Anni sessanta/settanta. Omini-avamposto dell’espansionismo giapponese furono inviati speciali nel mondo occidentale, in trasferta pagata del governo. Li abbiamo visti, armati di macchine fotografiche, blocchi da disegno, registratori, mini telecamere, aggirarsi nelle strade del commercio, con l’aria di turisti curiosi e ammirati. Erano spie, nell’accezione di predatori, intenti a fotografare e disegnare oggetti di ogni tipo, ad acquistarne come per farne dono a parenti e amici. In realtà, questo capillare lavorio di copiatura ha dato la stura all’invasione industriale nipponica del mondo. Due nomi la raccontano emblematicamente. La Sony Corporation (ソニー株式会社 Sonī Kabushiki-gaisha), con sede a Tokio, è diventata in fretta una multinazionale dell’elettronica di consumo, leader della vendita di televisori, registratori e relativi accessori, computer, telecamere, macchine fotografiche e cento altri prodotti. La Nikon, a sua volta gigante del settore, ha cancellato dai mercati la storica presenza della Zeiss, regina del pianeta fotografia (prestigiosa la sua Contaflex) ed ha spazzato via la prestigiosa Hasselblad. Nell’ambito della tecnologia presente e futura di settore, spadroneggia il made in Japan e non meno l’impero invasivo dell’automobile con Toyota e Nissan.
L’emisfero ad est del mappamondo prepara un nuovo assalto commerciale all’emisfero occidentale e lo sostiene con l’impeto di un Paese spinto da un miliardo e mezzo di abitanti. La Cina va oltre il copia-incolla del Giappone, forma eserciti di specializzati in clonazione di tutto l’esistente e dilaga in ogni latitudine della Terra, sbaraglia i mercati locali grazie a prezzi irrisori dei prodotti, possibili per il costo infimo di produzione e in molti casi per la qualità scadente dei materiali impiegati. Il sistema si espande e invade i Paesi occidentali, come l’Italia. Imprese cinesi hanno cancellato le aziende italiane dell’industria tessile di Prato, impossibilitate a sostenere la concorrenza, a Milano la presenza cinese è clamorosamente descritta dalla classifica dei cognomi più diffusi. In vetta c’è l’italianissimo Rossi con 4.200 persone, insidiato dal cinesissimo Hu, nome di 4.100 persone.
Ed ecco lo sbandierato accordo italo-cinese, pubblicizzato come “via della Seta”. Avviene in questo contesto, palese per gli italiani delle grandi città. Proliferano i ristoranti e soprattutto i bazar cinesi, dove trovi dall’abbigliamento ai prodotti per la casa, dagli ombrelli alle sveglie, agli occhi per presbiti con foderina, piccolo panno per la pulizia e laccetti da collo, alla stratosferica somma di due euro. Per il momento rimane nella zona grigia del rendez-vous con Xi Jinpin, deus ex machina dell’impero giallo, l’idea di vendergli il cinquanta per cento del debito pubblico italiano. E chissà, il Colosseo, gli Scavi di Pompei, la Fiat, la Nutella.
Il mega presidente, ospite del nostro Paese, è sbarcato a Fiumicino preceduto e seguito da cinquecento “sudditi”: perché proprio da noi? Conosceremo mai i dettagli degli annunciati accordi commerciali presumibilmente favorevoli alla Cina, considerata la dimensione economica e il potere contrattuale dei due Paesi? A giudicare dal passato c’è da preoccuparsi. Negli anni 80 abbiamo venduto, o svenduto, alla Cina l’impianto nuovo di zecca dell’acciaieria di Bagnoli. Replicheremo con un’offerta al ribasso per liberarci della compagnia aerea di bandiera, gli venderemo altre squadre di calcio, case di moda, il parmigiano reggiano, la perla di Taormina? Per il momento ci bacchetta mister Trump, indispettito per quello che ritiene un tradimento del rapporto Usa-Italia. Si potrebbe replicare “chi se ne frega”, ma il dispetto, come un boomerang, tornerebbe indietro. Ci piaccia o no, l’interlocuzione commerciale con l’America è una delle ragioni che attenuano la crisi italiana grazie all’export oltre oceano.
Anteprima delle trattative: l’ANSA, agenzia italiana di stampa, racconta che una partita del nostro campionato di calcio, serie A, potrebbe emigrare in Cina. Su questa surreale proposta lavora il vertice italiano di questo sport con China Media Group, perché “strumento di dialogo permanente tra i due Paesi”. Previsto anche l’inserimento di giovani talenti cinesi nei centri territoriali della Federazione Calcio italiana. Lo conferma il Financial Time e nasce l’ipotesi fantacalcistica di un futuro match Juve-Pechino. In campo per i gialli: Wang; Zhang, Liu, Chen, Yang; Li, Huang, Zhou, Wu; Sun, Hu, Zu. Tifosi italiani in rivolta.
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