La strage di via D’Amelio (ma non solo) al centro del programma condotto su la 7 dal direttore del Tg, Enrico Mentana, in occasione della presentazione del libro di Michele Santoro, “Nient’altro che la verità”, edito da Marsilio.
Co-conduttore Andrea Purgatori, che firma il programma ‘Atlantide’, sempre per la 7. Due gli ospiti della serata: la figlia di Paolo Borsellino, Fiammetta, e Antonio Di Pietro, l’ex pm di Mani Pulite.
L’ampio spazio dedicato alla ricerca della verità su quella strage è servito a ricostruire molti tasselli del mosaico, dai moventi storici a quelli contingenti, dalla pista mafiosa tutta Cosa Nostra alle possibili connection politiche. Dal mistero dell’agenda rossa passata per tante mani e poi sparita nel nulla al giallo Scarantino.
Il vero clou, quest’ultimo, vale a dire il taroccamento del falso pentito, intorno al quale è stato costruito il più grande depistaggio della nostra storia giudiziaria, come hanno certificato i magistrati del Borsellino quater.
Ma sorge subito, spontanea, una domanda alta come un grattacielo: come mai, in tutta la corposa parte della trasmissione dedicata a quel clamoroso taroccamento e a quel vergogno depistaggio, non è stato fatto il nome dei magistrati che hanno condotto quei processi nei quali ha campeggiato la figura di Vincenzo Scarantino?
Mai una sillaba, neanche una parola? E pensare che quei processi hanno condotto alla condanna a 16 anni di galera per alcuni innocenti!
A un certo punto, con voce flebile, ha sussurrato Fiammetta Borsellino: eppure, quegli agenti oggi sotto accusa avranno ricevuto le direttive da qualche inquirente…
Procediamo con ordine.
IL PUPAZZO SCARANTINO
Mentana ricostruisce per sommi capi i fatti, poi manda in onda una lunga intervista a Scarantino di anni fa: il poveretto descrive per filo e per segno cosa gli è successo, il calvario che ha passato, le vessazioni che ha subito, le vere torture fisiche e psicologiche alle quali è stato sottoposto. Tutto per fornire una versione dei fatti costruita a tavolino da ‘altri’ e che lui avrebbe dovuto solo ‘recitare’.
Era un omone di 110 chili, Scarantino, quando è entrato nel carcere di Pianosa, ne è uscito di 55 chili. Stremato nel fisico e nel morale, persi gli affetti familiari, una vita distrutta. E pensare che gli avevano promesso – racconta – un futuro senza problemi per lui e i suoi, addirittura gli avrebbero comprato un albergo per creargli una concreta prospettiva di lavoro.
Ma chi erano i suoi aguzzini? Scarantino fa un nome, quello di Arnaldo La Barbera, ex capo della Polizia e questore di Palermo. Non gli viene chiesto se c’erano altri, né dei magistrati inquirenti.
Incalza, in studio, Purgatori. E punta l’indice contro La Barbera. Non solo, precisa, ex capo della polizia e questore, ma anche uomo dei servizi segreti e pure “al servizio della mafia”. “I rapporti con la mafia – aggiunge – sono descritti in alcune sentenze e ordinanze giudiziarie”.
Un vero demonio, La Barbera: il quale, però, non può più rispondere di tutte le accuse che gli sono piovute e continuano a piovergli addosso. Perché è morto da oltre 15 anni.
Peccato, avrebbe potuto dire la sua, anche in occasione del processo che oggi vede alla sbarra i tre poliziotti del suo team (guarda caso, la squadra ‘Falcone-Borsellino’) accusati del depistaggio e del taroccamento di Scarantino.
All’epoca La Barbera era molto stimato da Ilda Boccassini, la prima toga a mettere in guardia gli inquirenti siciliani circa l’affidabilità di Scarantino. In una lettera che non lascia spazio ad equivoci, e firmata con il collega Roberto Sajeva, Boccassini sostiene che non c’è da fidarsi, non è un teste credibile, occorre lasciar perdere quella pista che non porterebbe da nessuna parte.
NESSUNO TOCCHI I MAGISTRATI
Come mai il parere della Boccassini contò come il 2 di briscola? Perché mai non venne tenuto in alcun conto dai primi due magistrati incaricati del caso, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia?
I quali – Palma e Petralia – sono finiti sotto inchiesta a Messina, ma a loro carico non è scattato alcun provvedimento: nessun rinvio a giudizio (come invece è successo per i tre poliziotti oggi alla sbarra), tutto archiviato a tarallucci e vino.
Più volte Fiammetta Borsellino (in trasmissione, come detto, l’ha solo sussurrato) ha rammentato la catena di comando: ovviamente in testa i magistrati, poi gli investigatori, in questo caso i poliziotti diretti da La Barbera. E Fiammetta ha spesso e volentieri tirato in ballo il terzo magistrato della story, Nino Di Matteo, una vera icona antimafia. “Sono entrato quando le indagini erano già abbondantemente iniziate”, ha sempre giustificato Di Matteo.
Ma sorgono spontanee le domane: possibile mai che nessuno dei prima due e poi tre magistrati si sia mai accorto di niente? Ossia della non affidabilità di Scarantino? Possibile che abbiano lasciato briglia del tutto sciolta a quel demonio di La Barbera?
