“Voglio vederli in faccia questi bastardi che me lo hanno ucciso”. Non si arrende, non arretra di un centimetro Tonina, la mamma di Marco Pantani, il nostro campione di ciclismo ammazzato (“suicidio” per la Cassazione) in un residence di Rimini il 14 febbraio 2004. Una sentenza da brividi.
Resta solo un filo di speranza a Napoli, dove da due anni esatti (fine agosto 2016) è depositata la richiesta di riapertura indigini presentata dall’ultimo avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis.
Ma ricostruiamo i fatti partendo dalle news. Una immensa folla di giovani, sportivi, turisti, concittadini e curiosi si raduna in queste ore (1 e 2 settembre) a Cesenatico per ricordare Marco, il Pirata, l’eroe della montagne, il campione che tutti gli italiani hanno nel cuore anche dopo tanti anni per il coraggio, l’eroismo, la sofferenza per la fatica che vedevi disegnata sul suo viso.
“La mia battaglia – sussurra tra le lacrime mamma Tonina – è iniziata 14 anni fa e non avrà mai fine. Ho cambiato sette avvocati e non è successo nulla. Muri di gomma, dai tribunali solo silenzi e archiviazioni. Sono andata in crisi tante volte, ma ogni volta mi rialzo e ricomincio, come faceva lui con le sue salite interminabili. Mi batto per uno sport pulito, soprattutto per i giovani, e la mia battaglia non avrà fine fino al momento in cui non avrò la verità. Voglio vederli in faccia quei bastardi”.
Non sarà certo facile, un’impresa titanica, una di quelle che Marco era comunque abituato, con la sua tenacia senza confini, a compiere.
La Voce ha scritto varie inchieste sul giallo Pantani che potete trovare in archivio. Ma vogliamo riassumere gli ultimi sviluppi. O meglio, “non sviluppi”.
Come abbiamo detto c’è in vita ancora un esile filo di speranza, si trova presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, visto che a fine agosto 2016 l’avvocato de Rensis depositò una articolata memoria per ottenere la riapertura delle indagini, negata dalla procura di Forlì, basandosi su una mole di elementi. E chiedendo il trasferimento del fascicolo, appunto, da Forlì a Napoli.
QUEL GIRO D’ITALIA 1999 ERA TAROCCATO
Come forse ricorderete, tutto parte da Renato Vallazzasca, che rinchiuso nel carcere di Bollate riceve alcune confidenze, molto particolareggiate, da un pentito di camorra, il quale gli consiglia, al Giro ‘d’Italia del 1999, di scommettere sulla sconfitta di Marco: “’O Pelato non arriva a Milano”.
E gli racconta di maxi scommesse effettuate dalla camorra, come ritualmente accade per grossi eventi sportivi, a cominciare dalla ‘vendita’ dello scudetto al Milan del 1989.
Vallanzasca scrive alla madre di Pantani descrivendole la storia. La signora Tonina in un baleno si precipita alla procura di Forlì, sporge denuncia e allega la lettera: il fascicolo è affidato al pm Sergio Sottani, il quale effettua una serie di riscontri. Per prima cosa individua il pentito che nel carcere aveva parlato con Vallanzasca: collabora, dà nomi e cognomi di altri camorristi con cui parlare e ulteriori elementi. Gli altri camorristi vengono sentiti dal pm, forniscono conferme, e soprattutto ribadiscono che quel Giro era taroccato: la camorra ci aveva puntato palate di soldi e ‘O Pelato non doveva concluderlo.
E’ così che era successo, nel 1999, il dramma dalla tappa a Madonna di Campiglio: i valori del sangue di Marco risultano leggermente alterati, ma tali da farlo escludere dalla gara. I sanitari che hanno effettuato il prelievo sono reticenti, il capo dell’equipe, un medico svedese, Wim Jeremiasse, guarda caso un mese dopo finisce dentro un lago ghiacciato austriaco con la sua auto: e dopo quel prelievo aveva dichiarato, “oggi il ciclismo è morto”. Poi è successo a lui.
Uno dei massaggiatori del campione, Roberto Bregnolato, parla espressamente di alterazione delle provette da parte dei sanitari, “convinti” con i metodi che la camorra solitamente usa. E afferma: “Marco Pantani fu ucciso quella mattina a Madonna di Campiglio”.
Insomma, una montagna di elementi probatori che avrebbero dovuto condurre in dirittura d’arrivo verso il traguardo dei rinvii a giudizi e quindi l’inizio del processo. Invece niente: Forlì nicchia, sostiene che molte testimonianze sono solo “de relato”, cioè di camorrristi che le riferiscono da altri camorristi. Insomma, non ci sarebbe la prova regina, la pistola fumante o, in questo caso, l’ago nella vena del campione e il sangue alterato davanti agli stessi pm.
Ma fateci il piacere… avrebbe detto Totò. La Procura di Forlì, del resto, non capisce un tubo di camorra e quindi avrebbe dovuto spedire il fascicolo a Napoli, anche perchè proprio nel capoluogo partenopeo in precedenza, e anche per altri fatti delittuosi, avevano testimoniato diversi camorristi che erano a conoscenza della combine creata intorno a quel maledetto Giro del 1999.
