CASO ALPI / LEGALI IN CAMPO CONTRO L’ARCHIVIAZIONE: E’ DEPISTAGGIO DI STATO, TUTTO PASSI A PERUGIA

Il giallo dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin si colora di un’altra puntata. Dopo l’incredibile richiesta di archiviazione avanzata dal gip della procura di Roma Elisabetta Ceniccola, ecco arrivare l’opposizione a quella richiesta, presentata dagli avvocati della famiglia di Ilaria, Domenico e Giovanni D’Amati, con la consulenza dell’ex magistrato e ora legale Carlo Palermo. Un’opposizione che documenta in modo minuzioso errori, orrori & omissioni contenute non solo nella richiesta di archiviazione ma in tutto il rocambolesco iter giudiziario che dura da 23 anni, uno dei buchi neri più atroci della storia d’Italia.

Carlo Palermo. Nella foto grande Ilaria Alpi

Carlo Palermo. Nella foto grande Ilaria Alpi

Ancor più atroce dopo la fresca sentenza di Perugia, che ha assolto il capro espiatorio, il giovane somalo che s’è fatto 16 anni di galera da innocente: un colpevole costruito a tavolino, dai Servizi e non solo di casa nostra, dalle nostre ‘istituzioni’ per dar vita ad un maxi depistaggio di Stato, come documenta la sentenza di Perugia, nega il gip Ceniccola e ora riaffermano – in modo che più documentato non si può – i legali che assistono l’indomita Luciana Riccardi, la madre di Ilaria che ha ancora la forza di chiedere verità e giustizia.

La Voce ha scritto diverse inchieste sul giallo, l’ultima un paio di settimane fa che potete leggere cliccando sul link in basso (ma trovate anche altri articoli). Di seguito cerchiamo di sintetizzare alcuni punti caldi illustrati nell’opposizione appena presentata da Domenico e Giovanni D’Amati.

UN DEPISTAGGIO CHE DURA DA 23 ANNI E CONTINUA ANCHE OGGI

Partiamo da uno dei tasselli base. Ossia dal depistaggio. Che il gip Ceniccola nega perchè – sostiene – la norma approvata un anno fa dal nostro parlamento, proprio a luglio 2016, non può avere valore retroattivo e riguardare reati compiuti tanti anni fa.

I legali della famiglia, invece, dimostrano con grande efficacia come il depistaggio non sia una cosa di anni fa, ma sia ben operativo, vivo e vegeto anche oggi. Così infatti scrivono: “La sentenza della Corte di Perugia risulta depositata il 12 gennaio 2017 e quindi sino a questo momento il somalo Hashi Omar Hassan (l’innocente che s’è fatto 16 anni di galera, ndr) risultava ‘condannato’ sulla base dei depistaggi dichiarati nella sentenza di assoluzione: ciò significa che sino a quella data anche nell’attuale ancora aperta istruttoria pendente dinanzi alla Procura di Roma sui responsabili degli omicidi avvenuti nel marzo del 1994, il depistaggio in atto risultava ancora in essere e operava nel procedimento della Procura di Roma, ostacolando e deviando le indagini ancora in corso. In sostanza – chiariscono i legali – la sentenza di revisione ha non solo accertato depistaggi avvenuti in passato ma anche depistaggi presenti tuttora in quanto le indagini sui tragici fatti del 1994 risultano essere state depistate da allora sino ad oggi, tant’è che il processo è sino ad oggi proseguito nei confronti di altri autori non identificati, sia pure senza individuarli proprio in conseguenza dei depistaggi sino ad oggi avvenuti”.

E, su questo versante, concludono: “Ciò significa, parrebbe, che debba escludersi (specie con una valutazione a priori, come invece fa la Procura) che possa essersi già verificata la prescrizione di condotte depistanti senz’altro protratte sino ed oltre il gennaio 2017”. Più chiari di così.

