Marcella – Monologo-Racconto per Natale di Luciano Scateni

Guardarsi dentro, privi di coraggio, fa male. L’ingresso senza riserve nelle corde dell’anima di getto, sull’abbrivio di uno starter mentale adeguatamente allenato, è al contrario altamente liberatorio. Se ne avvale la psicanalisi, non a caso, ma se ne può fare a meno con affondo appropriati nella memoria.    

“Avessi un fucile. La forza dell’indice non fosse così insufficiente, il grilletto non si fermasse più volte a metà corsa, il percussore non fosse impedito nella viaggio contro il cerchio dorato al centro del proiettile”: la fronte, le mani, tutto il corpo, inondati da minute gocce di sudore. Se ne impregnano le lenzuola. I muscoli rispondono ai terminali nervosi di ogni parte del corpo con rigidità dolorose, ma è la mente che patisce il peggio di tensioni montanti. Il pensiero non separa più gli incubi dell’onirico dal panico per il risveglio. Subisce i residui delle tenebrosità racchiuse nell’inconsapevolezza di un faticoso stazionare al confine tra veglia e sonno. Nella prigione buia, solo respiri irregolari, tronchi. Trema l’avambraccio, trasmette l’instabilità alla spalla. La nuca si paralizza, gli occhi fotografano l’incursione nell’immaginario. Di fronte all’inutile bocca di fuoco c’è la miseria di una stanza senza personalità. “Le sto dentro e le sono estraneo. Oltre ogni logica mi proietto fuori campo, ma all’istante sono di nuovo dentro questo impianto scenico a due dimensioni, presenza e allucinazione, percezioni di gemiti, parole ingoiate e respiri in affanno, gesti percepiti ed enfasi tragiche. Di nuovo estraneo, in un palco che domina la rappresentazione. La platea è il niente, nemmeno uno spettatore. Dentro lo spazio dell’azione acceca invece una luce gelida che cancella il contrasto, i grigi e spara solo bianco accecante come un laser distruttore. Sottrae colore agli oggetti e li appiattisce, li priva della tridimensionalità. L’effetto esplicito è nel pallore totale delle mani di mia madre, quasi di marmo, livide, contratte sul bordo del tavolo per trarne slancio e tentare una via di fuga. Sul bel viso di creola non so decifrare il linguaggio degli occhi. Ne conosco la dolcezza dei momenti di abbandono all’orgoglio della maternità e la severa fissità per il rito della disapprovazione, il velo di opacità che a sera spegne l’intensità dello sguardo per disporla al riposo. Non riconosco questi occhi infiammati da brevi lampi di odio. Questi occhi non li ho mai visti. E neppure il corpo che s’inarca in difesa, consapevole della sua vulnerabilità, non rassegnato alle resa, teso a contrastare rabbiosamente la violenza. Resistere sembra eccitare ancor più l’aggressore. So che devo sparare. E’ quanto chiede il filo conduttore della tragedia. E sparo. Ma la conseguenza è solo il volto stupito dell’uomo, anche se la mano si arrossa di sangue e macchia di scuro la camicia appena sopra la bocca dello stomaco, dove le dita premono su un impressionante squarcio della carne. Cerco negli occhi di mia madre la reazione al finale eroico. Non c’è. Le dita dell’uomo in un niente hanno di nuovo il loro aspetto terreo e non c’è più traccia delle ferita. Sul volto un’espressione spregevolmente beffarda, le parole sono ancor più insinuanti, offensive, oscene. Sparo di nuovo e sparo. La canna del fucile rimane fredda, muta. Mi cade addosso la percezione che l’agguato è al suo epilogo e corro via, attraverso stanze disadorne, una dentro l’altra all’infinito, una più piccola e buia della precedente. In fondo al percorso c’è solo la paura del niente. L’uomo reca offesa alla donna. Le mani impietose squarciano la veste dalla scollatura alla vita. Le braccia della vittima s’incrociano sui seni a difenderne la nudità, ma lasciano indifeso il corpo e lo espongono alla violenza. Irrigidisco la schiena, provo a bilanciare il peso del fucile. La canna annaspa e fallisce la ricerca del bersaglio. Il colpo finisce nella lanugine di un cuscino che nasconde la stoffa sdrucita di una vecchia poltrona. La presa attorno al calcio del fucile si allenta e l’arma finisce con un rumore sinistro sulle piastrelle maculate del pavimento.”