Niente. Forlì è ben decisa a tenersi stretto il fascicolo, a far tutto da sola, ed ad archiviare il tutto. E così fa.
E’ a questo punto, due anni fa, che l’avvocato De Rensis, proprio in forza di quelle carte, quei documenti, quelle verbalizzazioni, quei fatti successi, si presenta alla Dda di Napoli e deposita la richiesta di riapertura del caso.
Sono passati due anni esatti. Ma di quel fascicolo, oggi, non si ha un sola notizia. E’ stato mai aperto? E’ stata fatta un’indagine? E’ stato sentito qualche pentito? E’ stato effettuato qualche riscontro? A quanto pare no, perchè dopo un anno circa (settembre 2017) la Voce intervistò il pm incaricato Antonella Serio, che disse poche e vaghe parole: “il fascicolo è in evidenza. Quando ci sarà qualche sviluppo lo comunicheremo”.
Invece, fino ad ogni lo zero più assoluto. Un muro di gomma. Ci fosse stato un minimo di sviluppo il procuratore capo avrebbe convocato una mini conferenza stampa – come di rito – e aggiornato sulle eventuali novità. Invece niente.
Abbiamo contattato anche lo studio dell’avvocato De Rensis, via telefono e via mail. Nessuna novità.
Passiamo al secondo atto, non meno sconcertante del primo. Perchè esiste un’altra inchiesta, sempre condotta dalla procura di Forlì, riguardante l’omicidio (etichettato ovviamente come “suicidio”) di Marco, avvenuto appunto nella pensione Le Rose di Rimini.
UN SUICIDIO ALLA PINELLI O ALLA DAVID ROSSI
Anche qui due inchieste parallele. Una condotta dalla polizia e dalla procura, l’altra dall’avvocato de Renzis.
La scena del crimine, per sintetizzare, è da tsunami: mobili distrutti, letto squarciato, suppellettili di ogni tipo fatte a pezzi. E il cadavere di Marco che presenta evidenti segni di ferite e di trascinamento. La scena somiglia molto a quella di un altro omicidio spacciato per suicidio, quello di David Rossi, il responsabile comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, che di segreti su Mps ne conosceva una caterva e avrebbe potuto rivelarli ai pm che l’avevano convocato per il giorno seguente al “volo” dal quarto piano di palazzo Salimbeni.
E anche Marco era una “mina vagante”. Avrebbe potuto rivelare un mare di cose non solo su quel Giro taroccato, ma sul mondo della droga nello sport, sul colossale giro d’affari del doping, sui controlli taroccati, sugli organismi che sulla carta dovrebbero controllare e invece fanno esattamente il contrario, sulla maxi corruzione imperante. E poi sul mega giro di scommesse illegali e di camorra nella cui trappola era caduto.
Per gli inquirenti bazzecole, pinzellachere: si era drogato, aveva perso il controllo di sè, aveva distrutto tutto. Si era inferto quelle ferite, in palese stato di masochismo acuto, si era autotrascinato per metri.
In più, ciliegina sulla torta, due elementi che fanno a cazzotti con questa ricostruzione: un giubbotto che non apparteneva a Marco trovato nella stanza del residence e un cornetto gelato Algida nel contenitore dei rifiuti (marca che Marco non consumava). Commentano i pm: “lo aveva mangiato un poliziotto per distrarsi”. E tu inquini la scena del crimine in quel modo?
Ai confini della realtà.
La controperizia redatta dall’avvocato De Renzis, soprannominata delle “100 anomalie”, per la immensa mole di elementi contraddittori e mai chiariti, contiene una sequela di fatti che fanno a pugni con la ricostruzione ufficiale. La Voce li ha descritti nelle passate inchieste che potete rileggere.
ARCHIVIAZIONI KILLER
Ma alla fine di tutta questa battaglia giudiziaria cosa è partorito? L’ennesima richiesta di archiviazione della procura di Forlì. Per la quale non bastano tutti gli elementi e moventi: occorreva filmare il killer col pugnale nello stomaco di Pantani.
E pensare che anche una perizia scientifica aveva dimostrato come Pantani fosse stato costretto ad ingurgitare una pallina di coca, allo scopo di ammazzarlo con una maxi over dose. E microtracce di quella pallina si trovavano ancora sulla scena del crimine. Il filmato delle operazioni dei primi investigatori è stato poi tagliato. Perchè durava troppo, secondo alcune spiegazioni.
Come del resto è stato tagliato il filmato delle telecamere del Monte dei Paschi che documentano la caduta di David Rossi. Troppo lungo e noioso.
Dopo l’archiviazione richiesta dal pm e accettata dal gip di Forlì, tutto morto. Non è restato, a De Renzis, che fare l’estremo tentativo in Cassazione, dove quasi tre anni fa, il 19 settembre 2015, giorno di San Gennaro, le toghe non ha fatto certo un miracolo: ma semplicemente apposto una fredda pietra tombale sulla tragedia: archiviazione.
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