Gli affari e le connection di Hunter Biden, figlio del candidato alla Casa Bianca Joe, con l’Ucraina e con la Cina.
Le mail bollenti che documentano i legami border line.
Un giudice scomodo “licenziato” da Biden senior.
Il coinvolgimento di altri componenti della super dinasty nei business.
Lo scoop del New York Post e l’oscuramento disinformativo operato da Twitter e Facebook. Un oscuramento che concerne anche le news sul giallo della morte (?) di Osama Bin Laden e, soprattutto, l’altrettanto misteriosa morte dei tutti i componenti del Seal Team 6 che aveva portato a termine l’Operazione Geronimo per eliminare il Terrorista (sic) numero uno al mondo.
Di tutto e di più nel bollente scenario del prossimo voto per la Casa Bianca. Con un Donald Trump attaccato frontalmente e con la giusta ferocia investigativa dalla giornalista di punta della CBC; e un Joe Biden al quale fa solo da morbido scendiletto il maggiordomo della ABC.
Ma vediamo le news.
JOE & HUNTER BIDEN, MISSIONE UCRAINA
Partiamo dal caso Ucraina. Già balzato alla ribalta delle cronache, e che ora torna di piena attualità soprattutto per alcune mail scottati, da poco scoperte e il cui contenuto sostanziale è stato pubblicato dal New York Post. Sotto i riflettori, il ruolo giocato da Joe Biden, all’epoca scelto da Barack Obama come coordinatore della Casa Bianca per la politica estera con l’Ucraina, e soprattutto, il ruolo svolto dal figlio Hunter, che ha ricoperto una carica importante nella compagine della più grossa società energetica dell’Ucraina, Burisma Holdings.
Una sigla finita sotto i riflettori di un rigoroso “prosecutor” ucraino, Viktor Shokin, sulle tracce di un maxi giro di tangenti, da almeno 7 milioni di dollari. Un’inchiesta pericolosa, perché arrivava a livelli molto alti della nomenklatura locale e non solo. Visto che nel bureau di Burisma aveva fatto il suo ingresso nientemeno che Hunter Biden. Quel magistrato, quindi, andava fermato: come da noi succede per gli ormai pochi pm che osano ficcare il naso in vicende troppo grosse e per questo motivo vengono sollevati dall’incarico e trasferiti perché “ambientalmente incompatibili”.
Tra le mail bollenti venute oggi alla luce, fanno capolino quelle intercorse tra il rampante Hunter e Vadym Pozharskyi, un altro membro del board di Burisma. In una, del 17 aprile 2015, si complimenta con l’amico Hunter per l’ammontare del “salary” che gli viene corrisposto da Burisma, 50 mila dollari al mese, percepiti fino a quando, nell’aprile del 2019, Biden junior ha lasciato il board. Not nuts, non proprio noccioline.
In un’altra, l’affettuoso Vadym ringrazia Hunter di averlo invitato negli Usa per fargli conoscere il padre, Joe. “Dear Hunter – scrive – thank you for inviting me to DC and giving an opportunity to meet your father and spent some time togheter. It’s really an honour and pleasure”.
Un botto, dal momento che Biden senior ha sempre sostenuto, in sede politica, di non essere mai entrato negli affari del figlio Hunter né di esserne a conoscenza!
Queste le parole della smentita del candidato democratico alla presidenza Usa: “I’ve never spoken to my son about his overseas business dealings”.
Quell’incontro a Washington DC, poi, si è realmente verificato proprio ad aprile 2015.
Commenta il New York Post: “L’incontro si è svolto poco meno di un anno prima delle pressioni esercitate da Joe Biden su alcuni membri dell’esecuto ucraino per far fuori il giudice Shokin dalle indagini su Burisma”.
IL MAGISTRATO FICCANASO, QUEL FIGLIO DI PUTTANA
Secondo alcune indiscrezioni riportate dal quotidiano statunitense, Biden senior avrebbe confidato ad un paio di membri del Council for Foreign Relations le sue pressioni per eliminare la toga pericolosa. “I looked to them and said: I’m leaving in six hours. If the prosecutor is not fired, you are not getting money”. Aggiungendo poi orgoglioso: “Well, son a bith. He got fired!”.
In soldoni, Biden ha avuto la faccia tosta di rivelare ad alcuni friends (che poi hanno vuotato il sacco) quanto ha detto ad alcuni funzionari di peso dell’establishment ucraino: “io parto tra sei ore. Se non fate fuori (“fire”, incendiare) il procuratore, non becchiamo i soldi. Ebbene, quel figlio di puttana è stato fatto fuori!”.
Capito i “sistemini” del prossimo Capo della Casa Bianca? Quel nonnino sulla sedia a rotelle condotto dalla sua vice Kamala Harris raggiante e in tacchi a spillo, come vengono immortalati in alcune dissacranti vignette a stelle e strisce?
Passiamo ad altre mail, stavolta intercorse tra Hunter e un socio in affari, un “business partner”, come lo etichetta il quotidiano censurato da Twitter e Facebook. Si tratta di Devon Archer, guarda caso anche lui un membro del molto americano consiglio d’amministrazione di Burisma.
Nelle sempre affettuose mail, Hunter si riferisce al padre Joe chiamandolo “my guy”. Emblematico il messaggio: “The contract should begin now, not after the upcoming visit of mu guy”, scrive, riferendosi ad un contratto che Burisma si appresta a siglare e alla prossima visita in Ucraina del padre, “my guy”.
