FEDERICO FELLINI E LA “DOLCE ITALIA”

 – UNA MOSTRA IN SLOVACCHIA NEL CENTENARIO DEL REGISTA –

Se in un futuro lontano, per un’ipotesi irreale, diventassero introvabili tutte le copie dei film di Fellini, l’umanità si troverebbe privata per sempre della magia del cinema, dell’essenza stessa di un’arte che – soprattutto grazie al genio del regista italiano – ha saputo superare i limiti dello sguardo oggettivo per esprimere, a livelli mai prima raggiunti, la poesia dei sogni, l’infinita libertà della fantasia, l’elegia della memoria di una “età dell’innocenza” troppo presto evaporata e per sempre rimpianta.

Anche in questo malaugurato scenario, tuttavia, a darci il senso della genialità del Maestro di Rimini resterebbero i titoli dei suoi capolavori.

Come Otto e mezzo, per molti critici il suo film più memorabile, che oggi non riusciremmo nemmeno a immaginare senza quel titolo, a prima vista indecifrabile, che illumina con brillante sintesi la storia della crisi creativa di un regista, finendo per diventare l’omaggio più poetico e tuttora insuperato al mondo del cinema.

O Giulietta degli spiriti, l’altra opera di impressionante potenza onirica e visionaria che ha reso lo stile di Fellini unico e inimitabile.

I vitelloni e Amarcord, a loro volta, benchè esplicitamente ispirati ad un contesto spazio-temporale molto circoscritto (la Romagna della sua infanzia), si sono elevati a categoria universale nel linguaggio e nell’immaginario comune, non solo in Italia, connotando rispettivamente i giovani “parasite” di provincia e la sincera “nostalgia critica” di un’età e di una terra perduta.

E quanta poesia in quei due titoli della sua ultima produzione: Ginger e Fred (dove Fellini ha finalmente congiunto i due poli positivi del suo universo artistico e umano: la moglie-complice-musa Giulietta Masina e l’amico-alter ego Marcello Mastroianni), che nel richiamo a uno dei miti più splendenti di Hollywood attenua il sapore amaro dell’apologo sull’effimero disumanizzante della tv commerciale; e La voce della luna, con il futuro Premio Oscar Roberto Benigni e la maschera dell’”italiano medio” Paolo Villaggio, – entrambi fino ad allora mai protagonisti di grandi film d’arte – testamento artistico di un Autore che, anche all’apice del successo e già avvolto nell’aura del Mito, non ha mai smesso di abbandonarsi all’immaginazione, conservando il candore e le emozioni di un fanciullo, per scrutare l’insondabile mistero dell’universo e della vita.

È stata in fondo questa sua eterna leggerezza (che talvolta sconfinava, testimonia chi lo ha conosciuto, in una fanciullesca attitudine alla mitomania e alla finzione) a consentire quella simbiosi assoluta tra cinema e vita che non ha eguali nella settima arte e si materializzò, come per incanto, fin dal giorno in cui il diciassettenne Federico, da poco trasferitosi a Roma, mise piede per la prima volta a Cinecittà, fondata appena un anno prima. Da allora, e fino agli ultimi giorni, lo Studio 5 sarebbe diventata la sua casa, e la sua stessa ragione di vita: “Quando scoprii quel mondo pieno di luci e colori, di costumi e di suoni – confiderà in diverse interviste – decisi in un attimo che quello sarebbe stato anche il mio mondo, per sempre”.

Fuori da quei grandi studi cinematografici scorreva tutta un’altra vita e l’Italia del giovane Fellini, oppressa dalla dittatura fascista, viveva uno dei periodi più bui della sua storia. Poche settimane dopo il suo arrivo a Roma, nella capitale italiana sarebbe giunto in visita ufficiale Adolf Hitler (come rievocherà nel film Una giornata particolare un altro illustre regista, e grande amico di Fellini: Ettore Scola) e da lì sarebbero scaturiti, in tragica successione, le leggi razziali, la guerra, i bombardamenti sulle città e, infine, un Paese di nuovo libero ma povero e in macerie, che il Neorealismo ha saputo narrare con verità e poesia in quei capolavori del cinema mondiale che sono Roma città aperta e Paisà di Roberto Rossellini (ai quali Fellini collaborò come sceneggiatore), Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D. e Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, Ossessione e La terra trema di Luchino Visconti.