Avevo nemmeno sette anni. Da poco più di un mese ci sembrava di essere una famiglia. Un anno orribile il ’43.

Per cinque volte in sessanta giorni, nelle ore che precedono l‘alba, carichiamo le nostre cose su un carretto da ortolano e vaghiamo nel buio della periferia romana, gli occhi gonfi di sonno e l’atterrita consapevolezza dei voli radenti di aerei, il lacerante crepitio delle mitragliatrici, il sordo boato di bombe sganciate su ogni bersaglio strategico. Ci accompagna il terrore d’imbatterci nelle ronde delle camicie nere a caccia di uomini da spedire in Germania, nei campi di lavoro, gli antifascisti. Il nome di mio padre è negli elenchi delle squadracce che operano le retate. Ha rifiutato la tessera del fascio e ha l’impudenza di dichiararlo. Le nostre vite sono affidate al coraggio e alla solidarietà di amici generosi che ci ospitano, a rischio, per una, due settimane, fino al nuovo trasloco. L’ultima stazione del calvario ci sembra un timido volgere della fortuna a nostro vantaggio. Lassù, in Monteverde Vecchio, ci accoglie il primo piano di una villetta, modesta, ma regale se la confrontiamo con le soluzioni d’emergenza che l’hanno preceduta. E’ di un abile doppiogiochista, in confidenza con un paio di gerarchi ma, a suo dire, antimussoliniano. Solo un giorno dopo i lavori di ambientamento, appena desti e rassegnati alla clausura per non rivelare la nostra presenza, siamo tutti nella stanza di soggiorno, ciascuno alle prese con lo scorrere lento del tempo nell’ozio forzato. A un tratto finisco in terra e gli altri sbandano vistosamente, come investiti da una spallata del terremoto. La finestra si spalanca sotto la spinta dello spostamento d’aria. La terra, un metro o poco più al di sotto dei nostri piedi, si apre per accogliere una bomba che, planando, per miracolo non libera il suo potenziale esplosivo.

Tra non molto la strada sarà invasa da vigili del fuoco e poliziotti, artificieri e qualche zelante camicia nera. Gigi, meglio che sparisca. Vada in campagna, torni quando sarà ripristinata la normalità.”

Roma 1943

Oreste Benelli spinge mio padre fuori di casa. Sono le sei e tre quarti e ci prepariamo all’evacuazione per dar modo agli artificieri di rendere inoffensive le due tonnellate dell’ordigno. L’eccitazione per l’evento svanisce di colpo, soffocata da un parlare tagliente del nostro nuovo padrone di casa rivolto a mia madre. “Ti ho detto che voglio il pagamento anticipato e non ho visto ancora una lira, ma pagherai, in un modo o nell’altro pagherai.” Mi intimorisce la prepotenza della voce e un avanzare dell’omaccione che costringe mia madre a continui passi a ritroso, fino a trovare la protezione del tavolo. E’ timorosa la risposta: “Lo sa, non abbiamo soldi ma siamo gente onesta e appena possibile le daremo fino all’ultimo centesimo. E’ questione di poco, mio marito deve ricevere a giorni lo stipendio dal Ministero della Marina.”

Ho pensato finora alla paura come a una fragilità infantile e la leggo negli occhi di mia madre. Ora Benelli urla: “Sto per perdere la pazienza, bella mia. Paga o esci da questa casa”. Mi appiattisco per quel che posso, vigliaccamente estraneo alla violenza di cui sono spettatore impotente. Mi misuro per la prima volta con la vergogna e intuisco che sarà convivenza di altri giorni. Provo a uscire virtualmente dalla stanza, quantunque paralizzato dalla paura, ma finisco per essere testimone della dolorosa fragilità di mia madre. Ne resto prigioniero, sconfitto, segnato per sempre.