Luciana Riccardi, madre di Ilaria Alpi

Luciana Riccardi, madre di Ilaria Alpi

Di estrema gravità il comportamento di una procura che nemmeno dopo sei mesi dalla clamorosa pronuncia di Perugia già chiede l’archiviazione, senza compiere grandi sforzi sul versante dei tanti atti istruttori chiesti dai legali della famiglia Alpi.

Rispetto alle svariate condotte depistanti illustrate da Perugia, infatti, è incredibile come la procura di Roma “pervenga a richiedere una preventiva e aprioristica pronuncia generalizzata di archiviazione nemmeno 6 mesi dopo che le stesse siano divenute ipotizzabili e formulabili e questa volta formulate (o non formulate) dalla Procura di Roma non già su ‘notitiae criminis‘ ipotizzate o riconducibili a ‘giornalisti’, o comunque soggetti esterni al processo, bensì da una Corte d’appello dello Stato (Perugia, ndr), le cui argomentazioni, enunciazioni, pronunce e motivazioni vengono nella sostanza confutate e disattese dalla Procura di Roma con la attuale richiesta di archiviazione”.

Per la solita guerra tra procure, dove a rimetterci l’osso del collo è sempre il cittadino: in questo caso la giustizia e la memoria di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Uccisi, è il caso di dirlo, una seconda volta.

Incalzano ancora, i legali, sulle colpe romane, scrivendo, ad esempio, di “responsabilità soggettive comunque riconducibili in parte (sulla base della notitia criminis enunciata dalla Corte di Perugia) anche al proprio ufficio, forse ai propri magistrati, a propri organi investigativi, a proprie imputazioni e a proprie accuse formulate e sostenute (sino ad oggi) contro soggetti risultati, alla fine, incolpevoli e scarcerati dopo ritenute ingiuste condanne e solo dopo interventi di terzi e, quindi, con prospettabili violazioni di precetti costituzionali e processuali a presidio dei principi di un giusto processo celebrato nel corretto contraddittorio delle parti: e non attraverso prove raccolte con depistaggi e successive verifiche eseguiti in contraddittori mancati attraverso fughe preorganizzate”.

L'avvocato Domenico D'Amati

L’avvocato Domenico D’Amati

E’ la incredibile vicenda – che potete leggere nelle inchieste della Voce – della mancata deposizione in tribunale del super teste Gelle, poi coccolato dalla polizia che gli trova un lavoro, lo va a prendere a casa per condurlo in officina e se lo lascia scappare sotto il naso, con un tranquillo viaggio che parte dall’Italia, fa tappa in Germania, e approda in Inghilterra, destinazione Manchester, dove anni dopo lo troverà con gran facilità l’inviata di ‘Chi l’ha vista’ Chiara Cazzaniga alla quale Gelle dirà che è stato comprato e pagato dai nostri Servizi per accusare Hashi, il capro espiatorio. La polizia di casa nostra, invece, non l’ha mai trovato, chissà perchè…

DALLA LAND ROVER AI TRAFFICI DI ARMI

La super memoria dei legali di Luciana Riccardi passa poi ad illustrare una serie di punti controversi, di misteri rimasti irrisolti, di piste mai seguite fino in fondo. Eccone alcune.

Si parte dalla Land Rover usata dal commando omicida, una vicenda in cui si trovano pesanti tracce di responsabilità del “Ministro delle Finanze somalo” dell’epoca. Le Land Rover blu – come quella usata – del resto solitamente provenivano dall’autoparco della polizia, circostanza che può chiarire non poche cose. In particolare l’auto sarebbe appartenuta a Mohamed Sheik Osman, ex ministro delle finanze nel governo guidato da Siad Barre, poi riciclatosi nell’esecutivo Aidid.

Scrivono oggi i legali, chiedendo che sul punto la procura di Roma faccia una buona volta chiarezza: “In conclusione, parrebbe emergere una evidente riconducibilità dell’auto usata dal commando all’ex Ministro delle Finanze somalo”.

