Il Racconto di Ferragosto – Non è vero, ma ci credo

Tutto intorno a queste quattro mura non manca niente. È uno dei mille luoghi di una terra generosa, fertile come solo sa esserlo se compatta, annerita, ispida, rugosa, scolpita dal fiume di lava colato giù dal vulcano Kenway, dai suoi duemila e trecento metri di altezza variabile, eruzione dopo eruzione, la cima sfettata dall’esplosione del ’43, ingrossata dalla successiva a distanza di cento anni, per il ritorno dal cielo di ingente materiale piroclastico. Chiedono speso se io, Makeba la mia compagna, i nostri ragazzi Jango e Hayna, temiano il grande vecchio in apparente letargo, sornione. Brontola il magma sotto i nostri piedi, non così in profondità, le mura della casa a toccarle sono calde come non dovrebbero, ma nulla di più.

Questa mattina, al risveglio abbaia ‘a vanvera’ il pastore belga, affezionatissimo bastardo. Da sempre lo fa solo se si avvicina alla casa chi non conosce, l’asino scalcia, eppure non ha indosso le fastidiose mosche ‘cavalline’, è molto sorprendente la tavola della colazione, vuota, nel piatto non vedo le fette di pane integrale da farcire con burro e marmellata di ciliege, se ci fossero come ogni giorno, è vuoto anche il bricco del latte. No, non temo neppure queste improvvise anomalie. No paura proprio no, eppure Makeba si affretta a sostituire il lumino esaurito ai piedi del disegno di ‘Ncono, stregone protettore di tutti noi, accreditato di antico rapporto con l’‘entità’ che abita il fondo del cratere, così sodale da soffocare ogni tentativo del vulcano di espellere quelli che ‘Ncono ha battezzato ‘cattivi pensieri’. L’ ‘identikit artistico dello stregone si deve alla mano felice di una giovane svizzera, turista affascinata dai “monti cha sputano cenere, lapilli e lava”, dal Kenway. Le ho raccontato i perché, i come, i quando di un ex tecnico, quale sono statao, che dopo 40 trascorsi nella manutenzione dell’unica centrale elettrica che fornisce l’intera regione del Sud Soham, ha chiuso la casa del grande villaggio dov’è nato per condividere la scelta da eremita trasmessa dai miei bisnonno e nonno. Con al seguito l’intera famiglia ho sposato il bello dell’esilio agreste.

L’esordio della seconda domenica di agosto racconta strani segnali e genera diffuso nervosismo. Makeba sbaglia nello sferruzzare la lana che diventerà sciarpa lunga quasi fino alle ginocchia, i ragazzi provano a mandar via la tensione di una mattina iniziata con più di un’anomalia.  Provo a impedire che tutto questo condizioni l’andamento dell’abituale quotidianità, i suoi   ripetitivi passaggi: certo sconcerta non fare colazione, ma pazienza se per una volta Makeba non l’ha preparata. Resto nella normalità di ogni giorno, che sia domenica o lunedì, provvedo a distribuire il cibo agli animali, verifico lo stato di maturazione delle olive sugli alberi secolari che quest’anno grondano copiosamente i loro frutti, mi impegna un’occhiata al braccio della doccia invecchiato malamente e altre incombenze più volte rinviate.

 

Hayna mi tira per un braccio, fuori casa, mi scruta, come dovessi aver capito il perché di questa uscita sull’aia e delusa sbotta in uno dei suoi abituali rimproveri, per nulla rispettosi: “Ma insomma non senti che l’aria odora di bruciato?” Stento ad avvertirlo, ma non è strano. Patisco da anni il disagio provocato dalla rinite cronica e per la deviazione del setto nasale, ma la puzza è davvero forte e presto la percepisco.  Scalo, come sempre a fatica per gli acciaccchi dell’età, la collinetta alle spalle della casa, buon punto di osservazione. Quello che vedo è tutt’altro che rassicurante. Da due o tre ‘scalini’ del terreno, dove inizia la pendenza più ripida del versante ovest del vulcano si alza un fumo denso, nero che per contrasto evidenzia il rosso fuoco delle fiamme. Quanto dista l’incendio, anzi gli incendi che sono quattro, cinque, forse di più? Il tempo di calcolarlo con qualche approssimazione e mia figlia mi indica gli altri posti dove brucia la vegetazione.  Hayna: “Ma guarda, ce n’è anche più a valle e alla nostra destra, a sinistra, pensi che ci sia pericolo anche per noi?”.  “Spero di no, ma con il fuoco non si può mai dire. Lo scirocco soffia nella nostra direzione e non è una buona notizia. Uno degli incendi non è lontano e nelle vicinanze ci sono mucchi di foglie e rami secchi accatastati. Chiama la forestale, i vigili del fuoco”.  “Pronto siamo quelli che vivono sul lato destro del vulcano a quota mille e seicento. Da qui si vedono almeno sei focolai di incendi e con il vento che c’è il fuoco potrebbe arrivare fino a noi”. I vigili: “Faremo il possibile per venire, ma siamo in difficoltà, tutte le squadre sono impegnate, anche elicotteri e canadair”.