Ho smesso di soffrire Roma dopo vent’anni di sogni ogni notte egualmente ossessionanti, gli occhi perciò stanchi fino a sera e perciò il corpo scavato dalla spossatezza. A Monteverde non c’è più la scarpata a ridosso dell’intreccio convulso di binari della stazione, né la cigolante cancellata che la gente di borgata infilava di corsa anche più di una volta nella stessa notte, inseguita dall’allarme che annunciava una nuova ondata di bombardamenti. Saltavamo giù dal letto, intontiti ma lucidi, mossi dal sinistro avvertimento delle sirene. I tracciati luminosi della contraerea squarciavano il buio di notti senza stelle e ci opprimeva la paura di attraversare senza danni la distanza dalla strada ferrata con il muso degli aerei in picchiata e le fiammate accecanti delle mitragliere puntate sulla stazione.

Non sono mai cambiate le mie notti: i soldati tedeschi portano in alto le ginocchia, prima di abbattere gli stivali con il tacco rinforzato da mezzelune di ferro sui sanpietrini delle strade collinari e l’effetto, marziale, ha un suo terrorizzante, inconfondibile, unisono. Le sere di maggio del ’43 ne rabbrividiscono, nonostante qualche precoce annuncio di un’estate calda come Roma non ricorda da un secolo. Tormentano i miei sonni quei passi cadenzati e non meno il rumore dello schianto di porte fracassate con il calcio dei mitra, gli ordini urlati in una lingua dura, perentoria. Sotto gli elmetti vedo venirmi incontro le facce di infiniti replicanti, in tutto uguali all’aggressore di mia madre. Non so più se attraversano il mio corpo trasparente o se la paura mi spinge a cercare scampo nel buco totalmente nero che i soldati hanno al posto degli occhi.

Ho sognato come una persona normale qualche tempo dopo il ritorno da esorcista in quel luogo divenuto irriconoscibile per mano della cementificazione e così simile a ogni altro segmento d’Italia dove sono stati spazzati via i residui di ferite e traumi della guerra. Non ci arrivo per caso, lo cerco grazie a una trasferta di lavoro. Dov’è la palazzina malandata dove ha fatto irruzione una pattuglia di SS che ha trascinato via un antifascista per deportarlo in Germania? La memoria di quel volto atterrito, consapevole del terribile futuro, rinnova l’ostilità per ogni tedesco sopravvissuto ai tribunali di guerra.

Sosto nella grande casa al centro del Vomero a mezzo di un interminabile percorso di lavoro che, preso il via nella dolce ospitalità delle Marche, mi spingerà fino alle aspre bellezze del litorale Jonico. Disorienta il risveglio nel letto che ho vissuto per molti anni del faticoso dopoguerra. E’ un ritorno a emozioni che stento a sistemare nel labirinto cronologico di oltre due decenni. Si affollano minuziose particolarità, confusamente.

L’esodo da Roma: una notte intera nel cassone sgangherato di uno sbuffante camioncino con le ruote di gomma piena e le balestre ferite da troppi percorsi accidentati. E’ promiscuità con altri disperati, ognuno reduce da dure epopee, scritte in faccia e nessuna voglia di raccontarle. Mi sembrano impudichi il braccio di mio padre che circonda le spalle di Marcella, la mano che si poggia, forse involontariamente, sul seno di mia madre. Non ho rimosso l’imbarazzo di questo stare stretti l’uno all’altro nelle ore più fredde della notte. A neppure metà del percorso il proprietario del furgone spegne il motore. “Ho mi date il doppio di quanto abbiamo pattuito o di qui non mi muovo.” Ci salva un giovane militare, compagno di viaggio in borghese. Gli punta la pistola contro e urla “Sali, metti in moto e portaci a Napoli. Altrimenti ti ammazzo e il camion lo porto io a destinazione.”