Aggrappandosi a quel “sogno vivente”, nell’oasi di una magica realtà parallela che gli ricordava le meraviglie del circo e le emozioni dei fumetti e dei fotoromanzi “divorati” nella sua adolescenza (che il futuro regista farà rivivere in due film a lui particolarmente cari, I clowns e Lo sceicco bianco, il suo titolo di esordio), Fellini riuscì a preservare quella “giusta distanza” dagli assilli del reale che gli permetterà di non perdere mai, neppure nei momenti più difficili, il senso della sorprendente dolcezza della vita.

È a questa condizione esistenziale che forse dobbiamo il suo titolo più geniale, che ha contribuito in misura decisiva a consegnare al mito il suo film più famoso e più visto nel mondo. Geniale e anche profetico, soprattutto, per quell’aggettivo, “dolce”, che a prima vista è del tutto stridente, persino provocatorio, rispetto al ritratto lucido e spietato di una società (l’aristocrazia e lo star system della Roma contemporanea) decadente e corrotta, persino disperata nel suo vuoto di valori e dietro la maschera di un’appagante vitalità. Tutt’altro che “dolce”, quella vita portata sul grande schermo da Fellini, era apparsa anche agli agguerriti detrattori del film (il Vaticano, la stampa neofascista, l’alta società romana, la magistratura e la borghesia di Milano, dove il regista fu duramente contestato alla “prima” nazionale del 5 febbraio 1960 al Cinema Capitol), che per mesi invocarono a gran voce il sequestro di un film che “offendeva l’Italia” e l’incriminazione del suo autore per oltraggio alla morale, o più sommessamente, come recitavano i manifesti affissi in molte chiese, una preghiera “per la salvezza dell’anima di Federico Fellini, pubblico peccatore”. Un paradosso per quello che Pasolini aveva definito “un film cattolico”, opinione condivisa anche dai Gesuiti e dai settori più aperti del clero.

Dolcissimo, invece, si rivelò il film per i produttori, Angelo Rizzoli e Peppino Amato (subentrati in extremis a Dino De Laurentiis), per effetto degli incassi straordinari in Italia e nel mondo, che davano infine ragione all’originalità creativa, al coraggio e all’intuito mediatico di Federico Fellini. Era stato lui, rischiando di non fare più il film, a volere a tutti i costi quel titolo, La Dolce Vita (che all’inizio, per i produttori, era semplicemente Via Veneto), a farlo durare ben tre ore – circostanza mai avvenuta fino ad allora in Italia – e ad imporre nei ruoli principali un’attrice straniera, la svedese Anita Ekberg, già emergente ma molto meno famosa delle dive italiane (Silvana Mangano, Gina Lollobrigida, Sofia Loren) che di volta in volta gli erano state proposte, e un giovane attore romano, Marcello Mastroianni – nonostante De Laurentiis avesse già in mano il contratto con una star di Hollywood come Paul Newman – che nell’atteggiamento e nel look era quanto di più “dolce” potesse offrire un interprete maschile, tanto che lo stesso Fellini, per renderlo credibile nei panni del cinico giornalista Marcello Rubini, dovette più volte intimargli (“…e levati quella faccia da bravo ragazzo!”) di cambiare espressione.

“Mi rendo conto che La Dolce Vita ha costituito un fenomeno che è andato al di là del film stesso”, ammetterà il regista presentando nel 1989 il ricco volume fotografico di Editalia sul film.

In realtà, come rivelano le sue scelte, questo fenomeno Fellini lo aveva presagito prima ancora di iniziare le riprese. Benchè ispirato all’attualità più recente (da almeno due anni i rotocalchi popolari erano pieni di articoli sul “bel mondo” che si dava appuntamento in Via Veneto e sui suoi scandali, primo fra tutti il clamoroso strip tease – rievocato nel film – della ballerina turca Aichè Nanà nell’esclusivo club “Rugantino”), e inconcepibile al di fuori di quell’ambiente particolare e ristretto, il film apparve da subito al pubblico internazionale come una grande metafora, più attraente che scandalosa, dell’Italia di allora. Una location unica come la Città Eterna, con la Fontana di Trevi e tanti monumenti celebri; la presenza magnetica di “Anitona”, come la ribattezzerà affettuosamente Fellini, con la sua gioiosa fisicità, splendida testimonial di quella felice stagione di cinema e turismo che fu definita “Hollywood sul Tevere”; il vitalismo diffuso, che in filigrana emergeva nel film, di un Paese giovane che voleva dimenticare le ferite della guerra e correre a perdifiato (non a caso il film più emblematico di quel periodo, diretto da Dino Risi due anni dopo La Dolce Vita, avrà per titolo Il sorpasso) verso un futuro di benessere e spensieratezza: tutto questo era evocato da quell’aggettivo, “dolce”, che prefigurava, in tempo reale, l’Italia che entrava negli anni Sessanta, forse il decennio più intenso e felice della sua storia recente.

