TRATTATIVA STATO-MAFIA / OTTIMA E ABBONDANTE PER INSABBIARE LA “PISTA APPALTI”

Nella bolgia di colossali stupidaggini dette e scritte dopo la sentenza d’appello che assesta un colpo mortale al teorema della Trattativa Stato-Mafia, ribaltando il verdetto di primo grado, le uniche parole lucide e assennate sono quelle di Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, trucidato con la sua scorta nella strage di via D’Amelio.

Sono concetti che Fiammetta ha già più volte espresso, voce letteralmente solitaria. E per questo ancor più validi oggi. Ecco i passaggi salienti dell’intervista rilasciata all’ADN Kronos.

 

IL FUOCO DI FIAMMETTA 

“Io non li ho mai assolti gli ufficiali dei Carabinieri (Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr), ma ho sempre avuto molti dubbi, dubbi che oggi sono stati confermati dalla giustizia con la sentenza di appello. E poi ho ritenuto scorretto pompare mediaticamente un processo da parte di chi è titolare, prima ancora che questo processo avesse concluso le fasi di giudizio, un comportamento scorretto che mio padre non avrebbe mai approvato. Si è assistito a un lancio mediatico del processo sulla trattativa fin dal suo inizio, quando veniva addirittura pubblicizzato con i libri. Quando non era concluso neppure il primo grado. Altro punto di critica enorme, insieme agli altri”.

Fiammetta Borsellino. Sopra, la lettura della sentenza

“Ripeto, purtroppo io i miei dubbi su questa operazione li avevo espressi fin dall’inizio. La grande amarezza è che queste energie investigative dedicate al processo trattativa potevano essere indirizzate verso delle piste che, secondo me, volutamente non si sono percorse. Ancora una volta, siamo di fronte al fatto che si sono seguite piste inesistenti, quando da sempre abbiamo ribadito che bisognava approfondire quel clima che mio padre viveva dentro la procura di Palermo”.

E sottolinea, Fiammetta: “Si doveva approfondire il filone dei dubbi e del senso di tradimento che mio padre manifestò parlando a mia madre dei colleghi, il perché non si è voluto indagare sul Procuratore Pietro Giammanco. Secondo noi erano queste le piste su cui si doveva indagare, non altre…”.

Eccoci al punto centrale del suo j’accuse: “Per noi l’accelerazione della morte di nostro padre è stata data dal dossier Mafia-Appalti, ma non lo dice la mia famiglia, lo dice il processo Borsellino ter che l’elemento acceleratore è stato il dossier mafia e appalti che è stato archiviato il 15 luglio, cioè pochi giorni prima della strage. Nonostante mio padre il 14 luglio avesse chiesto conto e ragione del perché a quel dossier non venisse dato ampio respiro. Un dossier dei generali Mori e De Donno. Per questo non mi ha mai convinto questa tesi. E i dubbi li ho sempre espressi. Bisogna farsele delle domande. Ho sempre avuto tanti dubbi”.

Parole chiare. Che pesano come macigni.

 

QUELL’ESPLOSIVO DOSSIER MAFIA-APPALTI

Parole molto simili sono state scritte, oltre vent’anni fa, da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato, in un forte e documentato j’accuse che la Voce ha tante volte ricordato. Si tratta del libro ‘Corruzione ad Alta Velocità’, uscito nel 1998, che non solo ripercorre le tappe di uno dei più colossali scandali della nostra storia, ma apre uno squarcio sui veri motivi alla base della strage di via D’Amelio: proprio quel dossier Mafia-Appalti   elaborato dal ROS dei carabinieri e finito sulla scrivania di Giovanni Falcone Paolo Borsellino a febbraio 1991, quindi un anno e mezzo prima delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Antonio Di Pietro

Un dossier-bomba, perché conteneva già all’epoca tutti gli elementi di una super Tangentopoli ante litteram, anzi la vera Tangentopoli e non quella partorita in seguito dalla procura di Milano, orchestrata da un Antonio Di Pietro eterodiretto dalla CIA, come dimostrano i frequenti incontri tra il pm e il console americano a Milano prima dello scoppio di Mani Pulite (incontri rammentati in un’inchiesta di Molinari, allora redattore de la Stampa, e ora direttore di Repubblica).

Ma cosa conteneva di tanto esplosivo quel dossier? Veniva ricostruita, in modo minuzioso, la fitta ragnatela di rapporti e connection tra le grandi imprese del nord e quello mafiose del Sud, in particolare siciliane ma non solo. Venivano fatti dei nomi precisi, indicate delle società di grosso calibro, ricostruiti i rapporti d’affari, indicati i prestanome.