Mai un dubbio, mai un’incertezza, mai una perplessità, nonostante i precisi ammonimenti della Boccassini?
Come mai, nel corso della trasmissione, nessuno ha osato parlare di quei magistrati? Come mai dal moderatore Mentana, solitamente così loquace, neanche una parola? Solo la scimitarra affidata a Purgatori che ha scaraventato all’inferno La Barbera addebitandogli tutte le responsabilità, nessuna esclusa.
ENIMONT, L’UOMO A UN PASSO DA DIO
Passiamo all’altro ospite d’onore, in collegamento, l’ex pm Di Pietro. Il quale, dopo aver ricordato il suo impegno – poi cessato per la morte dei due magistrati e il suo abbandono della toga – per ricostruire le trame fra grandi imprese del nord e la mafia.
Ma ci ha tenuto, soprattutto, a ricostruire la ‘Gardini story’, dal momento che il Gruppo Ferruzzi era sotto i riflettori, all’epoca, proprio per gli opachi affari siciliani portati avanti da una delle sue società, la Calcestruzzi spa.
“Avevo trovato un accordo con i legali di Raul Gardini – osserva l’ex pm – avevamo fatto una sorta di trattativa. Lui avrebbe raccontato tutto sulla maxi tangente Enimont, e soprattutto su quella metà di cui non sapevamo la destinazione, ma solo la sospettavamo. Quella mattina doveva venire da me in ufficio, ma mi venne comunicato per telefono che si era appena suicidato”.
E Di Pietro, a questo punto, vuota il sacco: quella metà, a suo parere, è finita nelle casse dello IOR, la banca vaticana. E si augura che oggi quella verità possa venire finalmente a galla.
Sorge, a questo punto, spontanea un’altra domanda, e altrettanto grande come un grattacielo. Come mai Di Pietro non si è fatto raccontare la storia della maxi tangente Enimont da un altro pezzo da novanta che tutto sapeva? Quel Pierfrancesco Pacini Battaglia definito dallo stesso pm “L’Uomo a un passo da Dio”? Eppure Di Pietro ha avuto svariate occasioni per farlo. Ed invece – incredibile ma vero – il solito pm carrarmato, davanti a Pacini Battaglia, si è sciolto come neve al sole. Il consueto pugno di ferro nei confronti dei suoi imputati si è subito trasformato in un guanto di velluto.
Come mai la più che anomala mutazione nel comportamento del pm di punta del pool?
A chiarire l’arcano può soccorrere una circostanza. Il legale che patrocinava Chicci Pacini Battaglia si chiamava Giuseppe Lucibello: un avvocato sconosciuto al foro di Milano, e proveniente dall’avellinese. Quello, con ogni probabilità, il suo primo – e grosso – incarico. Ma aveva un asso nella manica, Lucibello, per farsi strada a Milano: l’amicizia, guarda caso, proprio con Tonino, il pm che lo aveva preso in simpatia. Intercettato al telefono, Pacini Battaglia fornirà poi un dettaglio: “Mi hanno sbancato”, dice; parola che poi si trasformerà in ‘sbiancato’, impallidito.
Gardini a parte, comunque, la fonte c’era, “L’Uomo a un passo da Dio” ma incredibilmente non è stata utilizzata dal primo segugio d’Italia.
E Pacini Battaglia avrebbe potuto fornire altre importanti piste per l’inchiesta sull’Alta Velocità. Che si era ramificata in due tronconi: uno romano, sul fronte politico-amministrativo, l’altro milanese, sul versante delle imprese coinvolte. Il secondo filone, quello meneghino, era curato proprio da Di Pietro, che riuscì, con un colpo di prestigio, ad avocare a sé anche la tranche capitolina.
Quale la genialata? Comunica ai pm romani di aver tra le mani una gola profonda eccellente, guarda caso proprio Pacini Battaglia: motivo per il quale è bene concentrare tutta l’inchiesta a Milano.
Ma cosa succede? Ottenuto il maxi fascicolo e assicuratasi l’intera inchiesta, poi il pm decide di ‘gettare’ la toga, abbandonando all’improvviso la magistratura nell’84: a causa delle minacce alla vita sua e dei suoi familiari, commenta a mezza voce anche nella trasmissione di Mentana.
Risultato: la maxi inchiesta sulla TAV, un’altra storia stramiliardaria che si è trascinata e si trascina ancora oggi, è finita in una bolla di sapone. Tutti liberi di scorrazzare per anni nei vasti pascoli dei lavori pubblici.
La story è magistralmente raccontata da Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato nel libro “Corruzione ad alta velocità”, uscito nel 2008: un vero atto d’accusa contro il sistema politico dell’epoca, le imprese mangia appalti e soprattutto contro quel magistrato che aveva tutte le carte ma non ha agito e, in sostanza, ha depistato.
Siamo tornati a bomba, i depistaggi eccellenti.
Come mai neanche una domandina di Mentana-mitraglia al fondatore di Italia dei Valori?
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2 pensieri riguardo “MAXI DEPISTAGGI / DALLA STRAGE VIA D’AMELIO ALLA MANCATA INCHIESTA SULL’ALTA VELOCITA’”