Proprio a Roma, il 25 agosto del 1960, si inaugurò il 25 agosto l’evento di apertura di quel dolce decennio italiano: le Olimpiadi, che fu un’autentica festa di sport e di fratellanza universale in un mondo segnato dalla Guerra Fredda e in un Paese appena uscito, al pari della Francia, da una drammatica tensione politica, che aveva visto infine vittoriosi lavoratori e studenti a difesa della democrazia antifascista contro i tentativi delle forze più reazionarie.

Contemporaneamente, per l’Italia iniziava il “boom economico”, una fase inedita e tumultuosa di progresso e benessere che esprimeva nei simboli del consumismo (l’automobile, gli elettrodomestici, le vacanze al mare) una trasformazione epocale del costume e si rifletteva positivamente anche sull’industria della canzone, sullo sport – con i trofei internazionali nel calcio e nel basket – l’editoria, la cultura. Anche l’uscita, nel gennaio del ’60, della rivista “L’Europa letteraria”, espressione della Comunità Europea degli Scrittori che per la prima volta nel dopoguerra univa autori dell’Ovest e dell’Est, era a sua volta una significativa conferma del ruolo e dell’immagine dell’Italia come terra di pace e di dialogo culturale.

Anche per Fellini, con la straordinaria esperienza di quel film, si chiudeva una fase della sua parabola creativa, comunque straordinaria, culminata nei due Oscar consecutivi (1957 e 1958) per il migliore film straniero a La strada e a Le notti di Cabiria, dopo i riconoscimenti per la sceneggiatura di Roma città aperta (Oscar nel 1947) e Paisà (1950).

Come tutti i migliori cineasti italiani della sua generazione, Fellini si era formato – da sceneggiatore, regista, qualche volta anche attore, come nell’episodio Il miracolo del film Amore (1948) di Rossellini – alla grande scuola del Neorealismo, il movimento più importante e innovativo nella storia del cinema italiano e mondiale, declinandone in maniera autonoma e personale i valori morali ed estetici che ritroviamo anche in La Dolce Vita.

“Egli ricorre ad un procedimento che chiamo appunto barocco e che consiste nel fare esplodere le forme, spingendo fino all’estremo i limiti del realismo. Così il realismo diventa caricatura, incubo, fantasia”, osserva nel ’65 sul settimanale “L’Espresso” lo scrittore italiano più famoso del momento, Alberto Moravia, in un ampio articolo sugli ultimi dieci anni del cinema italiano che viene significativamente intitolato Quando Fellini salì sul trono.

Il successo di La Dolce Vita, che aveva costituito la sfida più ambiziosa della sua carriera, proietterà infatti Fellini con maggiore convinzione verso nuovi orizzonti espressivi che il Neorealismo non aveva potuto sperimentare e sul sentiero creativo a lui più congeniale, meno condizionato dai vincoli della realtà e finalmente libero di sprigionare, a partire da Otto e mezzo (1963), tutto il suo fantasmagorico universo di visioni, desideri, angosce, sogni, memorie, espresso con toni ora ironici, che ritroveremo anche nell’elegiaco Amarcord, ora grotteschi (come in Fellini Satyricon e nel Casanova).

“La sola realtà che per lui conta – aveva già acutamente osservato nel ’55 sulla rivista “Cinema” il critico Massimo Mida – è quella che ritrova attraverso la realtà del suo passato”, che Fellini rivive con la tensione e lo stupore “di una seduta spiritica”, come quella rappresentata in La Dolce Vita e più volte sperimentata nella vita reale, sull’onda della profonda fascinazione che su di lui esercitava il mondo dell’occulto e dello spiritismo.