Ecco subito due esempi, tanto per scendere in qualche dettaglio. Si parlava della ‘Calcestruzzi’, uno dei gioielli di casa Ferruzzi: e venivano fatti i nomi degli uomini di riferimento in Sicilia, ovviamente appartenenti ai clan più in vista.

Quando Falcone lesse il nome della Calcestruzzi nel dossier del Ros, ebbe la conferma di sospetti che già nutriva da tempo. Fin dal 1989, quando, riferendosi proprio al gruppo Ferruzzi, disse: “La Mafia è entrata in Borsa!”.

Il libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato

Eccoci ad un altro caso. La napoletana ‘Icla-Fondedile’, uno dei pezzi da novanta non solo nel ricco dopo terremoto e nelle opere per la ricostruzione, ma su tutto il vasto fronte dei lavori pubblici, a cominciare dall’Alta Velocità. Nella relazione di minoranza alla Commissione Antimafia del 1996, firmata proprio da Ferdinando Imposimato, vengono dettagliati i rapporti di Icla-Fondedile con i clan della camorra. Il dossier del Ros corroborava quindi quelle piste investigative già aperte e però battute con scarsa convinzione dagli inquirenti.

I quali, ad esempio, erano già stati allertati dalla corposa documentazione raccolta dalla ‘Commissione Scalfaro’ sugli affari del post sisma, dove l’Icla, impresa molto cara a ‘O Ministro Paolo Cirino Pomicino, la faceva da padrona.

 

A TUTTA ALTA VELOCITA’

Il maxi business Alta Velocità, del resto, è uno dei punti focali del dossier coordinato da Mario Mori e finito sulla scrivania di Falcone e Borsellino. I quali, di tutta evidenza, proprio sul filone TAV si sono rimboccati le maniche nell’ultimo infuocato anno e mezzo di indagini portate avanti prima di essere trucidati.

Motivo ottimo e abbondante, avrebbe detto un pm, per il tritolo di quelle due stragi: leggere e decodificare ‘in tempo reale’ il maxi business dell’  Alta velocità che ha ingrassato intere classi politiche, cosche mafiose, imprese di riferimento, faccendieri e lacchè d’ogni risma, infatti, avrebbe rappresentato il colpo investigativo del secolo. Altro che Trattativa!

Ma quell’inchiesta non si doveva fare. E i due magistrati coraggio dovevano morire.

Paolo Cirino Pomicino

Ovvio lo sdegno di Fiammetta Borsellino, che ricorda tutto l’impegno del padre perché la pista Mafia-Appalti venisse battuta, mai persa di vista. Quando invece i ‘colleghi’ di Paolo tramavano nell’ombra, ma non poi tanto. E tanto da avere la sfrontatezza di archiviare il tutto in fretta e furia, appena sepolto il cadavere di Borsellino. Vergogna!

Sorge spontanea la domanda: perché nessuno ha mai aperto un’inchiesta sui motivi che condussero a quella rapida e immotivata archiviazione?

C’è solo da augurarsi che adesso, anche alla luce dell’archiviazione della falsa pista-trattativa, possa essere ripreso quel filo interrotto, quella pista investigativa basilare fondata, appunto, sul rapporto del Ros.

E ora, a questo punto, perché non mettere sotto inchiesta quei magistrati che hanno archiviato quella pista, calpestando la memoria e il corpo, ancora caldo, di Paolo?

 

LE NON INCHIESTE GRIFFATE DI PIETRO

Ma sapete quale inquirente avrebbe potuto, già in quegli anni bollenti, tirare il bandolo della matassa e individuare i pupari del maxi affare dell’Alta Velocità, il cuore, come detto, del rapporto Mafia-Appalti?

Il pm senza macchia e senza paura, al secolo Antonio Di Pietro, il protagonista della Mani pulite meneghina, solito frequentare all’epoca, come abbiamo visto, il consolato americano all’ombra della Madunina.

Don Tonino, infatti, prima di abbandonare la toga è stato protagonista di due fondamentali inchieste.

Partiamo dalla prima, di cui scrivono a lungo Imposimato e Provvisionato nel loro libro bomba. E siamo al filone investigativo sulla TAV avviato proprio alla procura di Milano e condotto in prima battuta dal procuratore capo, Francesco Saverio Borrelli, il quale pensa bene di affidare il delicato fascicolo al fidatissimo Di Pietro. Il quale mette subito a segno un colpo da maestro: riesce infatti ad ottenere rapidamente l’avocazione del filone d’inchiesta partito alla procura di Roma e riguardante soprattutto i profili amministrativi dell’affaire, mentre Milano doveva vedersela con gli imprenditori coinvolti.