C’è poi la questione bollente dei traffici di armi, contenuta in un apposito capitolo della memoria significativamente titolato “Verifica delle risultanze sui traffici di armi con l’indicato Ministro delle Finanze somalo e il Sisde”.

Si parla di vari traffici d’armi, alcuni partiti anche dal porto di Gaeta, vien fatto riferimento a un’inchiesta-intervista di Maurizio Torrealta a un trafficante d’armi, tale capitano Jhoar, in cui si parla ancora dell’ex ministro somalo e del Sisde. Scrivono i legali: “anche su tale punto investigativo, che si chiede di approfondire, emerge la riconducibilità al capitano Jhoar della ipotesi riguardante il ministro delle finanze somalo con il Sisde di svolgimento di operazioni di traffici d’armi”.

Maurizio Torrealta

Maurizio Torrealta

A suo tempo la Digos di Udine raccolse una serie di materiali scottanti sui traffici di armi, sulla scorta delle verbalizzazioni di alcuni ‘collaboratori’. Gli avvocati della famiglia Alpi scrivono proprio a proposito delle “informative di Udine dal 24 giugno 1995 al 20 marzo 1996 in cui espressamente si parla di traffici di armi di Giorgio Giovannini (definito amico di Bettino Craxi e conosciuto da Marocchino) con Siad Barre e in seguito con Ali Mahdi, utilizzando le navi della Shifco. Si indicano Giovannini, Mugne e suo fratello, Said Marino, come coinvolti nell’omicidio. Viene spiegato che gli spostamenti dei due giornalisti erano noti ad Abdullahi Mussa, il ‘Sultano di Bosaso’, ad Ali Mahdi e a Marocchino e che a costoro è da imputare la decisione di procedere all’esecuzione. Si fa il nome di Craxi e Pillitteri come legati a questo giro di persone da interessi economici”.

IL SUMMIT PER L’OK ALL’ESECUZIONE

Continua la ricostruzione di quelle informative targate Digos di Udine: “Le informative precisano che si sarebbe svolta una vera e propria riunione per prendere la decisione e organizzare l’omicidio. Vengono in particolare indicati i nomi di coloro che avrebbero partecipato a questa riunione: Ali Mahdi, Bogor (il Sultano di Bosaso), Mugne, Marocchino, Gilao e Mohamed Sheik Osman, ex ministro delle finanze del governo Barre. Viene sommariamente descritta la dinamica dell’omicidio e si riferisce che subito dopo l’agguato Marocchino si sarebbe impossessato di tre fogli strappati dal bloc notes di Ilaria Alpi”.

Entra in campo, a questo punto, la ‘memoria storica’ di Carlo Palermo, per anni magistrato di prima linea, con le sue inchieste capace di alzare il velo sui primi traffici di armi ‘istituzionali’ e la creazione dei primi, giganteschi fondi neri. Per questo subì un attenato dal quale scampò per puro miracolo.

Nell’opposizione, infatti, un corposo capitolo è dedicato proprio al collegamento che esiste tra i traffici anni ’90, sui quali indagava Ilaria, e quelli di dieci anni prima, gli ’80, che avevano visto  le indagini di Carlo Palermo magistrato in Sicilia, poi passato a Trento.

Viene scritto nella memoria firmata D’Amati-Palermo: “La presenza della figura istituzionale del ministro della finanze somalo nei traffici d’armi della Somalia a livello governativo risale quantomeno a dieci anni prima, ovvero al 1982, occasione precedente nella quale già emergeva il ruolo della stessa organizzazione e in particolare dell’attività per essa svolta dal siriano Monzer al-Kassar, il cui nome è presente negli atti del processo sull’omicidio di Ilaria Alpi. Tali responsabilità e ‘qualità’ risultano documentate negli atti dell’istruttoria di Trento (all’epoca curata da Palermo, ndr) con operazioni di forniture illecite (con tangenti) di carri armati ed elicotteri (dapprima americani poi italiani) attraverso operazioni Usa / Italia gestite in particolare dai nostri Servizi (generale Santovito, poi generale Lugaresi, direttori del Sismi, presidenza Craxi / Pillitteri / Associazione Italo-Somala, interventi per la cooperazione) e personaggi politici e industriali legati al Psi”.

