Nelle ultime settimane due avvenimenti hanno ribadito la modestia, l’autoreferenzialità e l’appiattimento sui pubblici ministeri del giornalismo italiano: lo scomposto clamore per la condanna (non per mafia) dei ladroni di Roma capitale e il tentativo di sminuire e comunque fa passare sotto silenzio le dichiarazioni della più taciturna tra i familiari di Paolo Borsellino, Fiammetta.
La sentenza di primo grado che stabilisce che Mafia capitale era solo una suggestione mediatica voluta dalla procura di Roma, che non aveva però alcuna giustificazione giuridica, ha gettato nello sconforto un gran numero di giornalisti ed esperti mafiologi o presunti tali. Come spose tradite o tenere fanciulle in fiore sedotte e abbandonate, le migliori penne della grande stampa hanno subito lanciato le loro geremiadi difronte ad una decisione del tribunale di Roma che non poteva essere diversa. Anche se in molti, tra gli specializzati in diritto, avevano pronosticato che l’impianto accusatorio di piazzale Clodio non avrebbe retto, codici alla mano, alla prova processuale, i giornalisti esperti si erano talmente sdraiati sui desiderata della procura di Pignatone da non capire che l’associazione mafiosa richiede alcuni precisi requisiti giurisprudenziali che Carminati, Buzzi e soci non possedevano e non avevano realizzato. Perché non basta dire mafia perché la mafia ci sia e che, come amava dire Giovanni Falcone, “dove tutto è mafia nulla è mafia”. D’altronde l’associazione a delinquere può assomigliare ad una cosca mafiosa ma quest’ultima ha delle caratteristiche (la cupola, i picciotti, l’intimidazione violenta, ecc.) che nella prima sono più larvate. Inoltre che a Roma agisca la mafia è cosa certa, ma quella sotto processo non era mafia.
DOVE TUTTO E’ MAFIA NULLA E’ MAFIA
A cosa dobbiamo questo clamoroso errore della procura prima e dei suoi cantori subito dopo? Dal bisogno insensato che gran parte del giornalismo italiano ha dentro di sé della creazione del clamore, del sensazionale. Bisogno che le procure tendono solitamente a soddisfare. Come se una banda di delinquenti ladri e tangentari fosse meno pericolosa di una banda di mafiosi. Si vuole equiparare anche sotto il profilo giuridico la prima alla seconda? Si cambino le leggi e non si forzi invece a proprio piacimento il codice penale.
E veniamo alle dichiarazioni esplosive e sottovalutate di Fiammetta Borsellino. Sul Corriere della Sera del 19 luglio, alla vigilia della sua audizione in Commissione antimafia, la figlia più giovane del giudice massacrato lo stesso giorno di 25 anni prima in via D’Amelio a Palermo afferma testualmente: “Questo abbiamo avuto: un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino De Matteo, altri…”.
Il riferimento di Fiammetta Borsellino è al falso pentito Vincenzo Scarantino che, imbeccato da poliziotti che sarebbero dovuti essere di primissimo livello, componenti del Gruppo Falcone-Borsellino che avrebbe dovuto indagare sulle stragi del ’92, per 17 anni ha preso per il naso diversi magistrati i quali hanno una colpa gravissima: nella migliore delle ipotesi non essersene accorti. Anzi, di più, averlo denunciato per calunnia quando lo stesso si decise a dire la verità, accusando gli stessi magistrati che, come di dice in gergo, lo stavano gestendo.
IL VERBALE SECRETATO PER ANNI
L’identificazione che Fiammetta fa tra la procura di Caltanissetta e la massoneria è di una gravità che da sola meriterebbe un approfondimento del ministero di Giustizia. Così come le accuse dirette ad alcuni magistrati della stessa procura. E invece silenzio di tomba. Forse perché tra quei magistrati di Caltanissetta (non importano la Palma e Petralia che icone non sono) c’è colui che è diventato l’ultima icona dell’antimafia, quel Nino Di Matteo, titolare dell’interminabile processo sulla trattativa Stato-mafia, ora passato alla Dna, la Direzione nazionale antimafia. Di Matteo, considerato un super magistrato dalla stampa italiana e non solo, quand’era assegnato a Caltanissetta non si accorse che Scarantino mentiva, rifilandogli balle clamorose e facendo nomi di altri non mafiosi finiti tutti condannati. La procura dove lavorava Di Matteo – che ora, stando a quanto scrivono i giornali, aspira ad entrare nel prossimo Parlamento nelle file dei 5 stelle e che dalla sindaca di Roma Virginia Raggi ha avuto l’onorificenza della cittadinanza onoraria – non credette invece ad altri tre pentiti, questa volta veri, che in un verbale misteriosamente rimasto segretato per diversi anni, spiegavano, non senza punte di animosità, che Scarantino era un balordo manovrato che raccontava un sacco di fandonie.
Il solo accostamento di Di Matteo a quella orribile vicenda, che ha depistato in maniera grave (e per ben 17 anni) la ricerca della verità sul delitto Borsellino e della sua scorta, ha sollevato altre geremiadi della solita stampa ben informata. Che c’entra Di Matteo. Di Matteo era solo un giovane magistrato alle prime armi. Un errore di gioventù. O al massimo una distrazione. Insomma Di Matteo non c’era. O se c’era dormiva. Parafrasando Brecht: disgraziati quei giornalisti che hanno bisogno di icone.
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