Detto fatto, quindi, Tonino il prestigiatore ha in mano la ponderosa inchiesta nella sua globalità. E – magia della sorte – può contare su un   inquisito eccellente che tutto sa su tutto: non solo sulla madre di tutte le tangenti, Enimont, ma anche sui misteri dell’Alta Velocità. E’ ‘l’Uomo a un passo da Dio’, come subito lo etichetta, in modo efficacissimo, il suo inquirente, ossia Di Pietro.

Claudio Signorile

Si tratta di Pierfrancesco Pacini Battaglia, soprannominato Chicchi, simpatie per il garofano martellian-craxiano, interessi soprattutto in Svizzera, dove possiede addirittura una banca privata. Nella sua lunga   carriera, il toscanaccio Chicchi ha anche avuto modo di occuparsi dei fondali di Ustica dopo la tragedia dell’Itavia, dando vita ad una società di rilevamenti marittimi in compagnia dell’allora re dei trasporti (acquisì dal crac la mitica ‘Flotta Lauro’) il mattonaro partenopeo Eugenio Buontempo, a lungo imprenditore di riferimento della ‘sinistra ferroviaria’ capitanata da Claudio Signorile.

Ma torniamo a bomba, ovvero all’inchiesta milanese sull’Alta Velocità. Sapete mai a chi si affida, come legale, il potentissimo Pacini Battaglia, che avrebbe potuto tranquillamente scegliere un principe del foro meneghino? Ad un signor nessuno, un avvocaticchio di provincia, appena arrivato dal Sud con la valigia legata con lo spago, o quasi. Si tratta di Giuseppe Lucibello: il quale, però, sulla piazza meneghina può contare su un’amicizia da novanta, quella – nientemeno – che con don Tonino Di Pietro.

Il cerchio è presto chiuso. Il rituale pugno di ferro mostrato dal pm con tutti i suoi inquisiti, improvvisamente, si scioglie come neve al sole: tanto che l’imputato numero uno, l’Uomo a un passo da Dio, non trascorre neanche una notte in gattabuia, ma torna libero come un fringuello, pur senza raccontare neanche un centesimo di quel che sa!

Ai confini della realtà. Si confiderà poi per telefono: “Sono stato sbancato”, con evidente riferimento al salasso economico che il poveretto avrà dovuto fronteggiare. Ma il tutto si scolorirà presto in un “sono stato sbiancato”, assai poco comprensibile, ma ‘ottimo e abbondante’ per don Tonino, il quale viene assolto dal tribunale di Brescia per i suoi comportamenti ritenuti non deontologici, non professionali, non morali, quindi ampiamente censurabili sotto tutti i profili nel corso delle sue inchieste: ma non penalmente rilevanti!

 

DA GARDINI A LI PERA

Eccoci al secondo episodio clou. La gestione dipietresca di un altro inquisito eccellente, Raul Gardini, il gran capo di casa Ferruzzi. Siamo ad un altro pezzo da novanta che sa tutto su Mafia-Appalti, perché la sua Calcestruzzi è pesantemente coinvolta nella connection, come già raccontato.

Raul Gardini

Ma cosa succede? L’indagato Gardini ha un appuntamento in procura con il suo grande accusatore, al quale avrebbe promesso di raccontare tutto, di ‘vuotare il sacco’. Di Pietro lo aspetta in procura, si sono dati appuntamento. Non ci arriverà mai, Gardini, a palazzo di giustizia, perché si spara un colpo alla testa. La fa finita. Come era successo, in carcere, per l’allora numero uno dell’Eni, Gabriele Cagliari, finito con un sacchetto di plastica intorno alla testa.

E c’è un terzo buco nero nella story. L’interrogatorio che si svolge nel carcere di Rebibbia, a Roma, tra l’intemerato pm e una super gola profonda sempre sul fronte Mafia-Appalti. Ossia l’uomo che ha fornito agli inquirenti siciliani una mole di elementi molto utili per ricostruire quelle esplosive connection: si chiama Giuseppe Li Pera, professione geometra, per anni al servizio della ‘Rizzani De Eccher’, un’impresa trentina di costruzioni il cui nome – guarda caso – fa capolino nel dossier del Ros.

Come mai Di Pietro corre a Roma per interrogarlo? E come mai cava poco o niente da quella verbalizzazione? Eppure, Li Pera è un altro uomo che ‘sa tutto’ sui rapporti Politica-Mafia-Imprese. E sa molto sulle stragi, in particolare quella di Capaci.

Altri interrogativi d’obbligo.

 

Come mai nessuno ha voluto capirci qualcosa in quel clamoroso insabbiamento della pista Tav-Pacini Battaglia?

Perché, soprattutto, non è mai nata una vera inchiesta sulle ‘non inchieste’ firmate Di Pietro?        

                           

 

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