Stefano Cucchi figlio unico, anziché fratello di Ilaria, che lo ha amato e combattuto come una gladiatrice per smantellare il castello di menzogne, depistaggi, ignobili omertà: le sue povere spoglie sarebbero rimaste seppellite sotto uno spesso strato di infamità. La tenacia di Ilaria è stata più forte di tutte le bordate che hanno provato a stroncare la sua volontà di inchiodare gli assassini del fratello. Con un’immane fatica ha sgretolato il muro di complicità costruito dai carabinieri per sottrarsi al giudizio della magistratura e impedire l’accertamento delle responsabilità dell’Arma, dei suoi vertici, di chi ha massacrato il corpo di Stefano fino a provocarne la morte. Finalmente c’è la verità, ma ne restano fuori soggetti che per degenerazione del mandato di parlamentari, di rappresentanti degli italiani, di “onorevoli” come continuano abusivamente a farsi chiamare, meriterebbero di essere processati per aver infamato Stefano Cucchi. Eccoli. Con indignazione la Repubblica ricorda che Salvini, vice premier dello squinternato governo giallo verde, ministro dell’Interno, razzista e molto prossimo a comportamenti dell’autoritarismo neofascista, ha insultato Cucchi Così: “Fa schifo. Difficile pensare che sia stato pestato”. Accertata la verità neppure un parola di condanna per gli assassini, nemmeno un segno di solidarietà per la famiglia. Gianni Tonelli, ex segretario generale del sindacato autonomo (di destra) della Polizia, ora non a caso deputato leghista: “Se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”. Giovanardi: “Le lesioni? La causa è la malnutrizione. Era un tossico e uno spacciatore, è stato ricoverato sedici volte, polizia e carabinieri non c’entravano. E’ una vecchia frattura quella della L3, è la tossicodipendenza ad aver svolto un ruolo casuale. Se Cucchi non si fosse drogato non sarebbe morto. Ilaria Cucchi dice che il decesso è stato provocato dalle fratture? Non credo che gli asini volino”. La Russa, allora ministro della difesa: “La sola cosa di cui sono certo è il comportamento corretto dei carabinieri”. Accertata la verità, questi bei soggetti sono stati colpiti improvvisamente da mutismo e non se ne vergognano.
La storia racconta che ai governi e ai regimi di destra, fascisti o parafascisti, la libertà di informare è perseguitata con misure estreme. Si chiudono le testate non organiche al potere, si minacciano i giornalisti e se non zittiscono si arriva a farli fuori. Ci siamo, o quasi. Il governo gialloverde non fa mistero della volontà di zittire le voci del dissenso e auspica la morte dei giornali non allineati, sicché gli italiani siano informati solo dai social che controllano o dalla Rai tutta sbilanciata a proprio vantaggio. Nel mirino della destra finisce chi fa giornalismo d’inchiesta, oggetto di violente intimidazioni. Bersagli, non per caso, sono inviati e cronisti coraggiosi, impegnati a denunciare la criminalità, la corruzione, il neofascismo. La Repubblica segnala i casi che riguardano propri collaboratori e del settimanale l’Espresso, stesso gruppo editoriale. Il siciliano Lirio Abbate autore per l’Espresso di inchieste su Mafia Capitale, sulla ndrangheta e relative implicazioni della politica, Federica Angeli, (Repubblica), minacciata dai boss delle periferie romane, Paolo Berizzi, dello stesso quotidiano, oggetto di una campagna “contro” dei neofascisti, Floriana Bulfon (Repubblica/L’Espresso), che ha denunciato la mafia dei Casamonica, Salvo Palazzo, inviato di Repubblica a Palermo, Giovanni Tizian dell’Espresso: la cosca calabrese che opera in Emilia lo ha minacciato di sparargli in bocca. In questo clima di sovranismo intollerante, autoritario, che si compiace di evocare come modello il Ventennio, gli episodi come quelli descritti sembrano destinati a moltiplicarsi, a imbavagliare la libertà di stampa. Non è un problema solo degli addetti ai lavori.
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