Molto significativo il contenuto di altre mail, dal linguaggio ritualmente criptico ma non impossibile da decodificare. In una scrive: “Finally we need to have a plan on how we develop a corporate entity or LLPP that allows us on fund generated here to free us from existing and build up our own investment and expansion strategy”. Si riferisce a un preciso “piano”, ad una “strategia”, parla di fondi da generare, insomma tutto quanto fa business assai poco trasparente.
In un’altra dettaglia meglio la strategia: “We can preserve our interest in the areas where minimal involvment is appropriate”. Curare quindi i propri interessi con il minimo coinvolgimento diretto possibile. Più chiari di così…
Sulla messaggistica rovente intercorsa tra Hunter Biden e i suoi compagni di merende hanno cominciato ad indagare due commissioni del Senato statunitense, una per la Sicurezza interna e una per gli Affari di governo, con accuse a carico di Hunter: conflitti di interesse ma anche controspionaggio ed estorsione. Da non poco.
La base di partenza è un computer, il MacBook, sequestrato dal Federal Bureau of Investigation e trovato nell’abitazione in Delaware di un informatico e amico di Hunter, al quale quest’ultimo si era rivolto per un’assistenza tecnica ad aprile 2019.
A TUTTA ENERGIA COL COLOSSO CINESE “CEFC”
Eccoci ora in Cina, dove il dinamicissimo Biden junior ha coltivato altri affari. Partendo però sempre da una base tutta energetica.
Stavolta ruotano infatti intorno alla più grande compagnia energetica privata della Cina, CEFC, le ulteriori acrobazie dell’ubiquo Hunter.
Il colosso è acquartierato a Shangai e il suo nome rimbalza in una serie di mail, risalenti soprattutto al 2017.
In un messaggio, Hunter fa esplicito riferimento ad un affare “interessante per me e la mia famiglia” da portare a segno tramite CEFC. In un secondo si fa riferimento alla remunerazione di sei persone coinvolte nell’operazione. In un altro ancora si parla del compenso dello stesso Hunter, pari ad una fantomatica cifra “850”. La catena continua con “un accordo provvisorio” che prevede l’80 per cento della torta suddivisa tra quattro soggetti e quindi l’entrata in scena di due figure, ‘Jim’ e il ‘grande capo’.
L’interlocutore privilegiato di Hunter si chiama James Gilliar, titolare di società di consulenza, J2cR. Gilliar si dice “felice” di potersi rivolgere a “Zang”, in caso di ammanchi. Con ogni probabilità si tratta di Zang Jian Jun, ex direttore esecutivo di CEFC China.
Nel primo rapporto redatto in forma congiunta dalle due commissioni del Senato Usa, viene fatto riferimento anche ad altri componenti della famiglia Biden, oltre al padre-candidato Joe e al figlio Hunter: nelle svariate triangolazioni d’affari, infatti, fanno capolino James e Sara Biden. Fratello di Joe il primo, mentre Sara ne è la moglie.
E c’è un’altra consorte di mezzo: addirittura quella dell’ex sindaco di Mosca, Elena Baturina. La inconsolabile vedova dell’ex primo cittadino russo, infatti, ha pensato bene di fare un cadeau al fascinoso Hunter, da ben 3,5 milioni di dollari. L’affetto, of course, non conosce confini.
I GIALLI DELLA OSAMA BIN LADEN STORY
Passiamo alla ciliegina finale. Un giallo che più giallo non si può piombato sulla già rutilante scena del prevoto.
Si tratta di alcune news che tirano in ballo – e subito “provvidenzialmente” censurate dai solerti guardiani del potere mediatico, Twitter e Facebook – sulla Osama bin Laden story. Non tanto la sceneggiata in occasione dell’uccisione nel compound pakistano nove anni fa e del possibile “sosia” del quale si è parecchio parlato ma nessuno ha mai realmente indagato. Ma per quanto riguarda la altrettanto “strana” e altrettanto mai indagata “morte” dei componenti del SEAL TEAM 6 protagonisti dell’Operazione Geronimo che aveva portato – in via teorica – alla cattura di bin Laden.
I componenti del Team, infatti, hanno perso la vita tre mesi dopo l’operazione, il 7 agosto 2011 per l’esplosione di un elicottero “Chinook” sul quale volavano per un’altra missione in Afghanistan.
Si è subito parlato di un missile, come è successo per Ustica. Ma le indagini sono state ben presto depistate e quindi accuratamente insabbiate. Quei compenti del Team non avrebbero mai potuto aprire bocca: “dovevano morire” e portare via per sempre con sé la verità sulla cattura di Osama bin Laden, seguita in diretta, all’epoca, da Barack Obama.
Il cui nome torna alla ribalta oggi, con quelle news in tempo quasi reale oscurate da Twitter e Facebook.
Un agente pentito della CIA, in sostanza, avrebbe fornito prove documentali ad un membro del Congresso Usa e ad un generale dell’esercito circa il coinvolgimento non solo di Obama, ma anche dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton e dell’allora vicepresidente Joe Biden. Sarebbero loro – incredibile – i mandanti dell’eliminazione dei componenti del Seal Team 6!
Un’altra bomba che scoppia nei cieli americani, a pochi giorni dal voto. Ma sul giallo della fine o non fine di Osama bin Laden e su quello del Seal Team 6 torneremo presto con un’altra inchiesta.
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