Con il suo film più dirompente, inoltre, Fellini diventa il capofila indiscusso della rinascita del cinema d’autore italiano, che per qualità artistica, incassi, capacità di innovazione, impegno civile e ritrovato appeal internazionale conoscerà tra il 1958 e il ’63 la sua stagione più dolce, segnata da esordi fulminanti (Pasolini con Accattone, Gillo Pontecorvo con Kapò, Florestano Vancini con La lunga notte del ’43, Lina Wertmuller con I basilischi) e ritorni illustri – De Sica con La ciociara, Rossellini con Il generale Della Rovere, Visconti con Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo – e dalle definitive consacrazioni di Pietro Germi (con Un maledetto imbroglio e Divorzio all’italiana), Mario Monicelli (I soliti ignoti e La grande guerra, Leone d’oro a Venezia nel ’59), Dino Risi (Una vita difficile e Il sorpasso), Nanni Loy, con il successo mondiale di Le Quattro Giornate di Napoli (1962), e soprattutto di Michelangelo Antonioni, che insieme a Fellini condividerà l’aura di nuovo Maestro e punto di riferimento del cinema mondiale, come rileva nel giugno del ’61 su “L’Europa letteraria” l’autorevole critico cinematografico francese Roger Tailleur: “Con La Dolce Vita, L’Avventura, Rocco e i suoi fratelli e La Notte, presentati l’uno dopo l’altro in meno di dodici mesi, il cinema italiano ha riconquistato il primo posto. In queste quattro opere esemplari, il defunto Neorealismo esplode nei mille fuochi di un formalismo esacerbato le cui radici, tuttavia, s’affondano più che mai nella realtà, intima e sociale, di un’Italia che non è più affatto quella dell’immediato dopoguerra, ma quella dell’anno sessanta. Oltre a tale qualità di testimonianza attuale, questi quattro film hanno in comune un tono, un ritmo, un respiro di un’ampiezza e sicurezza inusitate”. Qualità che conquisteranno in egual misura il Vecchio Continente e l’America, superando (con qualche ritardo ma con identico, straordinario successo) le barriere dell’Europa orientale, dove La Dolce Vita è accolta trionfalmente nel gennaio del 1962, cominciando da Praga e da Bratislava il suo tour nelle sale cinematografiche dei Paesi d’oltrecortina.

A questa storica occasione il prestigioso settimanale italiano “L’Europeo” dedicò un ampio reportage, invitando a un dibattito cinque importanti intellettuali della Cecoslovacchia di allora: i registi Vojtech Jasny, Otakar Vavra e Jiri Sequens, il critico cinematografico Antonin Liehm e lo scrittore Jirì Mucha, i quali espressero con argomenti diversi e articolati, ma in toni sostanzialmente affini, l’esplicita ammirazione per il film di Fellini e la consapevolezza della sua notevole portata nel rinnovamento del cinema. E nel titolo del settimanale ritornerà, a due anni esatti dalla contestata “prima” a Milano, quell’aggettivo illuminante e geniale: Il dolce risveglio. Perché, davvero, quel film scosse e risvegliò un’Italia e un’Europa che si erano culturalmente irrigidite negli anni Cinquanta e ora rivedevano un nuovo orizzonte di arte e di vita.

È perciò significativo, e rivelatore, che la prima Mostra dedicata fuori d’Italia a Fellini nel centenario della nascita sia stata ideata e allestita nel maggio scorso a Zilina, e poi al Museo Nazionale Slovacco di Bratislava, proprio nella Slovacchia che nel ’62, insieme all’attuale Repubblica Ceca, accolse per prima nell’Europa dell’Est – con una vibrante curiosità che sfociò ben presto in incondizionato entusiasmo – quel mito del cinema che è La Dolce Vita. E il titolo scelto per questa iniziativa, Fellini e la dolce Italia, è il più felice e indicato per farci rivivere l’atmosfera irripetibile e quasi magica di quella stagione, che gli splendidi manifesti della Collezione Minisini ci restituiscono in un emozionante percorso grafico e visivo nei migliori anni del cinema italiano, che grazie al Neorealismo e ad autori geniali come Federico Fellini è già patrimonio perenne di creatività e di cultura per l’intera umanità.

 

 


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