Napoli, all’alba di una giornata dal clima ancora indecifrabile, è Napoli fino a un certo punto. Troppo ferita per lasciarsi alle spalle il martirio dell’occupazione nazista e l’offesa al tufo delle case compiuta da infiniti bombardamenti. E’ una città polverosa, incapace di costruire la resurrezione, inginocchiata sulle macerie a cantare un pianto antico, a piangere nuove lacrime. Il tram si aggrappa a fatica ai tornanti che avvolgono la collina e temo che non guadagnerà mai la cima. Cigolando sulle rotaie lucide, ha invece ragione dell’erta di via Tasso che in certe anse proiettate sulla vista del mare sfiora i palloni ancorati nelle acque del porto ingombre di relitti, a difesa dei raid aerei che hanno massacrato la città. La coltre di umidità notturna, ancora non dissipata, occulta la spettacolarità del golfo, ma anche la rada militarizzata che il profilo di una portaerei americana sovrasta con il piglio del vincitore.

Ma Napoli è una casa finalmente, dove mettere radici e cancellare con pazienza i segni di occupazioni dei senza tetto scampati alle bombe e alla fame. Dopo una notte di viaggio come bestie, il gesto è del tutto naturale. Mamma si sfila la larga veste a fiori, lavata tante volte, fino spegnerne i colori e la getta lontano da sé. Forse è l’effetto della sottoveste nera che assottiglia il corpo o forse è proprio smagrita. Per casa non vedrò più quell’indumento che ha portato come una divisa di guerra e sono deciso a dimenticare lo strappo dalla scollatura alla vita, ricucito come una ferita. Capirò tardi quanto sia liberatorio sbarazzarsi della testimonianza di una profanazione che ho sperato di rimuovere mentre si compiva, ma che ho sofferto come una colpa in tante notti malate. Non mi spiego l’insopportabile disagio nel vederla china sui cassetti di una ampio mobile nella stanza da letto, le mani poggiate sulla biancheria intima scampata alle razzie di chi ha occupato la nostra casa. E’ commossa e sto per negarle questo ritrovare se stessa come rito di purificazione che potrebbe seppellire per sempre paura e disgusto, la memoria di una violenza orrenda. Finisce qui il gioco di reciproche tenerezze per cui mi prendeva in giro, attenta a non ferirmi se le sussurravo “quando sarò grande ti sposerò”.

Napoli 1943

Ora vorrei che si coprisse, dannazione. Perché mi appare impudica. Per un momento ho paura di odiare meno chi le ha fatto violenza, mentre con gli occhi mi implorava di andar via, di non capire.

E’ la prima volta con Adriana, compagna in amore, nella casa adagiata nel verde pendio di Tolentino. E’ la nostra casa da più di un anno eppure mi ci muovo come se il costruttore mi avesse consegnato la chiave un momento fa. Lei per fortuna non se ne avvede. Mi prende per mano e ho l’impressione di condurla io nell’angolo che preferisco. “Accarezzami”, chiede con la spontaneità che riconosco tra molte qualità. Le sorrido e so che l’eccitazione manderà via il peso di mille notti tormentate. Spero perfino che rimuova ogni scheggia piantata nella coscienza di testimone passiva del peggio che è in me.

Sono di nuovo al Vomero in un giorno di greve pressione dello scirocco. Mi è consentito di liberarmi con un sonno indisturbato della stanchezza del viaggio e intuisco quanto costi a mia madre, in debito di curiosità per conoscere percorsi di vita che non le appartengono più. Al risveglio, il sole è già alto e inonda la vecchia casa, oramai troppo grande per i miei genitori. S’è arrotondata mia madre. Sono più pieni i fianchi, è quasi comparso il solco tra i seni. La sottoveste li trattiene a stento. Vorrei che non girasse così per casa.


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