40 anni fa quei tremila corpi ingabbiati sotto le macerie d’Irpinia e Basilicata, quelle ferite che – come ricorda oggi Papa Francesco – devono ancora rimarginarsi.
Soprattutto quella di una giustizia mai arrivata, perduta tra le aule dei tribunali.
L’ALBERO DELLA CUCCAGNA PER POLITICI & CAMORRISTI
Un processo costato soldi e anni, ma taroccato fin dal primo faldone.
Per un semplice motivo: i protagonisti principali non sono mai finiti alla sbarra.
Né i big della politica, che in quella ricostruzione post terremoto hanno visto nascere e crescere a dismisura le loro fortune economiche; e neanche un camorrista, uno solo, quando anche le pietre e i sassi di quelle macerie sapevano che al banchetto della ricostruzione sedevano imprenditori farlocchi, politici di rango e camorristi in rampa di lancio.
Eppure, nelle centinaia e centinaia e centinaia di faldoni giudiziari nemmeno il nome di una piccola impresa di camorra, di una sigla dedita al calcestruzzo o al movimento terra, fin da allora terreni incontrastati per la malavita organizzata.
E fu strategica, la letterale sparizione della camorra in quello scenario, perché consentì agli inquirenti (sic) di indagare per 416 e non per 416 bis: ossia per la semplice associazione a delinquere e non per associazione a delinque di stampo mafioso. In quel modo “scientifico” tutto sarebbe finito – come è finito – in beata prescrizione solo dopo sette anni e mezzo di processo, e non in quindici come invece prevedeva il capo d’imputazione più pesante.
Stesso copione per un altro processo farsa, quello per il saccheggio dei Regi Lagni, centinaia di miliardi di vecchie lire (si arrivava al top dei 900) sperperati nel fango, ennesima operazione imbastita tra politici, imprese e camorristi. Nessun condannato, solo pesci piccolissimi, micro trasportatori, qualche cavaiolo e via! Tutti in gloria, tutti felici e contenti a piede libero, e liberi di rubare sempre e di più.
‘O SISTEMA
E così spuntò, dal terremoto e da quella miracolosa ricostruzione, il modello delle concessioni, attuato poi su tutto il vastissimo fronte delle opere pubbliche e valido ancor oggi: dalle imprese, spesso scatole vuote, direttamente tutto in subappalto, diviso in comode fette per la camorra (o se volete la ‘ndrangheta e la mafia), con la supervisione dei politici, locali e nazionali. E senza lo straccio di un controllo, anzi con la farsa delle “commissioni di collaudo” (con la regolare presenza di magistrati al loro interno) pagate dai concessionari!
Semplice come un bere un bicchier d’acqua. E così è successo per la Terza corsia Roma-Napoli, con i subappalti suddivisi alla perfezione tra le nascenti cosche dei Casalesi. E lo stesso copione è andato in tragica sceneggiata per gli eterni lavori della Salerno-Reggio Calabria, con una sentenza di Cassazione che possiamo appendere alla parete. Una perfetta radiografia di “tutto appalto, chilometro per chilometro”, a cosche e clan campani e soprattutto calabresi, ma nessun pezzo da novanta finito in galera. Tutti sempre a godersi il bottino.
Che allora, per il terremoto dell’Irpinia, fu di 65 mila miliardi di vecchie lire. Una cuccagna divisa al 30 per cento equamente fra i tre al banchetto. Ripetiamo: politici, imprenditori fasulli e camorristi, il restante 10 per cento – le briciole – per le opere che subito crollavano. Come in uno dei mostri realizzati nel 1983, l’insediamento di Monteruscello, la Pozzuoli bis, che già dopo due anni cominciava a cadere pezzo pezzo.
Bazzecola, comunque, confrontate con i costi successivi delle opere pubbliche. Basta il raffronto con l’Alta Velocità, che è stato il grande affare, il super business partito ad inizio anni ’90 e ancor oggi in pista. Siamo arrivati ormai a cifre incalcolabili, se pensiamo che lo start fu trent’anni fa esatti con 27 mila miliardi di lire nel serbatoio, quintuplicato dopo pochi anni, tanto che nel loro j’accuse (“Corruzione ad Alta Velocità”) del 1999, Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato calcolano la cifra di oltre 150 mila miliardi di lire.
