Strage per il sangue infetto, al processo di Napoli comincia a squarciarsi il velo su errori, orrori & affari che hanno caratterizzato per anni il commercio di sangue e di emoderivati, lungo l’asse Italia-Usa. Un teste che ha lavorato per vent’anni con il gruppo Marcucci, in dibattimento parla di casi di sacche di plasma infetto segnalate con ritardo, le cosiddette “segnalazioni postume”, come ha coloritamente descritto. Forse costate le vita a decine e decine di pazienti.
Ma che fine facevano quelle sacche di sangue infetto? Distrutte se dovevano essere ancora lavorate. Se invece erano state lavorate e forse immesse in commercio, cosa succedeva? “Non lo so”, dichiara il teste, “io segnalavo ai miei superiori”.
La verbalizzazione choc è stata resa da un perito chimico, un tecnico di laboratorio appena andato in pensione, ma che ha lavorato per tutta la sua carriera professionale nel gruppo Marcucci, l’indiscusso protagonista al processo di Napoli: non con i suoi big, perchè patròn Guelfo Marcucci è passato a miglior vita un anno e mezzo fa e i rampolli non sono stati toccati dall’inchiesta (né l’amministratore della corazzata Kedrion, Paolo, né la figlia Marilina né il senatore super renziano Andrea Marcucci); ma con alcuni suoi funzionari/ dirigenti o ex funzionari/dirigenti.
Il perito chimico si chiama Bruno Pagano, napoletano doc, in servizio presso gli stabilimenti di Rieti della Aima Plasma Derivati, una delle sigle dell’impero Marcucci, poi passata sotto il controllo della multinazionale Immuno.
Ecco alcune tra le dichiarazioni di Pagano.
LA VERBALIZZAZIONE BOLLENTE
“Ho lavorato dal 1975 all’Aima di Rieti, mi occupavo di esaminare tutta la certificazione che proveniva dai centri di raccolta in Italia o dall’estero, affinchè il sangue fosse in regola, testato e certificato. Si trattava di un controllo formale, documentale”.
“Il sangue arrivava per il 10 per cento circa dai centri italiani di raccolta, noi lo lavoravamo e poi veniva restituito, in base ad apposite convenzioni, alle Regioni dalle quali era stato inviato”.
“Il restante 90 per cento circa veniva dall’estero, praticamente tutto dagli Stati Uniti”.
“La merce viaggiava in aereo oppure in nave. L’equivalente di un Tir. Si andava dai 400 agli 800 litri per carico”.
“La società che si occupava dell’importazione si chiamava Continental Pharma”.
“C’era però una differenza sui tempi di lavorazione. Dal momento che sangue e plasma italiano potevano rimanere fino a 20-25 giorni, perchè si trattava di partite molto più piccole e anche di flaconi più piccoli. Mentre quello americano, contenuto in sacche o flaconi da circa tre quarti e anche 800 poteva essere lavorato più in fretta, in genere 6-7 giorni massimo dall’arrivo”.
Poi precisa. “Il sangue italiano stava in una certa quarantena, un periodo utile per verificare se poi arrivavano delle segnalazioni. Quello estero molto di meno”.
Ma eccoci al clou: “a volte sono arrivate quelle che noi chiamiamo ‘segnalazioni postume’, ossia relative ad una sacca con del sangue che solo dopo un’altra donazione si rivelava a rischio: o perchè si scopriva che il donatore era un omosessuale o perchè aveva fatto dei tatuaggi, oppure per un piercing, o perchè aveva altre affezioni”.
Incalzato dal giudice e dall’avvocato delle parti civili, Stefano Bertone, Pagano entra in maggior dettaglio: “Dal nostro centro estero, centro che faceva capo alla Aima Plasma, arrivava una segnalazione su una sacca, segnalazione che evidentemente loro avevano ricevuto dal centro di provenienza americano. Ci veniva quindi comunicato di bloccare quella sacca o quelle sacche”.
IL MISTERO DELLE SEGNALAZIONI POSTUME
“Ma il problema sono i tempi. Quando la segnalazione arrivava le ipotesi erano due: il sangue non era stato lavorato o lo era già stato, e forse immesso in commercio. Nel primo caso io stesso provvedevo a far in modo che quella sacca venisse distrutta in un’autoclave. Nel secondo caso, non potevo far altro che segnalare il caso al mio superiore”.
E cosa faceva il superiore, a quel punto?
“Non lo so”.
Forse lo scopriremo alla prossima udienza del 9 ottobre, quando il ‘superiore’ verrà chiamato a verbalizzare. Così come il responsabile degli acquisti esteri del gruppo Marcucci.
Altra udienza clou, dunque, attraverso la quale chiarire il drammatico mistero: cosa succedeva quando si scopriva, a casa Aima Biagini, che era stata lavorata e immessa in commercio una partita di emoderivati infetti? Quale allarme suonava? Venivano allertati immediatamente Ministero della Sanità, Istituto Superiore di Sanità, Asl, Nas e tutti gli organismi pubblici preposti?
Alla domanda Pagano non ha saputo rispondere: “non so cosa poi succedeva. Il mio compito era quello di verificare tutta la documentazone e indicare quello che non tornava”.
Come nel caso – incredibile ma vero – delle cosiddette ‘segnalazioni postume’.
Del processo per il sangue infetto la Voce ha scritto più volte, potete leggere cliccando sui link in basso. E della vicenda la Voce ne scrive fin dal 1977, 40 anni fa suonati, quando realizzammo la prima inchiesta sui centri di raccolta, organizzati dal gruppo Marcucci, nell’ex Congo Belga. Un sangue che più border line non si poteva.
Così come quello prelevato massicciamente – tramite il fornitore a stelle e strisce Continental Pharma – dalle carceri dell’Arkansas. Altro sangue che più a rischio non si può, come dettaglia un docufilm, Fattore VIII, del regista americano Kelly Duda, che verrà a verbalizzare nelle prossime settimane.
La circostanza è ignota a Pagano, il quale però dichiara di conoscere che il sangue proveniente dagli Usa era tutto ‘prezzolato’, cioè da donatori pagati, quindi seriali.
AL SUPER VIROLOGO NON FAR SAPERE
Il primo teste che ha verbalizzato, in questo processo partenopeo, ad aprile 2016, è invece caduto letteralmente dalle nuvole sulla questione carceri. Si tratta di un noto virologo, Piermannuccio Mannucci, il quale interrogato sulla provenienza di quel sangue ha così dichiarato: “avevo chiesto in azienda (le sigle del gruppo Marcucci, ndr) qualcosa e ricordo che mi risposero di stare tranquillo: veniva dai campus universitari americani e dalle casalinghe”.
Tutto ok per quel professore, Mannucci, in palese conflitto d’interessi: dal momento che è stato consulente di Kedrion ed ha partecipato a diversi simposi, nazionali e internazionali, organizzati dalla stessa Kedrion, e adeguatamente gettonato.
Da ricordare che il processo di Napoli nasce a Trento quasi vent’anni fa, nel 1998. Dopo svariate peripezie, nonché la perdita di una grossa mole di materiale probatorio lungo i trasferimenti, dieci anni fa è approdato a Napoli. Quindi un’altra infinita serie di rinvii, poi finalmente l’inizio un anno e mezzo fa. Solo 9 le parti civili in campo. Ma la storia parla di migliaia di morti, almeno 4 mila, un interminabile calvario che non ha ancora fine.
E che fino ad oggi non ha trovato il barlume di una giustizia.
Come scriveva Domenico Rea, Gesù fate luce.
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