Ipotesi. Un operaio (riserbo sul nome), licenziato da una fabbrica che chiude per riaprire in Paesi dove il costo della manodopera è basso e il fisco è disposto a chiudere un occhio sull’evasione, anzi due, diventa un povero estremo, nell’impossibilità di garantire alla famiglia un tetto e cibo, l’indispensabile per la sopravvivenza. Neanche a parlarne di far studiare i figli e di altri fondamentali di una vita normale. X, Y, ogni giorno lascia il suo “posto letto” sotto i porticati di un edificio periferico, dove è meno esposto allo sgombero dei vigili urbani e bussa invano a cento porte per chiedere lavoro, un qualsiasi lavoro. Moglie e figli sono ospiti di parenti a loro volta stretti nella morsa della povertà, ma generosi al punto di privarsi di parte del cibo, già ridotto ai minimi termini e di offrire il solo letto disponibile alla donna e ai bambini, che dormono in disagiata promiscuità. L’uomo le tenta tutte e quando è vicino a superare la soglia della disperazione decide di togliersi la vita, pur convinto che sia un modo vile di sottrarsi alla responsabilità di badare alla famiglia. Entra nella stazione centrale, oltrepassa i marciapiedi di partenze e arrivi, s’inoltra nel groviglio di binari, si nasconde dietro un casotto e aspetta che arrivi il treno che lo travolga. Nell’attesa si inseguono con velocità innaturale mille pensieri: il primo giorno di lavoro in fabbrica, la lavatrice regalata alla madre con il primo salario, l’acquisto a rate di una “Lambretta” che alla domenica gli ha consentito piacevoli gite con Anna, prima fidanzata. In accelerazione si rivede vestito da sposo mentre la moglie Gilda gli infila la fede all’anulare, il fiocco azzurro sulla porta d’ingresso per la nascita di Enrico, i compagni di lavoro alla catena di montaggio, la vacanza con tutta la famiglia nel Cilento, il dolore per la morte dei genitori nel breve giro di un mese, la dura lotta contro la delocalizzazione della fabbrica in Romania, il pianto inarrestabile della moglie alla notizia del licenziamento, la scoperta della dannata povertà che uccide la dignità di un uomo senza lavoro.
Di lontano l’arrivo di un treno si annuncia con lo sferragliare delle ruote, mentre lasciare un binario per immettersi in quello del percorso finale. L’uomo calcola mentalmente il tempo in cui si lancerà davanti al locomotore per essere travolto, ma sopraggiunge un ultimo pensiero. Tempo addietro nelle pagine interne del “Manifesto” ha letto l’articolo di un inviato, che sollecitato da notizie di agenzia, è volato in Nuova Zelanda per accertare se davvero in quel Paese esiste l’emergenza di centinaia di posti di lavoro scoperti. Tutto vero. Messo in parentesi il proposito suicida, X,Y, chiede di essere ricevuto dal giornalista autore dell’inchiesta.
Laconico, ma interessante il suggerimento: “Le do l’indirizzo email del Ministero del Lavoro neozelandese. Gli mandi una nota sulle mansioni che ha svolto in fabbrica. In bocca al lupo”. “Le offriamo un posto di tornitore nella ‘Johnson Materials’” è la risposta della fabbrica interpellata dal sottosegretario neozelandese.
Con l’avallo di un manager della fabbrica in cui ha lavorato, Di Gennaro (chiamiamolo così) ottiene un prestito bancario da restituire in cinque anni. In volo per Wellington si applica a sperimentare l’efficacia di un piccolo, magico apparecchietto made in Japan, che traduce in voce simultaneamente dall’italiano all’inglese e viceversa.
Alla Johnson lavorano da tempo altri due italiani e il signor X, Y, pensa che il mondo è grande, accogliente, di tutti.
Questa potrebbe sembrare una storia inventata e non lo è. Me l’ha raccontata il protagonista, incontrato in Giugno, il mese concesso di ferie dalla fabbrica che trascorre in Italia, da restituito alla dignità del lavoro.
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