Ed oggi, a quanto mai saranno lievitati costi e cifre della TAV?
Ed anche in quel caso la giustizia è stata presa a calci. Stracciata. Finita in discarica.
Nel volume di Imposimato e Provvisionato viene descritto per filo e per segno quell’autentico depistaggio, con tanto di nomi, cognomi e indirizzi.
IL DEPISTATORE, ANTONIO DI PIETRO
Gran protagonista Antonio Di Pietro, che per mesi ha gestito l’inchiesta nel suo filone milanese, avendo tra le mani un super teste in grado di raccontare quell’infernale meccanismo di sperpero di danaro pubblico, finito nelle mani delle solite imprese di partito e faccendieri d’ogni razza. A cominciare da quel teste eccellente, Pier Francesco Pacini Battaglia, detto Chicchi, l’uomo dei segreti svizzeri della cassaforte Karfinco e dei segreti sui fondali di Ustica, per dirne solo due.
E gran depositario di tutti i misteri dell’Alta Velocità. Se Di Pietro avesse mostrato il solito pugno di ferro, oggi la storia giudiziaria targata TAV avrebbe fatto segnare ben altro esito.
E invece – incredibile ma vero – con Pacini Battaglia il pm senza macchia e senza paura usò un insolito guanto di velluto. Neanche un giorno di gattabuia per il super faccendiere toscano, Chicchi, neanche la minaccia – come avveniva regolarmente nel rito ambrosiano – di passare qualche guaio.
Niente di niente. Forse grazie ai buoni uffici dell’avvocato che Pacini Battaglia aveva scelto per perorare la sua causa: uno sconosciuto avvocaticchio avellinese sbarcato a Milano con la classica valigia legata con lo spago, tale Giuseppe Lucibello. Vinse subito il Bingo, Lucibello, perché poteva contare su un grande amico, don Tonino Di Pietro. Il quale gli affidò in tutela il suo “inquisito” (sic) eccellente, Chicchi.
Tutto risolto in un lampo. Chicchi, come detto, non passa un giorno in galera, torna libero come un fringuello, viene solo un po’ “sbancato-sbiancato”, come risulterà dai verbali dell’inchiesta a Brescia dalla quale esce – don Tonino – con le ossa rotte sotto il profilo etico, professionale, deontologico (per via dei regaloni che gli facevano i suoi stessi inquisiti), ma immacolato sotto il profilo penale, un giglio candido.
E stessa sorte fa il filone romano dell’inchiesta sull’Alta Velocità, come pennellano, nella loro perfetta ricostruzione, Imposimato e Provvisionato: Di Pietro chiede ai pm capitolini quelle carte, perché sostiene di aver un grosso calibro fra le mani che sa e parla. Quel Chicchi che lui invece tiene al guinzaglio.
I pm romani abboccano, quel filone finisce nel porto delle nebbie due, quello di Milano, e tutto finisce in gloria.
C’è mai stato qualcuno che abbia chiesto vera giustizia per quei processi, per quelle inchieste?
Per quei chiari depistaggi?
Mai qualcuno che abbia chiesto una commissione d’inchiesta?
In realtà per la ricostruzione post sisma ci fu, e venne guidata dall’allora capo dello Stato Luigi Scalfaro in persona, che si era reso conto dell’importanza della vicenda. Quei due monumentali faldoni della commissione Scalfaro sono ancora lì a gridare vendetta, la magistratura se ne è del tutto fottuta. E pensare che i lavori della Commissione terminarono ad inizio 1991 (e pochi mesi prima era uscito il volume edito dalla Voce “Grazie Sisma – Dieci anni di potere e terremoto”) quando invece stava per cominciare il percorso della magistratura. In quei faldoni si parlava – eccome – di camorra. Poi per incanto volatilizzatasi!
C’è poco da sperare, quindi, in una commissione sull’Alta Velocità.
Fosse anche un exploit, tanto, conterebbe come il due di briscola per lorsignori in toga ed ermellino.
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Un commento su “TERREMOTO & ALTA VELOCITA’ / LE DUE “GIUSTIZIE” CALPESTATE”