MARIO MORI / LA SUA “VERITA’” SUL COVO DI TOTO’ RIINA

Le verità del generale Mario Mori sul covo di Totò Riina.

E’ questo lo scoop del secolo piazzato in apertura del ‘Riformista’, diretto dall’ex compagno Piero Sansonetti e pubblicato da mister Consip, al secolo Alfredo Romeo, ora in attesa del processo che lo vedrà tra gli imputati insieme a Babbo Renzi.

La mancata perquisizione di quel covo è uno degli episodi più bui e torbidi della nostra martoriata storia. La Voce ne ha scritto più volte nel corso degli anni. In una grossa inchiesta di metà anni novanta, in particolare, riferivano notizie ricevute da una fonte più che autorevole, l’avvocato Caterina Malavenda. La quale ci aveva raccontato del processo a carico di due giornalisti, Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, autori di un libro (‘C’era una volta la lotta alla mafia’) e accusati di diffamazione da Sergio De Caprio, alias Capitano Ultimo. Nel corso di un interrogatorio, infatti, ‘Ultimo’ si era scagliato contro i due reporter per aver fatto riferimento alla cassaforte contenente i 2000 nomi.

Di quell’archivio da 2000 nomi, in realtà, nel libro non v’era alcuna traccia. La classica coda di paglia, per Ultimo, la rituale excusatio non petita.

Motivo per cui, quella cassaforte esisteva per davvero, ben compreso quell’archivio da 2000 nomi. “Un archivio che avrebbe fatto saltare tutta l’Italia”, sottolineò una collaboratrice di giustizia, Giusy Vitale.

Il capitano Ultimo. In apertura Mario Mori

Ora, però, candido come un giglio, Mario Mori nel suo memoriale pubblicato dal Riformista, nelle sue toccanti rimembranze dice che quella cassaforte non è mai esistita. Inventata di sana pianta.

Leggiamo le sue parole: “In particolare viene sempre citata l’esistenza di una cassaforte, contenente chissà quali segreti, che sarebbe stata smurata ed asportata dall’abitazione del boss e a nulla vale presentare la fotografia, scattata dopo anni e agli atti dei procedimenti giudiziari, che ritrae il mio avvocato, il senatore Pietro Milio, a fianco della cassaforte ancora ben infissa nel muro”.

E allora: perché in una prossima puntata che di certo il quotidiano griffato    Sansonetti sarà ben lieto di ospitare il generale non spiega a tutti il mistero delle parole pronunciate non da uno qualsiasi, ma nientemeno che dal suo braccio destro, Ultimo? Perché i due militari, almeno, non forniscono una versione unica?

Minimizza ironico, l’ex capo del ROS dei carabinieri, su “quali segreti mai” avrebbe potuto contenere. Secondo lui un archivio con 2000 nomi, un formidabile strumento di ricatto in mano alla mafia, è robetta? Quisquilie? Pinzellacchere?

Si arrampica sugli specchi nel suo memoriale, il generale, per spiegare il totale non-controllo, per ben 15 giorni, non 24 ore, del super covo; e la sua mancata perquisizione.

Fornisce spiegazioni davvero grottesche, che non reggono neanche ad una folatina di vento, pezze a colori non poco scolorite.

Ecco il suo racconto: “Subito dopo la cattura del capo di ‘cosa nostra’, nella riunione tra magistrati e investigatori che ne seguì, fu naturalmente considerata l’ipotesi dell’immediata perquisizione della sua abitazione. Prospettata dal capitano Sergio De Caprio, e da me sostenuta, prevalse la decisione di non effettuare la perquisizione. La proposta derivava dalla

considerazione che il Riina era stato appositamente arrestato lontano dal luogo di residenza della famiglia – un suo ‘covo’ non è mai stato trovato – e teneva conto della prassi mafiosa di non custodire, nelle proprie abitazioni, elementi che potessero compromettere i parenti stretti. Questa soluzione – aggiunge – avrebbe potuto permetterci lo sviluppo di indagini coperte sui soggetti che gli assicuravano protezione, senza che fosse nota la nostra conoscenza della sua abitazione”.

Prassi mafiose? Altre indagini coperte? Da ridere. Anzi, da piangere.

Ma ecco che, dal magico cilindro del generale, spuntano i veri colpevoli, i soliti giornalisti ficcanaso. Così racconta sulle colonne del ‘Riformista’:     “L’improvvida indicazione dell’indirizzo ad opera di un ufficiale dell’Arma territoriale di Palermo, che consentì alla stampa dopo circa 24 ore dalla cattura, di presentarsi con le telecamere davanti all’ingresso di via Bernini, ‘bruciò’ l’obiettivo e i conseguenti servizi di osservazione del cancello di accesso al comprensorio furono sospesi per il serio pericolo di lasciare dei militari dentro un furgone isolato, esposto a qualsiasi tipo di offesa”.

Antonio Ingroia

Ha la memoria corta, il generale, e non rammenta (almeno non ne scrive nella sua rimembranza per il quotidiano diretto da Sansonetti) un’ulteriore versione fornita in aula, quando è stato processato con Ultimo e poi assolto proprio perché ‘il fatto non costituisce reato’ (!): “la truppa era stanca, i militari erano esausti dopo mesi e mesi di investigazioni e di appostamenti”, in sostanza non si poteva chiedere loro un altro grosso sacrificio, anche era se quello basilare, e cioè, ovvio, di perquisire prima e di presidiare poi quel super covo. La stessa versione venne fornita anche da Ultimo.

Rammentiamo un altro dettaglio. I pm di quella inchiesta erano due toghe da novanta: nientemeno che Antonio Ingroia, icona antimafia poi passato alla politica senza lasciar traccia e quindi tuffatosi nell’avvocatura; e Michele Prestipino, l’attuale procuratore capo a Roma, dopo montagne di polemiche. Rappresentavano l’accusa ma chiesero per ben due volte l’archiviazione. Tutto detto.

 

 

 

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16 Settembre 2017 di Andrea Cinquegrani


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