di tutto il Paese?
Non deve badare a spese, ha mezzi a iosa, può quindi arruolare il principe del foro milanese – e ce ne sono tanti – e invece, contro ogni pronostico, che fa? Sceglie un signor nessuno, un avvocato fino a quel momento senza né arte né parte: viene dal Sud, dall’Irpinia e si chiama Giuseppe Lucibello.
Ma ha un gran pregio, Lucibello, un asso nella manica.
E’ subito diventato un grande amico del pm da Montenero di Bisaccia: cuori di campagna non mentono, Dio li fa e poi li accoppia, anche sotto il profilo professionale.
E così, miracolosamente, il classico pugno di ferro fino a quel momento usato da don Tonino con i suoi imputati si trasforma in un guanto di velluto. La sua grinta, prodigiosamente, si scioglie come neve al sole. Niente gattabuia, per il Grande Imputato, l’Uomo a un passo da Dio, neanche un giorno al fresco per schiarirsi le idee e poi vuotare il sacco.
Niente di niente, subito libero come un fringuello, il Chicchi. E per giunta senza aver raccontato niente di rilevante sotto il profilo penale e utile per la maxi inchiesta TAV.
Dopo un po’ – come rammenta Cavallaro – Di Pietro abbandona la magistratura, getta sul banco la toga. Per tuffarsi, poi, in politica. Tutta un’altra storia.
L’inchiesta sulla TAV finirà, man mano, nel dimenticatoio. Sotto coltri di naftalina. I ‘manovratori’, le ‘menti’ di quei grandi affari totalmente impuniti, liberi di svaligiare per anni e anni – fino ad oggi e chissà ancora per quanto – le generose casse dello Stato.
Le ‘strane’ inchieste di Di Pietro, le vicende di tanti suoi inquisiti finiranno al vaglio degli inquirenti di Brescia, che assolveranno don Tonino dalle accuse… con un ‘ma’: quelli del pm sono stati comportamenti non rilevanti (quindi non punibili) sotto il profilo penale, ma moralmente, deontologicamente e professionalmente censurabili.
Il giallo Pacini Battaglia-Lucibello, pur chiarissimo nei suoi meccanismi, ‘ufficialmente’ non ha avuto alcuna ‘soluzione’ giudiziaria. Almeno finora.
Ma un ‘sussulto’ si è registrato a fine 1996. Quando Pacini Battaglia si sveglia dal letargo e racconta qualcosa. Ricorda di essere stato ‘sbancato’ (tutti avevano udito nelle intercettazioni ‘sbiancato’), rilascia un’intervista al Corriere della Sera dove rivela che l’uscita da Mani pulite gli è costata cara.
Pensate, a quel punto, che qualcosa si sia mosso? La magistratura si sia attivata per capire meglio il comportamento di un ex collega?
Niente di niente. Il procuratore capo di Milano, Francesco Saverio Borrelli, infastidito, gira la testa dall’altra parte. Intervistato dall’Adn Kronos, l’11 ottobre 1996 dichiara: “Posso fare un’affermazione con assoluta certezza: non ho mai conosciuto Pacini Battaglia”. E, laconico, aggiunge: “Cosa volete che vi dica… nulla. Potrei dire qualcosa solo quando conoscerò le trascrizioni di quelle telefonate”.
E TANGENTOPOLI CONTINUA. IMPUNEMENTE
Per finire, qualche cenno storico. E qualche data. Per conservare la ‘Memoria’.
7 febbraio 1992. Sulle rive della Mosa, i dodici paesi dell’allora Comunità europea firmato il ‘Trattato di Maastricht’, che entrerà in vigore il primo novembre ’93.
17 febbraio. Al ‘Pio Albergo Trivulzio’ di Milano viene arrestato Mario Chiesa.
2 giugno 1992. A bordo del ‘Britannia’ si incontrano i Potenti della Terra per decidere i destini dell’Italia. La celebre nave di queen Elizabeth attracca nel porto di Civitavecchia e fa poi rotta lungo la costa toscana, vero l’Argentario. Sono ospiti banchieri, imprenditori, finanziari, manager italiani e, soprattutto, stranieri, arrivati per ammirare, prenotare e comprare i pezzi pregiati dell’industria di casa nostra.
Fa gli onori un padrone di casa perfetto, inappuntabile: è il Direttore generale del ministero del Tesoro di allora, Mario Draghi.
Il suo discorso di apertura (poi, come in un film, salutò gli ospiti che salpavano) è stato, chissà perché, ‘dimenticato’. Ed invece va letto: per ‘capire’, soprattutto a distanza di trent’anni suonati, e ancor più perché quel perfetto padrone ha ancor oggi in mano le chiavi di casa. Nostra.
Ecco alcuni passaggi.
“Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico”.
“Durante gli ultimi quindici anni, sono stati realizzati alcuni progressi nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato. Ma per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco”.
“La privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, riscrive confini tra pubblico e privato che mai sono stati messi in discussione da cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è una importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile”.
“Dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali, per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari”.
“Lasciatemi sottolineare che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremo realizzarle insieme”.
“Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’adesione al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo”.
Parole che, a distanza di 30 anni, fanno venire i brividi.
Avete mai visto, in questi 30 anni, l’ombra di una riforma, anche una sola?
Quando ne continuiamo a blaterare ancora oggi, per poter usufruire dei soldi del PNRR? E ne parla – incredibilmente – quello stesso Draghi di allora?
Avete mai visto l’ombra di una riforma fiscale? Di cui anche oggi non si vede neanche lo straccio? E con un Draghi, sempre lui, arroccato a difendere i privilegi degli evasori?
Abbiamo assistito, invece, a quelle privatizzazioni. A quei regali di Stato agli amici, a quella svendita dei gioielli di casa. Senza che nessuna inchiesta sia stata aperta. Senza che un magistrato abbia alzato un dito.
E’ questa la vera Tangentopoli: che non va mai a dormire.
Ne siamo certi.
Che, impunemente, fa a pezzi e bocconi i nostri diritti, la nostra carta costituzionale. La Giustizia, quella vera.
Le nostre vite.
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