Tutta la famiglia è allertata, e a temere il peggio è Makeba. Anche se non è il momento più opportuno, mi ricorda di aver chiesto più volte di tornare al villaggio. Ora rincara il monito:  “So che ormai da anni hai scelto la vita a contatto con la natura, ma come vedi con margini di rischio molto alti. Aanche qui ci sono criminali che appiccano fuochi per distruggere alberi e vegetazione. Il pericolo, se il fuoco avanza con il caldo che fa e se il vento cresce di intensità è che ci coinvolga, che aggredisca la casa, le coltivazioni, gli animali. Passano i minuti, gli incendi si avvicinano e quando comincio a temere il peggio compare sul viottolo di casa una camionetta con a bordo due forestali. La loro esperienza non lascia spazio alle incertezze, ci sollecitano a fare il possibile per salvare il salvabile. Makeba e Hayna rientrano in casa, tirano fuori le valigie dal soppalco e le riempiono per quanto è possibile di abiti, di ogni oggetto utile, dei pochi preziosi custoditi in un piccolo scrigno. Sui loro volti affaticati c’è tutta la tristezza per quanto sta accadendo e la rabbia per gli atti criminali dei piromani. Il Tg locale mostra le devastazioni provocate dagli incendi in tutto il mondo, soprattutto nell’area che comprende il nord Africa i Paesi che si affacciano nel Mediterraneo. La conduttrice riferisce del monito che l’Onu rivolge a tutti gli Stati con toni giustamente drammatici: “O salviamo l’ambiente o decretiamo la fine del Pianeta”.  Hanya, una dei milioni di giovani che s’identificano nell’ambientalismo attivo di Greta Tunberg commenta a voce alta “Sempre che si riducano alla ragione i Paesi che si ostinano a inquinare il Pianeta…”

 

 

Ora le fiamme, ben visibili, avanzano con impressionante velocità e il fumo oltre che rendere l’aria irrespirabile invade la nostra campagna, la casupola dove sono parcheggiati i covoni di grano, la stalla, svuotata da Jango che spinge gli animali in alto dove spera che non arrivino le fiamme. Provo ad allontanare il più possibile la nostra vecchia Jeep, il trattore, gli attrezzi, e una borsa capiente piena di documenti di quel po’ di denaro che teniamo in casa per le esigenze quotidiane. Provo di nuovo a contattare i vigili del fuoco, ma il numero dell’sos è occupato e fallisce ogni tentativo.

Ora arriva fino a noi il calore degli incendi ed è insopportabile, quasi quanto la sensazione di soffocamento provocata dal fumo acre degli incendi. I forestali sono perentori. “Subito via di qui o saranno guai”.

Lo sguardo incrocia i tanti punti dove è stato appiccato il fuoco. La tentazione di lasciarmi andare alla disperazione lascia il posto alla pena per le immani tragedie che in tanti luoghi del mondo hanno provocato morti, danni incalcolabili, devastazioni non recuperabili. Cingo con le braccia le spalle di Makeba e Hayna, un passo avanti a Jango, ho pena per i nostri  percorsi di vita spezzati da questo momento pieno di incognite. Il sentiero della ‘fuga’ in tempi di normalità è stato il collegamento quotidiano con l’uliveto, la vigna, il piccolo terrazzamento panoramico a picco sull’area del villaggio dove siano costretti a tornare, a riprenderci modelli di vita desueti. È quasi una via crucis che ‘Ncono non ha evitato, che non è riuscito a proteggerci, come ha sperato Makeb.

Abbiamo appena superato una metà del viottolo, gravati dal peso delle valigie. Dal versante opposto del vulcano, prima con il loro tipico rumore delle turbo eliche, poi con la loro inconfondibile sagoma, vediamo apparire due elicotteri e sotto la pancia i grandi secchi pieni d’acqua certamente ‘pescata’ nel vicino lago ‘Unduri’. Nessun dubbio dirigono su di noi.  I primi scarichi d’acqua sembra che riescano a circoscrivere gli incendi, i successivi, non pochi, li spengono. Avere un santone in confidenza con gli dei, questa la riflessione collettiva, è un’assicurazione sulla vita vincente e perfino gratuita.


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