Giancarlo Marocchino

Giancarlo Marocchino

In sostanza, “i collegamenti e traffici del 1982 si ripropongono nel 1992 tra personaggi somali di alto livello e della medesima collocazione politica in Somalia con personaggi dei Servizi italiani, dei Servizi Segreti USA, di intermediari siriani”.

Non è certo finita. Perchè i legali della famiglia Alpi chiedono di approfondire anche altri misteri rimasti irrisolti, e gravitanti sempre nell’orbita dei traffici di armi (e di rifiuti tossici) lungo l’asse Italia-Somalia negli anni.

IL RUOLO DI GIANCARLO MAROCCHINO

Si parte dalle “uccisioni di Li Causi Vincenzo (Centro Operativo Scorpione) e di Marcello Mandolini (paracadutista), in particolare tenuto conto della emersa intercorsa correlazione tra essi e Ilaria Alpi nelle vicende processuali anteriori all’uccisione di quest’ultima”.

Entra poi in scena uno dei personaggi chiave di tutta la vicenda, l’uomo di tutti i segreti, il quale ha incontrato per ultimo Ilaria e Miran: Giancarlo Marocchino. I legali chiedono che vengano riacquisiti gli atti del “procedimento penale a carico di Marocchino per concorso, detenzione, porto, trasporto e cessione di armi in Somalia nel 1993 aperto presso la procura di Roma il 2 ottobre 1993 e ‘chiuso’ con la richiesta di archiviazione a firma del pm Pietro Saviotti il 14 aprile 1994”.

Su Marocchino, poi, viene chiesta la testimonianza di tale Marco Zaganelli, il quale vent’anni fa esatti, 7 agosto 1997, davanti ai carabinieri di Vico Equense verbalizzava su una serie di traffici di rifiuti tossici tra Italia e Somalia, dopo averne parlato proprio con Marocchino: Marocchino – dichiarò Zaganelli – “faceva riferimento non solo al carico specifico, ma se avesse trovato il canale si poteva realizzare un business duraturo nel tempo”.

Quindi, viene chiesta l’acquisizione all’attuale indagine del “procedimento relativo alla uccisione (pare: da ‘fuoco amico’) dei due paracadutisti Giorgio Righetti e Rossano Visioli, avvenuta il 15 settembre 1993 a Mogadiscio.

Infine, si chiede un’altra acquisizione, stavolta relativa al “procedimento istruito nel 1998 dalla procura di Asti nell’ambito dell’inchiesta su Marocchino, Scaglione, Garelli, Raiola, con riferimento alle conversazioni intercettate tra Faduma Aidid e tale Ahada relative al movente e alla decisione relativa alla uccisione di Ilaria Alpi”.

Ma la richiesta principale avanzata dal collegio difensivo riguarda l’incompetenza della procura di Roma a svolgere le indagini e chiede la trasmissione di tutti gli atti processuali a quella di Perugia.

Evidenziano infatti: “La ‘competenza’ dell’organo alla effettuazione di tali atti d’indagine potrebbe ritenersi di spettanza della Procura della Repubblica di Perugia e non già di quella di Roma, considerato anche che la competenza del giudice, funzionale o territoriale che sia, appare comunque preliminare rispetto a ogni valutazione di merito debba dalla medesima essere eseguita con sufficienti garanzie di terzietà, di assenza di interesse personale e di rispetto dei principi del contraddittorio”.

 

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