Forse ci vorranno altri dieci anni perché qualcuno, magari all’estero, vista l’eterna piaga omertosa dell’Italia, riconosca la verità su come andarono veramente le cose sulla tragica notte del 13 gennaio 2012, perché qualcuno risponda all’ovvia e scontata domanda di come e perché il comandante della più grande nave mai costruita in Italia, Francesco Schettino, colui che aveva guidato il colosso lungo quella rotta altre decine di volte, quella notte la portò a schiantarsi sugli scogli delle Scole, che conosceva a menadito, commettendo il fatale errore che nemmeno un mozzo alle prime armi avrebbe commesso girovagando col gommone.
La Voce lo ha scritto, documentato e raccontato fin dai primi giorni, con tanto di testimone, il medico spagnolo Jesus Bethencourt che un anno prima, rimasto solo a bordo della sua cabina sul Costa Concordia nel medesimo luogo e in quello stesso orario, mentre tutti festeggiavano nei saloni superiori, aveva visto le strane luci accendersi e spegnersi sulla costa del Giglio, segnali, manovre oscure, forse per trasportare a bordo grossi borsoni, magari quelle sostanze su cui nessuno può, per legge, investigare durante la navigazione, tranne il comandante che è, fino all’approdo, il dominus assoluto della nave.
Non ci sarebbe voluto molto per la Procura di Grosseto, in oltre cinque anni di processo, almeno a convocare quel teste, il quale del resto non aveva parlato alla Voce, bensì al quotidiano delle Canarie ABC, da cui avevamo ripreso la sua testimonianza.
Invece niente. Come tante volte accaduto nella storia della “giustizia” all’italiana, la pista della malavita organizzata, dei boss che magari da tempo ricattavano i comandanti per i loro traffici – come peraltro era già stato dimostrato dalla Procura di Firenze nel caso di un’altra nave – beh, quella pista era meglio non toccarla. Bastava far bere agli italiani creduloni la pista del famoso “inchino”, che nessuna persona sana di mente avrebbe osato propinare all’opinione pubblica, né tanto meno credere.
Ci fa tornare alla mente il caso della piccola Yara Gambirasio. Anche quella volta la Voce aveva documentato che la camorra faceva affari in certi cantieri della bergamasca, che una famiglia di imprenditori edili originari del vesuviano era diventata così potente da incontrare alle feste magistrati ed altri esponenti della polizia giudiziaria locale. E che il papà della bambina probabilmente di lì a poco avrebbe dovuto testimoniare su quello che stava succedendo.
E anche lì, niente. Quei fili incandescenti non si toccano. Meglio far bere agli italiani – ancora una volta – che un padre di tre figli della stessa età della piccola Yara, la aveva uccisa non si sa bene come né perché. Si sa solo che quell’uomo è all’ergastolo, dal carcere continua ad urlare la sua innocenza e i suoi tenaci avvocati ancora, giustamente, non mollano, perché le prove del DNA non tornano. E non sono mai tornate.
Niente di niente pure per Melania Rea, ammazzata con modalità tipiche della camorra, con quel gesto esemplare che i clan commettono – ricordate la siringa piantata sul petto della povera ragazza? – per far sapere anche agli altri “capuzzielli” che non si traffica la droga in autonomia, bisogna trattare prima con loro. Ma anche là, tutti zitti. Perché si sa, se parli te la fanno pagare due volte.
Così Schettino tace, si fa i primi cinque anni di carcere, studia giurisprudenza a Rebibbia e ora spera che per buona condotta gli altri 11 gli vengano commutati in affidamento ai servizi sociali.
Salvatore Parolisi, marito di Melania, dietro le sbarre di Bollate ha ripreso anche lui gli studi e soprattutto coltiva la relazione con una nuova donna.
Nel filo rosso che collega queste tre tragiche vicende c’è un solo vincitore: i clan della camorra che, grazie ai loro tentacolari collegamenti con pezzi delle istituzioni, ma forse principalmente per il forte potere d’intimidazione nei confronti di inquirenti sempre più timidi, timorosi e impreparati, continuano ad ingrossare le casse del loro strapotere economico.
Però, almeno, dopo dieci anni di omertà smettiamola di parlare di bufale come “l’inchino”.
Non è solo un’offesa alle capacità cognitive degli italiani. E’ anche un oltraggio alle vittime.
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